ITALO CALVINO
Due movimenti opposti animano la
scrittura dei Mimi di Francesco Lanza: quello lieve e attento di una
prosa limpida ed evocativa, e quello astioso e tristo del lazzo paesano, del
feroce dileggio. Il genere di narrazione popolare orale alla cui trascrizione
egli applicò la sua arte e il suo gusto — in un'epoca in cui le coordinate
culturali d'un simile esercizio erano stilistiche e morali, non più e non
ancora « scientifiche », « demopsicologiche », «
sociologiche », « semiotiche », come sarebbe stato quarantenni prima o
quarantenni dopo — è il più elementare e labile: la facezia rustica, la
barzelletta contadina, la storiella di sciocchi e di cornuti.
Per l'etnologo o il psicosociologo o il semiologo (o per il letterato intinto in questa bagna) un campione d'un centinaio di storielle, molte delle quali salaci, tutte provenienti da un'area culturale delimitata, costituiscono una ricca e rara ghiottoneria. (Ricco e raro oggetto di studio è già stata e merita d'esserlo ancora tutta l'opera di Lanza, per il critico stilistico e lo storico del gusto letterario italiano tra « Voce » e « Ronda », ed è strano non lo sia stato ancora quanto merita per il critico e lo storico interessati ai rapporti tra « letteratura e popolo », tra modello estetico e impegno illuministico, magari sviluppando il confronto con Jahier, già proposto, vivente l'autore, da Ceccbi). Io mi limiterò a qualche riflessione su queste storielle, come istituzioni del mondo culturale contadino e come scelta espressiva dello scrittore Lanza.
I Mimi siciliani sono una
raccolta di storielle tutte d'una varietà assai peculiare: alla comicità « disinteressata
» della barzelletta si sovrappone in esse la carica d'aggressività delle
contese di campanile. Ogni storiella fa perno su un protagonista comico — colui
del quale si ride, — che è designato con un toponimico: il calascibettese,
il raddusano, il mistrettese.
Su quell'articolo determinato gravita la violenza denigratoria che fa d'ogni
storiella un atto di sopraffazione, lo strumento d'una interminabile faida di
poveri. I nomi dei paesi sono, credo, in larghissima parte intercambiabili ;
vano è cercare di dedurne una tipologia, un repertorio di caratteri: voler
definire, per esempio, in base alle ricorrenze dei comportamenti narrati, gli aidonesi come testardi, o i mazzarinesi
come pigri. I « caratteri », in verità, non sussistono che in misura minima; la
varietà dei vizi s'impasta nel gran calderone della stoltezza umana: le storie
che in ogni regione s'attribuiscono tradizionalmente a un « paese degli
sciocchi », a un luogo deputato dalla tradizione a quel ruolo, qui sembra che si
distribuiscano quasi equamente alle spese del barrafranchese e del brontese, del modicano e del caltagironese. Per il lettore
che (come io ora) riceve il libro avulso da tutti i suoi contesti, i nomi dei
paesi sfumano in una geografia fluida e arbitraria: il solo luogo che possono
evocare è qualcosa come un accampamento di braccianti ai margini del coltivo
nell'ora della siesta, dove a turno il pietraperzese
o il castriannese viene « messo in mezzo », escluso
dalla comunità, inchiodato alla definizione emblematica consegnata una volta
per tutte alla facezia. La vittima non ha rivalsa possibile se non nel
raccontare un'altra storia in cui lo scherno colpisca il nicosiano o il buterese, e ristabilisca l'equilibrio, a un grado sempre
più basso.
C'è però un livello che pare il più
basso di tutti ed è quello cui viene condannato il piazzese, considerato
addirittura fuori dell'umanità, non cristiano; è questo un personaggio che più
degli altri assume caratteristiche fisse, di maschera (con un suo intercalare:
ahbò); le storie che lo riguardano cominciano
a bollarlo fin dal titolo e ribadiscono la sua predestinazione nella clausola
finale: come il piazzese che era. Questo accanimento nello spregio si
rivela anche dallo stile, che raggiunge — in una delle storie più feroci —
punte di delirio verbale espressionista, come i versi: stronzino stronzicolo - parla piazzesicolo.
È un'animosità personale di Lanza che viene a incrinare l'equanimità del suo
pessimismo universale? O è il segno che nella mutua denigrazione degli oppressi
c'è sempre qualcuno più denigrato e più oppresso di tutti?
Ho detto equanime il pessimismo di
queste denigrazioni, ma subito devo annotare delle diversità o almeno delle
sfumature nel trattamento riservato agli uni o agli altri. Dalla bibliografia
sull'autore apprendo che quelli che egli chiama i caropipani
sono i suoi compaesani (di Valguarnera, anticamente
detta Caropepe), e mi vien fatto d'osservare che i caropipani ritornano nei Mimi non come sciocchi ma come
ladri (in un caso come cornificatori, cioè ladri di
donne) : definizione denigratoria anche questa, ma attiva anziché passiva.
