Il mondo offeso di Francesco Lanza

di Antonio Di Grado

 

 

TOTEM E TABÙ DI SICILIA

 

(Campagna valguarnerese, foto di Melo Minnella)

 

Un isolano vagabondo, «persuaso (...) della va­nità della vita e della stoltezza degli uomini», si imbatté una volta in una macroscopica e inquie­tante figura femminile. Leggiamo il testo, il reso­conto di quel singolare incontro:

 

Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di oc­chi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente...

 

Diciamolo subito: il testo in questione non è un «mimo» di Francesco Lanza, né quell'isolano è uno dei siciliani inquieti ma stolidi che febbril­mente animano le pagine dello scrittore di Val­guarnera con le loro strampalate intraprese, e nemmeno quella donna è una delle pigre e scaltre virago incise a colpi di bulino nei Mimi siciliani del 1928.

Quell'inquieto viaggiatore è, invece, un Islan­dese, e quella smisurata epifania è, nientemeno, la Natura. E il testo - è appena il caso di dirlo - è un’operetta morale di Leopardi: il Leopardi della “Ronda”, e cioè il prosatore delle Operette, prosciu­gate dei loro veleni intellettuali e distillate dai ron­disti come preziose e asettiche vene di bella scrit­tura, di raffinatissima prosa, insomma di “stile”. E quanto ridimensionato, anzi devitalizzato, e dun­que frainteso, fosse il rivalutato Leopardi della “Ronda”, Francesco Lanza lo intese immediata­mente: proprio lui che tanto a lungo è stato ap­piattito dalla critica nell’onesto decoro e nella disimpegnata produzione di quella pletora di rondi­sti, “capitolisti” e compilatori di rassettate paginet­te che negli anni Venti affollavano e aduggiavano le patrie lettere.

E infatti, già nel '21, così scriveva all'amico Navarria:

 

Leggo di questi giorni il testamento letterario di Leopardi, edito dalla Ronda. Ove ci sono (in costo­ro della Ronda) buone intenzioni, ma disgraziata­mente completa incapacità di attuazione. È strano che degli esseri superficiali e frammentari si siano con tanta passione riaccostati al grande costruttore moderno. (...) Ma sono sicuro che non costruiran­no mai niente; cattivi discepoli di cotanto maestro.

 

E con lungimirante condiscendenza aggiun­geva: «In ogni modo bisogna restar loro grati - ché sono buoni disseccatori di cellule».

Tutto qua il rondismo di Lanza: una lezione di affilata notomizzazione del reale, ma non per di­sinfettarlo e sublimarlo in rarefatte movenze dello stile, bensì per esibire impietosamente le cruente ulcerazioni e le proliferanti metastasi di quelle «cellule» smembrate.

Ma torniamo, per ora, a Leo­pardi. Alla sua Natura sorda e sinistra, a quell’I­slandese che tanto s'è agitato per fuggirla da finirle stoltamente tra le fauci. Come gli altri isolani, i piccoli siciliani, di Francesco Lanza: il quale sa be­ne, come il Leopardi di quell'operetta, che «la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produ­zione e distruzione», insomma (in termini più moderni) un cosmo ferocemente darwiniano go­vernato da una fatale entropia; ma non lo sanno i contadini dei suoi Mimi siciliani, che come l'Islan­dese si ostinano a chiedere «a chi giova» codesta ciclica «dissoluzione» e come lui finiscono con l'esserne ingloriosamente divorati.

Leopardismo, darwinismo. Potremmo aggiun­gere: espressionismo. E avremmo elencato, allora, non solo tre aspre matrici dell'universo contadino anti-bucolico, anzi in via di avanzata decomposi­zione, di Francesco Lanza, ma pure tre storiche insegne della grande tradizione letteraria siciliana da Verga e De Roberto a oggi. E in quella tradizio­ne di astratti furori e di progressiva liquidazione dell'idillio Lanza troverebbe, almeno per quanto riguarda i Mimi, una collocazione più esatta, e del resto più ovvia, di quanto non risultino le ammuc­chiate antologiche alla Enrico Falqui, che nel '38 stipava nei suoi Capitoli, insieme con Lanza, vocia­ni e rondisti, solariani ed espressionisti, insomma leggeva sub specie capituli la letteratura italiana da D'Annunzio a Gadda.

L'Islandese aveva ingenuamente osato chiede­re «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissi­ma dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono»; non diversamente, il contadino siciliano di Lanza im­pronta il suo rapporto con la natura a un altrettan­to ingenuo, e stoltamente strumentale, cui prodest.

Della latitanza, o se vogliamo della scarna e um­bratile presenza, della natura o meglio del paesag­gio nei Mimi ha già scritto, nella prefazione del 1971, Italo Calvino. Alle sue annotazioni converreb­be aggiungere solo che quelle rare epifanie vegeta­li o animali che attraversano come per caso e di sbieco i Mimi, insomma quell'evocazione voluta­mente castigata e come per sineddoche della natu­ra, e cioè affidata ad avari ed enigmatici frammen­ti, impongono il riferimento non solo, com'è evi­dente, alla natura analogamente degradata, irre­versibilmente alienata, del Verga delle Rusticane o di De Roberto e Pirandello, ma anche e soprattut­to alla prepotente suggestione esercitata da un li­bro come Bestie di Federigo Tozzi: e cioè alla tecni­ca decisamente affine, sperimentata in quelle pro­se con esiti di furente espressionismo che anticipa­no e legittimano i Mimi di Lanza, della materializ­zazione apparentemente casuale, e invero accesa­mente simbolica, di quelle «bestie», in filigrana e più sovente in coda a ciascuno di quei memorabili esercizi di purezza e di ferocia dello scrittore senese.

Ma non basta. Guardiamola un po' più da vi­cino, la “natura” dei Mimi. La luna, per esempio: la «graziosa luna» del Leopardi, la luna «vergine» e indifferente del pastore. Qui è la luna «valorosa» del barrafranchese, «che luceva come giorno chia­ro, e si specchiava tutta in fondo all'acqua, che pa­reva un timballo d'argento». Già il ricorso a meta­fore alimentari dovrebbe metterci sull'avviso, in­troducendoci alla cosmologia degradata e comme­stibile di codesti contadini: e infatti il barrafran­chese, picchiando l'asino che nel pozzo ha bevuto con l'acqua la luna, seriamente gl'ingiunge: «Vo­mita la luna che mi bisogna, o t'ammazzo». E l'ammazza davvero, con una sorda ferocia ch'è peculiarmente contadina ma anche riconducibile allo sconvolto bestiario di Tozzi (e si vedano le tante efferatezze e le gratuite violenze reiterate nei Mimi, oppure le cruente cicatrici che sinistramente illuminano certi apologhi come L'augello crudo). Ma, quel che più conta, all'origine di questa sorda ferocia, all'origine di questo rapporto con la natu­ra degradato e vorace, gastronomico o meglio cannibalesco, c'è il cui prodest dell'Islandese («Vomita la luna che mi bisogna»), c'è l'approccio strumentale, brutalmente rapace, sordidamente possessivo che barrafranchesi o mazzarinesi o raddusani o piaz­zesi, o quant'altri da tali intercambiabili toponimi siano marchiati, instaurano con un universo scon­sacrato e reificato.

