CONIGLIO ALLA PORTOGHESE

 

 

I cacciatori preparano da parecchi giorni la grande battuta che sarà forse l'ultima dell'anno. È la selvaggina il piatto forte della festa, e ce ne sarà per tutte le mense alla cena di mezzanotte.

Soffia la tramontana e il cielo è a neve. Partono che è ancor buio, a comitive, col fucile sotto la mantellina, il viso imbacuccato in grosse sciarpe di lana, il cappuccio in testa e le uose di pelle ai piedi. Si sento­no le loro grida, i richiami, i battibecchi e l'uggiolio festoso dei cani. È un Natale rigido come gli altri, rallegrato dalla visione delle luci, dei globi ancora acerbi delle arance e dei fiocchi di bambagia tra le fronde di sparagio nel presepe. I cantori ambulanti intonano le ultime strofette natalizie al suono degli zufoli, dei sistri e delle chitarre. Anche i cac­ciatori, battendo cogli scarponi sull'erba gelata e scricchiolante come se fosse di vetro e soffiandosi tratto tratto ora in una mano ora nell'al­tra per non intirizzire, canticchiano fra i denti:

Alla notte di Natale

ci fu un fatto principale...

Torneranno tutti alla sera, alla spicciolata, carichi di bottino. Alle ringhiere dei balconi, alle porte e alle mensole delle botteghe si vedranno appesi per le zampe i conigli e le lepri col muso insanguinato e gli occhi vitrei, e per il becco i colliverdi, le pernici e le beccacce con le ali spezzate dal piombo. Poi è un continuo scuoiare, un nevicare di piume variopinte nelle cucine. Si levano gli odori dei manicaretti tradi­zionali, delle salse piccanti e dei soffritti. Nel più grande vassoio troneggia l'insalata all'agrodolce di cardi, di spinaci, di sedani, di finocchi, d'acciughe e di mollica, imbrillantata da chicchi di melagrana e fettine d'arancia e di limone. Il coniglio e la lepre, a pezzi, riposano ap­petitosamente nell'intingolo alla portoghese di sedani, olive, capperi, pinoli, uva passa e chiodi di garofano: eccoli trionfalmente in tavola, mentre nelle strade si cominciano finalmente a sentire le cornamuse che fanno pensare con un infantile incanto alla neve e dalla chiesa arri­vano i primi tocchi delle campane. È già l'ora di andare a messa, così presto sono passati questi giocondi momenti della mensa. Si sgranoc­chiano ancora i dolciumi natalizi preparati in casa, di miele, uva, pasta di mandorle e fichi, le guance sono accese, gli occhi brillanti, soffia la tramontana e il presepe nella neve di bambagia risplende di luci col Bambinetto di cera fra gli Angioli e i pastori.

 

***

Allora era in casa dei nonni che si faceva la cena di Natale. La pic­cola tavola di tutti i giorni diventava immensa per accoglierci. Non re­stava quasi più spazio in quella stanza stretta e bassa col soffitto a travi dalle quali pendevano le lunghe reste di pere e mele fragranti e i grap­poli d'uva conservati per l'inverno. La tovaglia era la più bella, di lino di Fiandra, le stoviglie di maiolica, le posate di argento con la cifra, quelle dello sposalizio dei nonni. Tutto era luminoso e pieno di festa. Dalla cucina arrivavano gli odori ghiotti che ci facevano bramosamente palpitare le nari: nel riposante gaudio che era nell'aria la zia perdeva la sua abituale severità e ci concedeva di gustare in anticipo un dolce o un poco di quell'insalata che era la sua specialità. La nonna nel suo vestito di gala color cannella, dal corpetto a sbuffi e lo sparato di lino a pieghe fini quasi invisibili, appariva più bianca e maestosa, col grande viso ova­le, levigato e malinconico come un medaglione d'avorio: essa andava e veniva dalla cucina alla sala da pranzo, badando che tutto fosse in ordi­ne per far bella figura col genero che capitava in casa soltanto nelle so­lennità. Tutta la gente di servizio era in moto, Agata per l'occasione aiu­tava bravamente Rosa e la zia, mettendo il becco da per tutto, mentre noi intanto per ingannare l'attesa giocavamo alle nocciole coi garzoni.