Distinzione che qui conta molto, in
quanto mentre le « storie di sciocchi » sono la gran maggioranza, le « storie
di furbi » in cui il furbo o briccone viene designato dal nome d'un paese, sono
pochissime, e quasi sempre un altro nome di paese vi designa l'antagonista
sciocco. Sono dunque questi i pochi casi in cui la storiella si firma, si
dichiara come quella che l'adernese racconta per
imporre la sua superiorità sopra il brontese.
Pure nella sequela delle storie di corna; mentre il cornuto riceve sempre nome
dal suo paese, raramente per il cornificatore
s'indica il nome d'un paese rivale; più spesso questo personaggio — negativo
anch'esso ma superiore all'altro per astuzia e per prestanza fisica — è
indicato anonimamente come il compare. Ora è sottinteso che se il
cornuto è il troinese o il mistrettese,
il compare che lo cornifica sarà con ogni probabilità un suo compaesano; però
l'intenzione infamante della storiella sta nell'identificare il paesano tipico
con il gabbato e non col gabbatore.
La speciale cattiveria di queste
storielle sta nel castigare quasi sempre non una colpa ma una mancanza.
Vediamo che, in questo campionario d'un centinaio di storielle sui vizi umani,
non ce n'è nemmeno una che appartenga allo sterminato filone delle barzellette
sugli avari. Mentre ogni area culturale ha i suoi « scozzesi » cui attribuirle,
si direbbe (sempre a giudicare da questo repertorio) che i siciliani ne
manchino. (A meno di considerare avaro il mazzarinese
che soffia dentro un sacco volendo mettere in serbo il fiato per quando
potrebbe mancargli). Dobbiamo inferirne che siamo in un mondo troppo povero
perché l'avarizia vi muova l'immaginazione satirica? O piuttosto è segno che
l'intenzione di queste storielle non è moralistica ma oltraggiosa, e l'avarizia
(eccesso nel senso del possesso e non della mancanza) è peccato che non
comporta scherno come la stoltezza (mancanza d'intelletto), né infamia come le
corna (mancanza di onore patriarcale o di potenza sessuale), né vergogna come
la lussuria (specie femminile, mancanza di pudore, di civiltà nei costumi), né
scomunica come l'ignoranza sacrilega (mancanza di civiltà religiosa) ? Se la
morale cristiana, — il Discorso della Montagna — è trasformazione della
mancanza da disvalore in valore, queste storielle (come già le « parità » e le
storie raccolte dal Guastella) possono pure essere
dette un « antivangelo »: segno d'una resistenza sorda del mondo dei poveri ad
accettare la mancanza come un valore. Antivangelo regressivo e reazionario:
alla mancanza non c'è riscatto, le denominazioni geografiche sanciscono una
predestinazione, gli ultimi non saranno mai i primi.
Secondo l'« anatomia » di Northrop Frye potremmo
classificare questi Mimi come « commedia ironica » in quanto rito
d'esclusione del capro espiatorio dalla società, ed è naturale che in un buon
numero di storielle l'escluso sia l'ignorante in fatto di religione, colui che
commette balordaggini o indecenze nel suo rapporto con la chiesa e con i santi.
Ma la difesa del retto comportamento cristiano che parrebbe attuarsi attraverso
l'ironia riguarda solo le forme e resta estranea allo spirito. Si veda la serie
dette storie sulla sacra rappresentazione paesana, basate sulle reazioni
fisiologiche troppo umane del villano posto sulla Croce a far da Cristo. Qui
l'opposizione sacro-profano (lo scandalo) su cui si basa la comicità detta
storiella, può esser detta di secondo grado rispetto all'opposizione
sacro-profano (lo scandalo) in cui già consiste l'efficacia poetica della
Passione secondo il Vangelo: il Vangelo racconta una storia di strumenti di tortura,
soldati, folla urlante, ladroni, malefemmine e la
riferisce a un significato sacro; la storiella paesana compie un'operazione
simmetrica (e in fondo ridondante e tautologica) facendo insorgere i segni
profani contro il sistema dei simboli sacri.