Ma questa strumentalità è come impazzita, dissociata, perfino semanticamente distorta: e così può accadere non solo che i singoli frammenti di questo cosmo-oggetto possano scambiarsi il nome e «una pernice» possa essere «anche un'upupa», ma che addirittura si scambino il nome i vivi e i morti come in quello splendido apologo, I ferri ai piedi, che è un trionfo della tautologia e dell'assur­do (e che ricorda la vertiginosa invenzione che ne­gli stessi anni Savarese consegnava alla sua novel­letta L'allarme dei vivi):

 

Due caropipani, di professione ladri, pensarono di morire; e buttatisi sul letto non davan più segno di vita. Gettaron loro le strida, li vestirono, li misero nel cataletto e li portarono per morti in chiesa. Ma la notte, quelli buttarono all'aria i coperchi, e più vivi di prima si diedero a saccheggiare ogni cosa; e rotte le sbarre scapparono via per le lunette. La mattina, aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose di prezzo, e lo scandalo fu grande.

- Qua bisogna provvedere - gridarono i gabbati - ché i morti non son morti e fan cose da vivi; - e radunato in fretta il consiglio, dopo molto sputa­re fu finalmente gettato a suon di tamburi e di trombe questo bando:

- Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da pensarci due volte; e chi non è sicuro d'esser morto non muoia, ché quelli che son tali verran ferrati ai piedi come muli!

E d'allora in poi, così fecero; e di caropipani non morì più alcuno che non fosse veramente morto.

 

Oppure può accadere che i lercaresi si scam­bino perfino le gambe in un'ammucchiata or­giastica e bruegeliana, ma anche che il licodiano rubi a se stesso in un mimo che è l’assolutiz­zazione metafisica d'una rapacità fine a , af­francata dalle misure e dagli obiettivi contingen­ti, o ancora che il mazzarinese metta «in serbo il fiato», accumuli in atri termini non solo un be­ne tutt'altro che tangibile, ma addirittura il vuo­to, il nulla.

Ecco: questi eredi di don Gesualdo Motta e della verghiana religio della roba sono in realtà dei Robinson impazziti, dei capitalisti del nulla, e nei loro gesti compunti mimano stolidamente l'ac­cumulazione originaria: e così può capitare che tre Malavoglia degradati si buttino successivamente in mare, perdendo il prezioso carico del loro piccolo commercio marittimo, ma anche la vita, per recu­perare una sola cipolla; oppure che la prizzitana usi il grembiule nuovo per ricavarne sgargianti toppe per quello vecchio e sdrucito. È sempre un rapporto semanticamente distorto, non “naturale” ma simbolico, astratto, con le cose: è sempre co­me se costoro scimmiottassero la “civiltà”, come se con le loro bestiali e gratuite oltranze, consumate in un'aura di stuporosa ebetudine, ripetessero, de­motivandoli e desemantizzandoli, riducendoli a gags esilaranti, i gesti assorti e accorti e i segni im­periosi del dominio capitalistico e della razionaliz­zazione tecnologica della natura.

Mentre l'esito di quella razionalizzazione era, com'è largamente noto dopo Max Weber, il mo­derno «disincantamento del mondo», il risultato dell'irrazionale - ma comicamente speculare - aggressione contadina della natura è un'analoga sconsacrazione, ma come a ritroso, che non gene­ra cioè l'universo post-cristiano, secolarizzato e agnostico della “modernità” neo-capitalistica ma al contrario regredisce verso remoti archetipi pre­cristiani, pagani o addirittura animistici.

Ad animare la vistosa componente ferocemen­te blasfema che serpeggia nei Mimi non è, dun­que, la “carnevalizzazione” del Sacro descritta da Bachtin, la quale presupporrebbe un preciso e strutturato universo cristiano cui contrapporsi: i contadini di Lanza, invece, maneggiano crocifissi, o addirittura li incarnano nelle ricorrenze liturgi­che, e comunque si rapportano coi rituali e le ge­rarchie della formalizzazione cattolica del Sacro, come se ne ignorassero del tutto il senso e lo sco­po, insomma con lo stupore o la diffidenza o l'in­differenza con cui i cosiddetti selvaggi potevano accogliere le bizzarre insegne religiose dei conqui­statori. Di più, di tali insegne essi fanno un uso ancora una volta distorto, dissociato, ancora una volta ricondotto alla totalizzante matrice fisiologi­ca del loro universo.

A far le spese di questa desemantizzazione e risemantizzazione del Sacro sono, per esempio, il Cristo del castrjannese e lo stesso mistero dell'Eu­carestia, giacché a quel poveraccio, cui era stato detto: «Andate in chiesa a inghiottirvi il Cristo», non par vero di dovere «ingollare» per intero quel «Cristo risorto, alto come un saracino», e per giunta con tutta la bandiera; oppure il «diocotto» del mimo successivo, quel «crocifisso tutto affu­micato e scacato dalle mosche», anch'esso da in­goiare traumaticamente («Non lo sapete che Cri­sto ha la testa dura?»), a causa della distorta rice­zione d'una prescrizione sanitaria. All'origine di questa Babele contadina che confonde i linguaggi e «rinomina le cose» è una distorsione analoga, e analogamente demistificatrice, a quella su cui è modellato il «linguaggio di Giufà» (nei termini in cui ne ha scritto, anche recentemente, Natale Tedesco): e Giufà fa capolino, del resto, nei Mimi siciliani, per non dire poi dei Mimi arabi dello stesso Lanza i quali, facendo da ponte tra le due culture, resti­tuiscono a quel modello siculo-arabo un convincente spessore di comuni radici antropologiche.

Ma c'è di più: nelle invenzioni terribilmente blasfeme di cui s'è detto, e mediante quel proces­so a ritroso di scristianizzazione di cui pure si è trattato, il pasto mistico della liturgia cattolica è ri­condotto alle sue crude origini cannibaliche, al pasto totemico e, dunque, alla rievocazione ri­tuale dell'origine criminosa, antropofagica, parri­cida della civiltà e delle sue istituzioni: il castrjan­nese e il piazzese che pretendono d'ingoiare il crocifisso ne sono gl'inconsapevoli e grossolani tramiti. Ma nient'altro che un totem è, del resto, il Cristo del nicosiano, quel feticcio ligneo già rica­vato da un pero e tuttora, a detta del suo rozzo ar­tefice, segnato dalla sterilità di quell'arbusto avaro; e un totem dichiaratamente fallico è il singolare ex-voto argenteo dell'assarese, oscenamente allusi­vo a culti altrettanto remoti; per non dire delle sconce erezioni dei poveri Cristi da via crucis stra­paesana di Santa Caterina e di Mezzoiuso, o degl'incidenti fisiologici occorsi ai loro colleghi di Mineo e di Petralia, che fanno pensare alla trascri­zione ben altrimenti drammatica che di questa blasfema aneddotica plebea Pier Paolo Pasolini avrebbe proposto nella splendida Passione laica del cortometraggio La ricotta.