Il nonno e il babbo venivano su all'ultimo, accalorati e sorridenti, continuando con piacevolezza i discorsi gravi intavolati nello studio. Quella sera essi si trovavano perfettamente d'accordo su tutto, non c'e­ra la minima divergenza fra le loro idee sull'agricoltura, sulla politica e sulla religione. La mamma, il cui viso era più roseo e giovanile del soli­to, se ne stava silenziosa a sentire e a guardare con una timida dolcezza d'invitata, ma era felice che quella festa fosse nella casa dove aveva tra­scorsa la fanciullezza e il suo cuore s'era aperto ai primi incantevoli so­gni. Che le restava più da desiderare? Il futuro sarebbe stato certo si­mile al passato, come un fiume tranquillo rallegrato nel viaggio dai fio­ri sbocciati dal suo amore.

Finalmente il segno era dato: il nonno e il babbo sedevano ai due capi della tavola, e noi intorno come una nidiata, tanti eravamo. I bro­di densi di pernice, di beccaccia e di cappone dalle brulicanti lagrime di grasso, con le pallottoline di carne e i crostini, fumavano soavemen­te, le carni e le salse esalavano inebrianti profumi. Le vivande non si contavano più: la pasta al miele, i cardi all'aceto, i finocchini ricci, il falsomagro, gli spinaci con le acciughe, la beccaccia infarcita, la per­nice all'uovo coi funghi, il salmì coi pinoli, i fegatelli di capretto e infi­ne, prima dei dolci casalinghi preparati dalla nonna secondo la ricet­ta delle monache, il coniglio alla portoghese, piatto culminante della serata.

Il nonno allora non andava più a caccia, ma gli amici e i clienti non mancavano di portargli un'infinità di selvaggina da bastare fino a Ca­podanno. Egli prendeva soltanto un boccone di tutte quelle vivande, masticando lentamente e bevendoci sopra piccoli sorsi di quel vino bianco dove si sentiva con una fresca fragranza l'essenza delle foglie d'amarena e della buccia d'arancia: intanto c'incoraggiava sorridendo a far onore alla tavola, a mangiare una volta tanto, più che non compor­tasse la sua rigida regola, per sé e per gli altri, di medico all'antica.

Il babbo non si lasciava pregare: contrariamente al solito era loqua­ce e come ringiovanito, dimenticava gli affanni, gli acciacchi e le preoc­cupazioni per l'avvenire che abitualmente lo assillavano di più a pran­zo, e facendo il prosit alla nonna e alla zia trovava eccellente ogni pie­tanza e addirittura portentoso quel vino. Anch'egli con la nostra stessa golosità aspettava il coniglio col contorno piccante, sapido e odoroso, si lasciava volentieri riempire il piatto dei pezzi migliori e ne lodava con espressione esagerata la bontà, tanto che la nonna ne metteva subi­to da parte una bella porzione per mandargliela l'indomani a casa.

Infine, in un silenzio improvviso e pieno d'una gioiosa aspettazio­ne, il nonno alzava il bicchiere e con la sua voce grave e sentenziosa fa­ceva un lungo sermoncino, di cui riuscivamo a capire soltanto nel suo pieno significato la frase finale: «Alla vostra salute!». Risonavano le no­stre grida, i bicchieri tintinnivano armoniosamente, e il babbo, in pre­da a una fanciullesca letizia che gli sfavillava dagli occhi, alzava di nuo­vo il suo e guardando la mamma, che continuava a sorridere con la stessa timida dolcezza, diceva con festosa solennità: «Alla fortuna e alla felicità dei nostri figlioli!». Questo brindisi aveva per noi una straordi­naria importanza, perché il nonno, nonostante avesse già bevuto il sor­so di vino che s'era versato, cosa veramente insolita, riempiva con gra­vita il bicchiere fino all'orlo e lo vuotava lentamente, rivolgendoci at­traverso il cristallo uno sguardo benevolo e luminoso.

Arrivava in quel momento lo scampanio della Matrice: era l'ora della messa, bisognava affrettarsi. Le donne sparecchiavano, anche il babbo e il nonno andavano a prepararsi per uscire. Era stabilito che noi saremmo andati con tutti gli altri in chiesa, e imbambolati e stanchi chiedevamo i loden e le sciarpe; ma sul più bello chinavamo a uno a uno il capo sulla tavola, e senza neppure saperlo, tentando invano di ribellarci, passavamo dalle braccia di Agata e di Rosa nel calduccio del letto dove la zia, con la sua solita previdenza, aveva messo da un pezzo lo scaldino.

 

Il Tevere, 28 dicembre 1929