Non per nulla la vittima di tutte le
mancanze, lo stolto, è personaggio così importante d'ogni folklore narrativo,
e ha un posto di rilievo nella narrativa orale siciliana, come testimonia il
ciclo di Giufà, di cui Pitré
raccolse un ricco repertorio. Giufà, come il Goha arabo, è una maschera fuori dallo spazio e dal tempo
cui si fa assumere tutta la stoltezza universale per allontanarla dalla
comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma
narratore e ascoltatore netta loro superiorità sul mondo degli stolti. Tra le «
storie di sciocchi » quelle della varietà raccolta da Francesco Lanza si
differenziano dalla varietà « Giufà » in quanto
rispondono a un impulso più aggressivo: il narratore localizza la stoltezza in
un luogo, l'avvicina (può essere il paese d'uno degli ascoltatori o d'un
conoscente oggetto di dileggio) per marcarne il confine e sancire non tanto la
superiorità della propria etnìa quanto l'inferiorità
dell'altra. Che questa funzione aggressiva si innesti sulla funzione primaria
d'allontanamento della stoltezza, è testimoniato da una delle storielle di
Lanza (Giufà e il mazzarinese),
continuazione o contaminazione o parodia d'una notissima storiella di Giufà, quella delle mosche e il giudice: per provare che il
mazzarinese è più sciocco ancora di Giufà.
Alla varietà « Giufà
» appartengono le storielle arabe che Lanza aggiunse in appendice alle
siciliane (Mimi arabi): lo sciocco vi porta nome proprio di persona e la
querela tra villaggi non sussiste o non appare a noi. Il risultato è che
(nonostante l'affinità — e in qualche caso identità — tematica) l'accento di
violenza riottosa viene meno. (L'ultima della serie però potrebbe essere una
delle storielle che gli arabi raccontano per dileggiare i negri: ma lo dico
tirando a indovinare; troppi elementi mi sfuggono).
Le storielle siciliane contro i
calabresi sono in questo libro gli unici casi in cui la faida campanilistica
fa tregua per lasciare il campo alla faida interregionale. Il calabrese è
imputato non solo di madornale stoltezza ma pure di violenza cieca e
truculenta (un peccato che — a quanto risulta da questi testi — sembra che non abbia
riscontro nell'isola...).
Nate da una tradizione sociale ed
esistenziale in cui non resta altro sfogo alle frustrazioni dei poveri che
l'umiliarsi a vicenda, queste storie ignorano il mondo dei ricchi, all'opposto
di quel che avviene nelle fiabe, in cui i poveri e i principi sono due mondi
contrapposti ma di cui si tiene viva la speranza d'una miracolosa comunione.
Qui, come manifestazione del remoto mondo del potere, solo appare, in alcune
storielle, il re; ma la derisione è sempre rivolta ai paesani (come in certe
storielle continentali su Vittorio Emanuele II in visita a Cuneo) o al sindaco
(potere non rispettato perché proveniente dal basso, come nella sola storiella
politica — o meglio antipolitica — del libro, I tredici sindaci di San
Cataldo). Invece troviamo una clamorosa chiamata in causa del problema
demografico (La chiesa di Bronte).
Il povero si consola deridendo il
pezzente: la storiella a più alto potenziale di disperazione è per me Il
grembiule della pierzese; una donna è tanto abituata
agli stracci e alle toppe che quando le regalano un grembiule nuovo lo
sforbicia per rattoppare quello vecchio. In questa, come nella maggior parte
delle altre storielle, la comicità nasce dall'opposizione di due ordini di
conseguenze entrambi logici la cui mutua conferma provoca un effetto di
sproporzione paradossale (secondo la terminologia di Violette Morin, autrice d'una delle prime analisi del meccanismo
delle barzellette, le dovremmo classificare come « a disgiunzione referenziale
in articolazione bloccata »), ma l'elemento specifico è che questo paradosso
nasce da una situazione di mancanza, di penuria, di fame. Volendone
formalizzare il meccanismo, proporrei uno schema molto semplice:
La pierzese
è così stracciata (1) che tutti i panni le servono per fare toppe; (2) che ha
bisogno di un grembiule nuovo. Risultato: si farà le toppe col grembiule
nuovo.
Il piazzese è così improvvido e
intempestivo (1) che muore d'improvviso; (2) che interrompe la moglie mentre
scodella la pappa calda. Risultato: moglie e figlio prima mangeranno la pappa,
poi piangeranno il morto.
Il cesarottano,
per la lunga astinenza sessuale durante i lavori agricoli, torna a casa così
voglioso (1) che infuria sulla moglie come un toro; (2) che la moglie
spaventata lo para con la mano. Risultato: E lui, tutto focoso: — Levatevi
la mano vi dico, che ve la buco!
Se i rapporti tra persone si stabiliscono sotto il segno della mancanza, i rapporti con i luoghi sono altrettanto ridotti. Più che i luoghi sono i nomi dei luoghi a muovere l'avversione o l'attrazione. (Attrazione che è presente in una sola storiella, sulla nostalgia dell'emigrato, che dà l'unica nota di sentimento a questo quadro spietato: la nave che riporta in patria il prizzitano s'avvicina alla costa, « la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere », e lui tende le mani per scaldarsi).