Animismo e totemismo, distorsione semantica e riformulazione delle “parentele” fra le cose, tabù e licenze, pasti tribali e perfino quello scambio simbolico delle donne frequente fra i contadini dei Mimi, riconducono al coerente immaginario e ai sistemi di classificazione del “pensiero selvag­gio”, insomma di quei “popoli senza storia”, di quelle società “fredde” di cui ha trattato Lévi-­Strauss. Estremo esorcismo della Sicilia verghiana e derobertiana contro le insidie della storia? Re­gressione abissale, irreversibile nel protettivo gu­scio d'ostrica di categorie mentali addirittura “sel­vagge”, preistoriche e perciò più che mai antistori­che? È forse eccessivo il carico che per tal via s'im­porrebbe alle fragili spalle di codesti lillipuziani di Sicilia; e tuttavia è quasi superfluo ricordare che la via maestra del primitivismo, del recupero di co­dici ancestrali o “selvaggi” in funzione della rise­mantizza­zione del reale, è quella trionfalmente battuta in quello scorcio di secolo, tra fauves e da­da, tra espressionismo e cubismo, dalle grandi avanguardie artistiche. E che nella letteratura ita­liana di quegli anni era stato ancora una volta Toz­zi a introdurre siffatte vertigini, a proporre con programmatica inattualità regressioni altrettanto spaesanti.

Quegli animali ferocemente ammazzati, o cie­camente inseguiti fino alla morte dello sprovvedu­to cacciatore, e che si scambiano il nome e gli at­tributi perché proprio sul nome più che sulla so­stanza, e sulle attribuzioni simboliche ad esso connesse, si esercita quella caparbia volontà d'appropriazione e d'assimilazione, sono del resto animali-totem, oggetto di sì sproporzionati investi­menti proprio per la loro ambivalente natura di tabù e di pasto rituale, ma soprattutto per asso­ciarne la specie a questo o quel clan e dunque per introdurre un ordine nel perturbante caos avverti­to da codesti primitivi.

E non sarà un caso, allora, che i personaggi di Lanza rechino denominazioni solo etniche e ap­punto di clan (il piazzese, il licatese, il barrafranchese, il troinese, il caropipano e via catalogando), come per definirli in base al loro approccio tribale alla realtà e alla natura; o che i loro comporta­menti automatici, meccanicamente reiterati, ven­gano di volta in volta motivati solo dal ricorrente intercalare «da quel piazzese che era» (o altro to­ponimo, ovviamente). E del resto proprio il piaz­zese, a chi l'interroga sulla sua identità tentando di riferirla a categorie un tantino più complesse («O voi - gli fece - siete cristiano?»), risponde con scoperta ma assai significativa ingenuità: «Gnornò: piazzese».

Ma la presenza animale, scompostamente insi­diata da uomini che ne riproducono mimetica­mente la “naturale” brutalità e comunque tendono ad assimilarla e assimilarvisi, è nei Mimi pure il veicolo d'un processo di «animalizzazione» del mondo umano affine a quello descritto da Debe­nedetti proprio a proposito di Bestie: che è poi, a tutt'oggi, la più chiara formulazione, non a caso suffragata dal ricorso alle idee compositive e alle tecniche pittoriche di Franz Marc, dell'espressioni­smo di Tozzi. E quella felice definizione d'un cô di scelte espressive e di moventi esistenziali è util­mente dilatabile al mondo e alle oltranze dei Mimi siciliani, al caustico impasto di coltissima prosa d'arte e di brusche impennate d'oscena ferocia che accende queste acqueforti siciliane, allo scarto e alla lacerazione ottenuti da Lanza mediante l'in­trusione del comportamento bestiale o dell'infles­sione dialettale, della deformità o della turpitudi­ne, del “motto di spirito” grevemente pornografi­co o della bestemmia iperbolica dentro le maglie serrate e il giro avvolgente, squisitamente lettera­rio del periodare rondesco.

È lo stesso furore espressionistico - nei Mimi addirittura più rabbioso, impudente, imparteci­pe - con cui Tozzi aveva violentato la compat­ta superficie della realtà esterna e della prosa tra­dizionale per liberarne mute epifanie e mostri enigmatici. E basterebbe istituire una parentela siffatta per liberare definitivamente Lanza dalla ipoteca rondista e per affiliarlo a un'area molto più mossa e variegata, soprattutto più “aperta”, che dal frammento vociano sconfina nell'estremi­smo strapaesano e nel realismo espressionistico degli anni '20 e '30: insomma, per affratellarlo a tanti di quei nomi che Falqui forzatamente assoldava nell'improbabile armata dei “capitolisti”.

E proprio a Falqui, polemizzando con quel­l'accomodante florilegio, Eurialo De Michelis ave­va correttamente opposto la netta distinzione fra le due poetiche, quella innovativa e polemica del frammento e quella restauratrice e ritotalizzante del capitolo, individuando nella prima la rottura della forma chiusa e nella seconda la sua ricompo­sizione «come nuova forma compiuta e perfetta in sé». Lanza, è appena il caso di dirlo, milita nella prima delle due opposte trincee, la più disertata e polverosa, rigurgitante di crudezze strapaesane e deflagrante di schegge espressionistiche. Ma dice­vamo della «animalizzazione»: torniamo allora, prima di congedarci dal bestiario dei Mimi, a quel­la chiave di lettura, suggerita dallo stesso autore e anzi impressa alle sue creature come un marchio impietoso.

A recarne il segno sono in primo luogo la desi­gnazione e la demarcazione dei sessi, affidate a ca­ratterizzazioni zoomorfe come quel «petto di faraona» (o di colomba) proteso dalle donne, o co­me quell'ambivalente e alterna qualifica di «toro» o di «becco» appioppata a un'infoiata o ignava fe­nome­no­logia della virilità. O come il sesso-«riccio» irto d'aculei della «siciliana»: e un toponimo così insolitamente generico come quest'ultimo potreb­be pure insospettire sulla portata di certi atavici terrori maschili (e del casto Lanza in primo luogo, che non a caso titolava un suo testo teatrale Cosa darei per sapere com’è fatta una donna), ribaditi dalla sgomenta definizione di «malpasso» che l’aidonese tributa al sesso della vicina; per non dire, tornan­do al regno animale, di quegli occhi della villaro­sana che s'incollavano «addosso agli uomini (...) come una nassa di pesci».

Ma anche il sesso maschile è animalizzato, sot­to specie di «cucca», o vegetalizzato, come nel di­vulgatissimo apologo su san Pietro e il piazzese:

 

Un giorno trovandosi san Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:

- O che semini? - gli domandò.

E quello:

- Minchie, per chi non ne ha.

- E minchie sieno - disse san Pietro, facendoci sopra la benedizione.

E alla stagione infatti il campo produsse in abbon­danza grandi minchie e rigogliose; e fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava più.

 

E addirittura quel sesso può apparire volati­lizzato, come nel caso dell'impertinente e cor­poso «frescolino» che insidia la mistrettese. Ma è pur sempre la donna il soggetto attivo e l'ac­corta regista di quest'incessante e abbrutito cir­cuito erotico. Che tale riconoscimento sia il frutto d'una intelligenza aperta e prefigurante o viceversa d'una paura cupamente ancestrale, non è questione che possa dirimersi con tagli netti: an­zi, tale dubbio è destinato probabilmente a cumu­larsi alle numerose perplessità suscitate nel lettore e nel critico dalle altrettante contraddizioni di Francesco Lanza.