Il contadino è tanto immerso nella
natura che non ha bisogno di parlarne, così come nel Corano non si parla mai di
cammelli (il che prova — scrisse una volta Borges — che veramente fu dettato
negli accampamenti del deserto). L'arte di Lanza prosatore eccelle
nell'evocare un paesaggio da scarni elementi. La natura compare in queste
storie come atmosfera e luce delle stagioni, ma le immagini vegetali e animali
che vi agiscono direttamente sono rare, e per di più ambigue, apportatrici
d'insicurezza: « una ficaia mora, vasta e frondosa »
con « in cima nel folto un fico come una melanzana », ma che potrebb'essere pure, visto controluce, una merla che sta
per spiccare il volo; in un bosco coperto di neve, su di un olmo dai rami
stecchiti si posa una civetta e gli affamati la scambiano per selvaggina
commestibile; sul campo di frumento maturo, la notte il verso del chiù è
scambiato dall'avido agricoltore per una promessa di maggior raccolto; nella
tana, invece del coniglio, il furetto trova un rospo che gli piscia veleno sul
muso. La natura è il mondo dell'impreciso e dell'incerto,
che il linguaggio umano cerca di fissare come può: La pernice del raddusano era in realtà un'upupa, ma lui l'aveva
cacciata e mangiata come pernice, per cui poteva raccontare in piazza: « Ho
ammazzato una pernice che era anche un'upupa ». Anche la luna, che si
direbbe l'oggetto più inconfutabile e patente, due volte compare in questi
racconti, e una volta l'ubriaco la confonde col sole, e l'altra volta il
carrettiere la perde col riflesso nell'abbeveratoio.
La natura vera, nei Mimi di
Lama, non è cosmo, non è esterna all'uomo: è una parte dell'uomo, è il sesso.
Mentre nelle barzellette oscene che sentiamo raccontare di solito l'atto
sessuale è evocato in modo generico e spiccio, qui lo spirito sta spesso nella
precisione dei dettagli con cui vengono rappresentati gli organi sessuali e le
fasi e posizioni dell'accoppiamento: come il « saluto » de Il licatese,
stupratore di garbo, o il « forno » de L'adernese,
che obbliga il marito a soffiare « come un ciuco in salita », o la « giusta
misura » de La chiaramontana, o gli inabili
maneggi de Il malpasso (« quella, che aveva
prescia, lo raddrizzava, ora scansandosi ora tirandolo... »).
È difficile stabilire in che misura
questi effetti provengano dall'esattezza del dettato popolare e in che misura
dall'efficacia della scrittura di Lanza. Certo l'uno e l'altro elemento vi hanno
parte. Nelle storie boccaccesche d'astuzie per possedere una donna, Lanza
rivela la dote maggiore della sua prosa: quelli di comunicare il massimo di
colore e calore con i minimi mezzi. Così nella trovata del compare che persuade
una donna incinta che il marito ha dimenticato di fare i piedini al nascituro e
s'offre di completare l'opera (I piedini); o nella finta ingenuità de La
nicosiana che continua a dire: « Vediamo che vuoi fare il compare »,
finché l'atto viene portato a compimento; o nella fantasia erotica de Il riesano che nella notte di nozze, prima della giovane
sposa, sente l'uzzolo di possedere la suocera.
Storie di bricconi e gabbati anche
queste, ma in cui le vittime — le donne sedotte — sono probabili complici
dell'inganno subito: la guerra degli inganni si rivela essa stessa un inganno
per mascherare una armonia proibita, una festa delle trasgressioni.
Se la barzelletta oscena è
tradizionalmente ispirata all'« ideologia maschile » qui vediamo peraltro che
i diritti della donna alla soddisfazione sessuale vengono messi in primo piano.
In realtà questa « ideologia maschile » ha sempre avuto due facce, come ben si
vede nelle molte storielle dedicate alle donne vogliose: una faccia misogina e
denigratoria, e l'altra di giulivo compiacimento per la forza degli istinti
naturali; in Lanza è questo secondo aspetto che trionfa sul primo. Perfino
nella storiella del marito che, dovendo staccarsi dalla moglie a metà dell'amplesso per correre a sparare alla lepre, prega il
compare di continuare l'opera intrapresa (La lepre nei cavoli) al di là
del solito dileggio del cornuto affiora l'evocazione d'un'età dell'oro in cui
tra le leggi della natura e quelle della società si stabiliscono altre
connessioni.
La storiella oscena si rivela relitto
dell'orgia contadina come rito annuale di fertilità, da secoli cancellata
dalla memoria e dalla coscienza collettive, e qui riaffiorante nell'intrico de Le
gambe dei lercaresi, così mischiate che nessuno
ritrova le proprie. L'oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al
mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei valori e delle gerarchie e
dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all'utopia.
Da: Francesco Lanza,
“Mimi Siciliani”, Sellerio Editore, Palermo, 1971
In copertina: incisione di Mino Maccari