Contraddizioni al limite della schizofrenia, e valga una per tutte: che il feroce universo contadi­no dei Mimi sia inciso dalla stessa penna donde provengono i bozzetti pedagogici dell’Almanacco per il popolo siciliano, e cioè quella produzione idilli­ca, ottimistica, ottocentescamente paternalistica, mediante la quale quel mite e verecondo compila­tore d'innocui lunari impercettibilmente virava dal socialismo populistico al ruralismo fascista­.

E certamente Soffici, tenendo a battesimo i Mi­mi siciliani mediante l'imposizione di quel nome sottratto alla tradizione (quella inaugurata dal gre­co Eronda, resa sì autorevole dal tempo, ma ricca d'intatte potenzialità trasgressive), non seppe ren­dersi conto della loro irrimediabile e insolente al­terità, né delle oltranze e delle infrazioni che gli scarni apologhi di Lanza apertamente squaderna­vano, né della clamorosa e irridente smentita che ne derivava alla stucchevole genìa degl'incontami­nati giustizieri villerecci alla Lemmonio Boreo o (perché no?) all'untuoso perbenismo di vecchi e nuovi lunari.

Non è che mancassero esempi coevi, né suc­cessive repliche, di quella contraddizione: basti per tutti il «caso» Alvaro, divaricato fra le antiteti­che frequentazioni dell'espressionistica Alexander­platz e del mussoliniano Agro pontino. E per di più, di tale duplicità di scelte culturali e ideologi­che e di registri espressivi, Lanza poteva rinvenire un autorevole esempio, anzi il più autorevole e le­gittimante, nel Verga che dalla «fantasticheria» mondano-rurale imprevedibilmente e traumatica­mente approda al disincantato e tragicamente omologato «universo orrendo» rusticano.

E dunque l'inquietante schizofrenia di Lanza si può anche intendere e ricomporre come la mes­sa in opera di tattiche differenziate al servizio d'u­na medesima strategia: giacché si può combattere la storia e pretendere d'azzerarla anche battendo le vie decisamente divergenti, ma altrettanto fun­zionali allo scopo, dell'idillio e dell'anti-idillio, dell'edificazione e della polemica, dell'impressio­nismo morbidamente evocativo e dell'espressioni­smo rigorosamente analitico.

Non solo: altre giustificazioni potremmo attin­gere pure in quelle Operette morali dond'eravamo partiti. E allora, all'onesto «venditore d'almanac­chi» Francesco Lanza, il «passeggere» potrebbe an­cora una volta ironicamente motivare il contrad­dittorio e mendace ottimismo di quella produzio­ne ad uso del popolo con le parole della notissima operetta leopardiana: «Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar be­ne voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?».

Confortato da questa strizzata d'occhio, che gli certifica l'immediata intelligenza del suo duplice registro di smagato notomizzatore e di svagato imbonitore, o almeno gli fornisce un alibi da sten­dere pudicamente su più segrete e sofferte con­traddizioni, il «venditore d'almanacchi» di Val­guarnera potrà riprendere il suo richiamo som­messo e sornione: «Almanacchi, almanacchi nuo­vi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanac­chi?».

 

 

 

CONFESSIONI D’UN VENDITORE D’ALMANACCHI

 

(Paese, disegno di M. Tuttobene)

 

Un Dialogo per il nuovo anno, fra un «venditore» e un «passante», Francesco Lanza l'aveva scritto, del resto: nel 1930, facendo il verso all'amato Leo­pardi e fingendo di correggerne le tesi, di stempe­rarle in un ottimismo d'annata. Ed è uno scritto prezioso, il suo, pur nell'apparente mimetismo da esercitazione à la manière o da divertita palinodia, per intendere l'inflessione sommessamente, dissi­mulatamente autocritica che vena la prosa del pe­dagogo dell'Almanacco, e il radicale fatalismo che la lega ai Mimi. Il passante, infatti, vi parla il linguag­gio parenetico e rassicurante del Lanza autore di lunari per l'edificazione del popolo contadino, e parrebbe perfino che il dialoghetto converga con gli esiti ideologici di siffatta produzione, almeno finché il personaggio in questione non dichiara con altrettanto imperturbabile serenità che il fine delle magnifiche sorti e progressive è «il supremo stato di felicità nella morte».

Lo stesso Almanacco per il popolo siciliano, com­missionato nel 1922 a Lanza da Giuseppe Lombardo Radice nell'ambito d'un disegno d'alfabetizza­zione delle masse rurali d'impronta decisamente tradizionale e di spirito gentiliano, apriva la sua prosa nuda e rassegnata con accenti di solidale e sofferto fatalismo:

 

Non t'aspettare dal nuovo anno grandi cose. Sarà del tutto eguale agli altri anni passati: tu bagnerai del tuo sudore la terra e ne avrai pane. Le stelle e i pianeti seguono nel cielo sempre la medesima via. Non bisogna chiedere all'avvenire grazie impossi­bili.

 

Dove non è malafede da rentier, né solo im­mobilistica oleografia nella plurisecolare tradizio­ne dei “lunari” (quella, appunto, irrisa dal Leopar­di nei suoi fondamenti progressivi), ma piuttosto è dolente sintonia verghiana con un'idea di popolo­-«ostrica» da salvare dalla bufera modernizzante che lo sradica dallo scoglio della tradizione; piut­tosto è tardiva e paradossale riappropriazione del­la “protesta di Leopardi” ad opera di quella pur così diversa e acquietata tradizione.

Leopardismo moderato, “di destra”? Potrebbe anche essere una persuasiva definizione, a costo d'infarcirla di contenuti eterogenei quali un certo populismo irenico da socialismo pascoliano op­pure un certo ruralismo anticapitalistico di prossi­ma declinazione fascista, per non dire del campio­nario di scettiche «parità» che Lanza ereditava per linea diretta dalla tradizione demologica isolana. Se si poteva far convivere, addirittura, populismo e leopardismo, questa ed altre commistioni matu­ravano insomma all'insegna d'un riuso della “funzione-Leopardi” di segno per l'appunto mo­derato (e tuttavia ancora “altro” dall'esangue fetic­cio rondesco), fatalistico, o per meglio dire a tal punto disperante da bruciare l'acceso nichilismo del recanatese in un'ottenebrante e nirvanica con­templatio mortis. Che è - si dirà con ragione - peculiarmente isolana: ma che più e prima che da moventi culturali e gravose tradizioni di scrittura e di pensiero si genera e si brucia, nel caso di Lan­za, sul terreno extraletterario e nelle irripetibili ragioni d'una traumatica biografia.

Una biografia, quella di Francesco Lanza, che andrebbe riletta alla luce di remoti archetipi: e in primo luogo, complice la morte immatura, sotto il segno di larvale irrequietezza del puer aeternus, del “fanciullo divino” del mito: candido e feroce, in­namorato e risentito, incontaminato eppure rab­biosamente voglioso di sporcarsi le mani con la vi­ta. Come gli adolescenti di Tozzi (Con gli occhi chiu­si) e di Vittorini (Il garofano rosso), altrettanto inevi­tabilmente irrisolti e votati ad azzeranti vertigini; come gli adolescenti i cui spiriti romanticamente eversivi saranno da lì a poco convogliati nella scommessa caparbiamente perdente del “fascismo di sinistra” e della partecipazione trasognata, auto­distruttiva alle guerre di regime.

Una biografia, comunque, ancora da ricostrui­re in gran parte, nonostante il recente fiorire di repêchages e postumi florilegi e talora addirittura a causa della loro incontrollata e farraginosa genero­sità. E tuttavia un'avara ma icastica autobiografia è ricomposta dai carteggi: quello citato con Aurelio Navarria, l'altro con l'al­tro amico Corrado Sofia. Amicizie febbrili, totaliz­zanti, scontrosamente possessive, in un'atmosfera da Grand Meaulnes, alla Alain-Fournier: com'erano quelle, del resto, che matureranno all'ombra dell'inquietudine intellettuale di tante riviste «giova­nili» già a partire dal primo scorcio degli anni Trenta.

Tale fervore, cullato da sogni d'ingenua palin­genesi letteraria e/o civile, doveva respirarsi tra gli artigianali artefici del periodico “Lunario sicilia­no”, un foglio amabilmente rétro che pare concepi­to per le popolazioni isolane dei tempi di Verga e di Pitré e tuttavia, nell'equilibristica tensione fra i divaricatissimi modelli della “Ronda” e del “Sel­vaggio”, di quando in quando modula sinceri ac­centi di quella moralità provinciale ch'era stata (si pensi del resto a Jahier e al suo “Il nuovo contadi­no”) un esito fra i più notevoli della cultura vocia­na. Dal biennio ennese (1927-'28) al riparo roma­no all'ombra della fascistissima ipoteca della dire­zione Interlandi (aprile-novembre '29) e all'esigua e posticcia appendice messinese del '31, la rivista di Lanza si avvale di redattori e di assidui collabo­ratori quali Savarese, Navarria, Blandini, Interlan­di, De Mattei, Biondolillo, Mezio, Bartolini, non­ché delle saltuarie firme di Cecchi e Soffici, Unga­retti e Bacchelli, Falqui e D'Amico, Vittorini e Brancati, Cocchiara e Bottari, Di Giovanni e Vann'Antò, e di altri protagonisti e comprimari della scena letteraria insulare e continentale.

Un fervore, quello, che non solo poteva espri­mersi fin nel forzato esilio romano, ma pure nella collaborazione degli stessi giovani intellettuali iso­lani (e oltre che a Lanza, si pensi a Brancati) alla stampa dell'integralismo fascista (“Tevere”, “Qua­drivio”), diretta dall'ambiguo e pur a suo modo generoso corregionale Telesio Interlandi. Ma a fronte di tali compromissioni, valgono le defini­zioni che Lanza stesso ci offre di sé nei carteggi ci­tati. E infatti si dice «selvatico», alla Malaparte e al­la Maccari, scrivendo a Sofia, mentre in modo più pregnante si definisce «anarchico» in una lettera a Navarria: parla anzi d'un «anarchismo accontenta­to e scontento» ch'è l'epitaffio più idoneo a sug­gellare la sua breve e scomposta parabola, e tale da integrarsi persuasivamente con quello, qui pro­posto, di leopardismo moderato, populistica­mente orientato a un'estroversa esplorazione del mondo limitrofo e tuttavia esistenzialmente radicato in un'inversa e ottenebrante regressione a più fonde pene e radici.

Di queste ulteriori contraddizioni fanno fede le lettere all'amico (e come Navarria, compagno d'avventure letterarie e giornalistiche) Corrado So­fia; e più atrocemente l'ultima, vergata la notte dell'ultimo dell'anno 1932 nell'albergo Sangiorgi di Catania, tra gli spasmi d'una febbre che da lì a pochi giorni l'avrebbe fatto morire nella natia Valguarnera:

 

In questo albergo da cocottes stanno preparando le imbandigioni per il classico cenone: per fortuna la febbre mi fa sentire tutto il disgusto di questi odori a base di supplì. Scrivimi a Valguarnera - e speria­mo che anche questa passi.

 

Non passerà, appunto; e Lanza lo avvertiva oscuramente: «ricado nella trappola, è proprio il mio destino». Era a Catania di passaggio, giusto per spiccare il volo - e per sempre - dal «ma­ledetto paese» che lo «strangola lentamente», dalla «gabbia infernale» della provincia emargi­nata («sequestrata», avrebbe detto Gentile).

Con Sofia, Lanza aveva da poco viaggiato nel­la Russia bolscevica: fonte, quel retour de l'URSS, di gidiane delusioni; e che un socialista umanita­rio arruolato nel ruralismo fascista potesse covare per sovrammercato anche illusioni sovietizzanti, è cosa che non sorprende più di tanto, a riflettere sulle incrociate e contraddittorie tensioni ideali della tormentatissima gioventù degli anni '20-'30.

Fonte, quel viaggio, anche di aneddoti bizzarri (un pranzo al Cremlino con lo sconosciuto To­gliatti!) e di incidenze esistenziali sulle quali con­verrà ulteriormente indagare: progetti di Lanza, per esempio, quali novelle e perfino film d'am­bientazione sovietica (e d'intonazione satirica: un progetto-Ninotchka nel cuore dell'isola e del gran carnevale dei Mimi?). Quanto alle novelle-reportages, le abbiamo scovate sulla «Gazzetta del popolo» del '31, fresche d'un sapore d'inedito per via d’uno pseudonimo (F. A. Bunjac) che a tutt'oggi le oc­cultava (e che pare registrasse la collaborazione con Lanza dello stesso Sofia e della giovane e sfor­tunata dissidente russa Annie Pohl: ma quanto felicemente lanziane, quelle pagine, e per esempio una tranche sottilmente straniante sui cani moscoviti!). E quanto alle sce­neggiature, lo scrittore accenna ad una, finita ed accantonata, d'ambiente coloniale: della quale, co­me di quella “bolscevica”, non è dato sapere o im­maginare alcunché, tranne il suo significativo anti­cipo sui più noti modelli di quel filone, filmati as­sai più in là da Alessandrini e da Genina.

Sui progetti cinematografici del privilegiato so­dale Nino Savarese ha indagato Liborio Termine; e certamente nuovi sondaggi di tal genere su Lanza po­trebbero alfine ridurre la forbice critica che s'apre tra l'esaltazione di campanile del populistico compilatore di lunari e la più accorta rivisitazione dell'impervio espressionismo dei Mimi.

S'è detto a sufficienza, d'altronde, in queste pagine, di quella contraddizione che attraversa l'o­pera di Lanza come una ferita; ma conviene ag­giungere che la stessa ferita apertamente sanguina, denunciando una genesi per l'appunto biografica, in queste lettere: laddove lo scrittore scaglia cruen­te invettive su quel suo «maledetto paese, dove non si parla che di debiti, di scadenze, di mise­ria», eppure può scrivere: «Mai come ora io mi so­no sentito attaccato a questo paese in un modo co­sì profondo e doloroso».

La chiave è forse in una lettera dell'agosto '32:

 

Non ti lasciare sedurre dalla campagna, uomo mo­derno! È come il prossimo, bisogna amarla da lon­tano. La canteremo sulle bianche carte, nei libri e nei film, ma, vicina, essa mi chiude la bocca e il cuore.

 

Grembo ospitale e «trappola» mortale, do­lente grumo (come non pensare a Brancati?) di comatose inerzie e d'illuminazioni brucianti della mente e del cuore, quella provincia meta­fisica può essere cantata dal «selvatico» Lanza ora mediante l'ingenua pedagogia georgica del­l'Almanacco ora tramite il letterario e rarefatto va­gheggiamento impressionistico di certe splendi­de novelle (Paese al sole, L'ora del circolo) ora, infine, come espressionistico groviglio di ottusità e fero­cia, come sconvolto bestiario strapaesano, come delirante campionario di totem e tabù di Sicilia: come nella novella Re Porco, come nei Mimi siciliani.

Come potrebbe essere e com'è: queste, le isole dell'isolano e isolato Lanza. Ma la sua Sicilia, fra le tante coniate nell'arroventata fucina della lette­ratura isolana, ha un posto preciso nella multifor­me geografia di quella letteratura: che è quello, a suo modo privilegiato ma insieme aspramente de­solato, del centro. Chè tutta quella grande produ­zione letteraria è segretamente governata da una tenace tensione centripeta che le fa voltare le spal­le all'esterno e al mare (all'avventura, alle tante «fughe» peraltro rientrate, ai venti rapaci della mo­dernizzazione) per abbarbicarsi al protettivo e pa­ralizzante guscio d'ostrica d'una diffidente preveg­genza: e il centro disabitato e sconsacrato cui ostinatamente guarda a forza di simboli e metafo­re ctonie, notturne, materne, è proprio il cuore riarso e immedicabile dell'isola evocato dai Lanza e dai Savarese, da un Di Giovanni (accomunato a Lanza da simpatie felibriste), da certe pagine di Rosso e Pirandello, e più tardi dal maestro di scettici­smo Leonardo Sciascia.

Nei cardini di questa ferrea e costrittiva antro­pologia letteraria s'avvita con qualche stridore, e tuttavia agevolmente, perfino il singolare “razzismo” del siciliano Interlandi, che sul “Lunario” di Lanza poteva proporre un'equazione fra sicilitudi­ne e fascismo in chiave di dolente diffidenza e di archetipi tutt'altro che solari, eugenetici, ottimistici, quali erano quelli della mitologia di regime. Il suo è anzi l'elogio degl'isolani «lenti e taciturni», che «in quel tremendo silenzio meditano pesanti giudi­zi», è il tentativo di radicare il generico e generoso sovversivismo strapaesano nelle remote e scontrose coordinate di quel “centro” e addirittura nelle pro­fondità ctonie del suo sulfureo “sottosuolo”: «E il fascismo ha qui nell'isola, il suo luogo geogra­fico, ma non nei bar o nelle piazze, ma nel sotto­suolo isolano, quanto non ne piove dai proconsoli chiacchieroni che arrivano dal continente».

E non è, questo razzismo à l'envers, un pro­dotto dell'orgogliosa e rancorosa ideologia del si­lenzio coniata da Giovanni Verga ben prima del suo effettivo, e tutt'altro che immotivato, silenzio di scrittore? Non è iscritto, insomma, in un codice e in una tradizione che lo legittimano? Per inten­derlo, basta rileggere (e sempre sul “Lunario”) il giovane Brancati di Intelligenza siciliana, assertore d'una smagata saggezza isolana, «oppiata» e sdop­piata, in cui precipiterebbero, condensandosi co­me nei Malavoglia in «una zona di calma profon­da», «le virtù e i vizi della barbarie e della civiltà dernier cri».

Verghismo “di destra”, orgogliosamente pole­mico, “primitivo” perché anti-storico (e anti­letterario) o meglio post-storico, così come, s'è detto, leopardismo “di destra”. In termini non di­versi si consuma la riappropriazione fascista di Verga: dal Verga di regime di Bottai a quello da “movimento” di Dino Garrone e dei giovani del­l’“Univer­sale” o del “Bargello” (e fra costoro, Berto Ricci rivendicava anche le «lezioni di grandezza virile che può darci Leopardi», da opporre pole­micamente all'«ottimismo dei declamatori»).

Ma infine quel “centro” dell'isola e quel sordo nucleo di disincantato silenzio, quella trincea di resistenza all'omologazione e insomma quell'o­diosamato crocevia dell'anima siciliana, sono an­che il luogo canonico d'un trauma che esplode, in quel cruciale primo Novecento, nel ben più vasto teatro europeo: che è il dramma individuale e col­lettivo, teoretico e politico, etico ed etnico, della “perdita del centro”, del crollo dei fondamenti e delle certezze del “mondo di ieri” fra le rovine d'una irrecuperabile unità, della diaspora e della “fuga senza fine” da quella muta e violata dimo­ra ma anche - e più - degli smagati nóstoi nel suo alveo vuoto e fagocitante.

 

 

I CAMPANILI DI VALGUARNERA

 

(Campanile a Valguarnera, foto di S. Giarrizzo)

 

Prove marginali e “minori”, quelle di Lanza, se commisurate a siffatti scenari? Forse; ma fra i “minori” vi sono dei grandi che attingono livelli di realtà e d'espressione negati ai “maggio­ri”. Esclusi dalle provvidenziali risorse della totali­tà epica o romanzesca e dalla trionfale esibizione di ardue sperimentazioni o di sofferte verità, essi raggiungono magari scali remoti e plaghe inesplo­rate del grande “mare dell'oggettività”, oppure vi s'inabissano verticalmente per catturare effimeri e umbratili trasalimenti della coscienza: luoghi periferici e perciò scartati, nell'un caso e nell'altro, dalle grandi e collaudate rotte conoscitive battute dai maestri consacrati.

È forse il caso, allora, di riformulare la catego­ria stessa di minore, affinché essa non rimandi più a improponibili (e storicamente deperibili) ge­rarchie di valori, bensì a porzioni esigue ma altri­menti inattingibili di realtà, o a divaganti ma irri­petibili mosse dello stile. Quest'area di produzio­ne, non irradiata dalle luminose altezze dei sistemi di pensiero e delle grandi costruzioni poetiche o narrative, ma viceversa appartata nell'operosa penombra di preziose e impercettibili prove d'au­tore, va dunque restituita, a dispetto d'un invete­rato “numero chiuso” per l'accesso alle storie, alla sua autonoma legittimità. E allora anch'essa, non diversamente da quella privilegiata dei «maggiori», potrà a pieno diritto rivendicare i propri grandi autori e i propri capolavori.

Un grande “minore”, nella rigogliosa vegeta­zione della letteratura siciliana del Novecento, è per l'appunto Francesco Lanza. Finché la storio­grafia letteraria, incalzata dalla nevrotica coazione a definire e contrapporre che le deriva dal suo ar­rogante statuto, non si piegherà a riconoscere l'u­mile funzione congetturale, tipizzante, d'ogni sor­ta di categoria provvisoriamente impiegata, a non ritenere ontologiche le definizioni di scuole e mo­vimenti e aree di gusto e di stile (e di pensiero), accadrà che personalità sfuggenti come quella di Lanza restino neglette, abbandonate all'insuffi­ciente rappresentatività del loro progetto “debole”, crocifisse alla loro contraddittorietà o insofferenza.

Accettarle (e addirittura incardinarvi nuove e più complesse “storie”), varrebbe viceversa a in­tendere non solo la precarietà di quelle categorie, solitamente isolate e contrapposte (nel caso di Lanza - e di tanti suoi coetanei -: rondismo e stra­paese, impressionismo ed espressionismo, tradi­zione e sperimentazione, in un certo senso perfino fascismo e anti­fascismo), ma addirittura la loro coesistenza, fun­gibilità, intercambiabilità. Come si definirebbe, al­trimenti, il caso Tozzi? A partire dall'arretratezza caparbiamente polemica delle scelte culturali e ideologiche o dalla dirompente modernità degli esiti? Dalla duplice auto-esclusione entro i risentiti confini della provincia e della tradizione o dall'u­so eversivo di quei luoghi canonici?

E quanto alla generazione di Lanza, tributaria di quelle stridenti e feconde ambiguità, è ancora sotto le ambivalenti insegne d'una condizione che potremmo definire di “avanguardia regressiva” che si dispongono quei percorsi erratici, quei ri­torni al passato (a Verga, in primo luogo) che vice­versa prefigurano il futuro, quelle inattuali scom­messe (dal calligrafismo al ruralismo, e via rubri­cando) che variamente mescidate e snaturate spri­gionano inedite soluzioni e attualissime sfide. Ba­sti pensare a un'opera come i Mimi, che è distrat­tamente passata attraverso il vaglio delle storie (in­giustamente addossandosi - fra l'altro - l'intero ca­rico della fragile fortuna critica di Lanza) nel mucchio della prosa d'arte o dell'epigonismo veri­sta, ed era ben altro, di là da quel­l’equivoca apparenza.

A quegli scarni Mimi s'è dedicata, appunto, con speciale riguardo l'altrettanto scarna frequen­tazione critica dell'opera di Lanza: e certo si trat­tava, come s'è detto, di folgoranti exempla, di lapidarie moralità rurali, di apologhi nitidamente mi­niati o di più distese intercenali da ricondurre, co­munque, a una continuità volutamente inattuale con filoni novellistici o idillici ormai lar­gamente desueti. E tuttavia la novellistica tardo-medievale e la tradi­zione eroicomica e bernesca, l'idillio teocriteo e quello arcadico del Meli amato e studiato da Lan­za (ma non sarà piuttosto l'osceno e feroce Tem­pio a irrompere nei Mimi con risentita e devastante invadenza?), sono condizioni necessarie ma non sufficienti, a catalogare le fonti dello scrittore di Valguarnera.

Ché anzi quella scabra e lineare sobrietà da fioretto medioevale o da giottesca bibbia dei po­veri, che certo s'impone a prima vista, è tutto fuorché una sorta di miracolosa naïveté  oppure, anche a intenderne la squisita letterarietà, una scelta nostalgicamente “inattuale”. E al contrario postula matrici non soltanto colte ma pure coeve e attualissime: si pensi a quel terreno di coltura in cui potevano concrescere e variamente innestarsi (e tanto più nell'onnivoro orizzonte d'attesa d'una remota provincia) suggestioni del frammentismo vociano, del capitolo rondesco e delle umorose (e rumorose) oltranze strapaesane.

E non è nemmeno il caso d'invocare, a tutela di siffatte commistioni, l'esempio autorevole del conterraneo Vittorini, spregiudicato allievo degli aristocratici rondisti ma anche del plebeo ed ever­sivo Malaparte, nonché spericolato animatore di cordate rivali come quelle dei solariani e dei fa­scisti “di sinistra” del “Bargello”; oppure, più avanti nel tempo, l'esemplare coesistenza di iniziatica letterarietà e di corrosive tensioni civili, insomma di scrittura e verità, sulla linea Brancati-Sciascia. Infatti Francesco Lanza si giustifica da sé, potendo esibire credenziali di collaudato scrittore popolare (e si pensi all'Almanacco e al “Lunario”), assieme a impeccabili attestati di frequentazione della “Ronda”.

Proprio su questa marginale milizia rondesca la critica s'è vieppiù accanita per esaltarla o negar­la; e l'appiattimento di Lanza su quell'esperienza è certamente a monte della sua singolare sventura critica: «questa confusione», per dirla con Sciascia, lo salvava infatti «dall'accusa di regionalismo», ma non «da quell'indistinto limbo in cui oggi giaccio­no i ron­disti, i postrondisti, i frammentisti, i capi­tolisti». E d'altronde Lanza utilizzò certamente quella lezione di stile, come certe prose più dei Mimi certificano, ma come laica iniziazione ad astuzie tecniche altrove motivate ed orientate.

Altrove, dunque: ma dove? In quel composito arsenale di spinte innovative e istanze regressive che fu il “ritorno a Verga” degli anni '20 e '30, con quell'esplosione di antitetici revisionismi che del­l'orgogliosa testimonianza dello scrittore catanese si servirono per modellarvi stucchevoli arcadie po­puliste o sovversivi “astratti furori” giovanili, stre­nui epigonismi tardo-veristi o inaudite oltranze espressionistiche. È in questo lussureggiante terre­no, dove germogliano gl'innesti più inattendibili, che l'universo orrendo e irredimibile delle Rustica­ne può definitivamente rinunziare a porti franchi e a residui idillici e, così, può consegnarsi alla sordi­da e bestiale antropologia e alle violenze espressi­ve e conoscitive di Federigo Tozzi. È ancora su questo terreno che il genere arcadico-consolatorio del bozzetto agreste e la tecnica impressionistica del frammento vengono radicalmente manipolati dal Tozzi di Bestie, che li trasforma in affilatissime schegge d'un cosmo darwiniano frantumato, in crude epifanie dirompenti di là dalla provvisoria e fragile scorza dell'apparenza oggettiva.

E in verità, se il Lanza dei Mimi rimanda inevi­tabilmente a Tozzi per la stolida brutalità di quel mondo rurale patologico e teratologico e per l'ar­caica esemplarità alla rovescia dei suoi apologhi primitivamente impastati di purezza e ferocia, il Lanza delle prose più articolate e apparentemente rasserenate impone a maggior ragione il riferi­mento a Bestie in forza di più cogenti e ineludibili ragioni di tecnica. Alludiamo per l'appunto a quel processo di «epifanizzazione» della natura che De­benedetti ha definito nelle sue memorabili pagine proustiane e joyciane, e cioè a quella segreta e di­namica «intenzionalità» degli oggetti che li forzerebbe ad «esplodere verso» l'esterno e l'osservato­re e a schiudere la loro intima e recondita sostan­za oltre lo sfaldato involucro della loro materiale consistenza.

Di questa vertiginosa tecnica d'interna disgre­gazione della solida compagine della scrittura (e del mondo) del naturalismo, Debenedetti rinveni­va nel Tozzi di Bestie convincenti e cruciali esempi, accostati - come s'è detto - alle Idee costruttive, alle tecniche destrutturanti e alla decomposta zoo­logia del pittore espressionista Franz Marc. Ma a prescindere dall'evidente suggestione di siffatte analogie, che paiono consacrare il mondo sconvol­to e le forme ellittiche dei Mimi al riparo di più au­torevoli e acclarate sperimentazioni, è alle prose che bisogna piuttosto rivolgersi per rintracciare procedimenti altrettanto eversivi.

Si legga l'incipit di Paese al sole:

 

L'ora del sole a picco coglie alla sprovvista il paese, lo fulmina a bruciapelo, lo fa restare a strapiombo come sospeso a un filo dall'alto deserto del cielo incandescente. Le strade si spalancano all'infinito, squadrate simmetricamente dalla luce abbagliante che a dirotto vi imperversa, le case si rarefanno ad­dossandosi l'una all'altra come per ripararsi, ma invano, a vicenda. I coni dei campanili si sfaldano in confuse vibrazioni, livellandosi ai tetti distesi in una sola linea all'orizzonte; il panorama s'appiatti­sce sotto l'uniforme superficie della canicola.

 

L'abbacinata topografia della campagna en­nese come i campanili proustiani di Martinville: una deflagrante tensione centrifuga s'insinua ad un tempo nell'opaca compattezza del paesaggio verista e nell'elegante ordito della pagina di sa­pore rondesco, slabbrandone i contorni e scu­cendone le trame con furente modernità. Dice bene Zago, quando legge nel leggendario «sorri­so di Lanza», che aveva colpito Vittorini e su cui ha insistito in sede critica Petrucciani, «un'acu­minata e disincantata percezione dello spaccarsi e scoscendersi delle cose, che è il destino dolo­roso dei “tempi moderni”». E Tedesco, quando scrive, trattando di queste prose ma segnalando già nei Mimi le pre­messe di questa rivoluzione nella topica isolana: «La linea demotica siciliana (...) abbandona la rap­presentazione sociologica obiettiva e privilegia lo scandaglio verticale, il taglio soggettivo».

Ebbene: questo processo si consuma, fino a bruciarsi in esiti di assoluta rarefazione, nella tran­sizione alle prose, e cioè nell'itinerario lungo il quale (per citare ancora Tedesco), «abbandonato il mondo contadino, Lanza trascorre dalla crudezza infernale di quello al tedio purgatoriale del mon­do borghese di paese». Si legga anche Febbre, quel virtuosistico esercizio di stile che della sensibilità distorta da un'innocua alterazione patologica fa veicolo d'inedite percezioni:

 

Allora, con una lenta decomposizione, le casse ac­catastate intorno, le vesti pendenti dagli attaccapan­ni, le melecotogne, i materassi e la coltre con le cu­riose efflorescenze e i geroglifici bianchi di cotone tessuto, s'arrotolavano e montavano verso di me, cercando di coprirmi, con la metodica e immane ascensione delle nubi agglobate ai piedi di Gesù nel cielo. Alla interna incandescenza della mia feb­bre, tutte le cose perdevano il loro contorno mas­siccio, si sfacevano negli elementi originari, in una incorporea e fatua deliquescenza, fuori dalla comu­ne irrealtà delle forme. Anche le pareti, la luce, le impressioni del giorno e della notte, i ricordi stan­chi e abbattuti come uccelli su una neve di bamba­gia, diventavano quell'amalgama evanescente e nebuloso che minacciava continuamente di sommer­germi e sul quale galleggiavo sospeso appena a un filo, con un senso di soffocazione e di soprassalto, e con un viscido crampo allo stomaco. Ancora un poco e sarei sprofondato in un gorgo nero e impenetrabile, mi sarei librato al di là di quelle nubi che montavano continuamente, senza pertanto progre­dire mai. Dal soffitto che s'apriva accartocciandosi e arrotolandosi come tutto ciò che mi circondava, la luna enorme e rossastra, posata sopra un albero come un cembalo, mi leccava con ironica dolcezza la faccia che s'imperlava alla misteriosa umidità della notte.

 

La «lenta decomposizione» degli oggetti più familiari in perturbanti impasti cromatici e morfo­logici provoca a sua volta stranianti intermittenze del cuore:

 

Anche ora, quando nel buio arido della notte la febbre m'investe come il fiato d'una fornace spos­sando le segrete sorgenti dei sensi, quella stessa de­composizione mi riporta con una impercettibile ca­duta al fondo della mia infanzia. Fuso come in un crogiuolo, nella massa cinerea e impalpabile delle cose che si sfaldano e s'arrotolano ai miei piedi montando su di me senza coprirmi, il mondo è quello vago e fluido d'allora, nello stanzino ingom­bro di casse, di scialli, di melecotogne e di quadri sacri.

 

Quella frantumazione divisionistica del mondo esterno e della sua «realtà vacillante» qui si fa tramite d'uno smemorante percorso centri­peto e d'una gratificante regressione edipica, convergenti verso un'interiorità nutriente e calo­rosa, capace di schiudersi in torpide e nebulose epifanie ma anche di scivolare in quella condi­zione estrema e difficilmente reversibile in cui «basta appena uno strappo» per piombare soffi­cemente e irrimediabilmente nel vuoto. E la presenza tutelare del fantasma materno («avvol­geva lentamente il mio corpo, mi bruciava il sangue col lento incendio del suo fiato, si fer­mava sulle mie pupille come un'enorme farfalla bianca»), se ancora una volta fa pensare a Proust e a certi leggendari dormiveglia protratti ad arte nelle estenuanti serate di Combray, o alle volatili fantasticherie di Bruno Schulz che con proustiana morbidezza riscriveva gli incubi di Kafka, assai più diret­tamente rimanda a un irrisolto nodo esistenziale, a un'ombra che di volta in volta allungherà, sugli ultimi anni di vita del giovane scrittore, protettivi chiaroscuri e luttuose tenebre fermentanti di rimorso.

Altri esempi si potrebbero produrre, di tali vertigini espressive, ma la Sicilia panica e dionisia­ca delle prose di Lanza merita d'essere percorsa anche sulla traccia d'altre piste, e perfino di orme impresse da presenze numinose e di ombre proiettate da remoti archetipi. È il caso della miti­ca atmosfera da incubo meridiano che avvolge e sconvolge quegli assolati e desolati paesaggi, e so­prattutto pervade il singolare divertissement arcadico dal titolo Proserpina nella masseria, dove la Sicilia bruegeliana dei Mimi fa da sfondo al ratto d'una ritrosa kore rusticana e presta alla ciclica vicenda della natura, figurata in quel mito, colori e suoni da fiera fiamminga e da carnevalesco “mondo alla rovescia”.

E ancora, come creatura intermedia fra l'ottu­so villano dei Mimi e l'involontario “briccone divino” del mito, andrebbe doverosamente citato il protagoni­sta contadino della novella Re Porco: dalla magica esumazione d'una enigmatica effige zoomorfa al­l'accecante cedimento alle grazie tentacolari d'una Erinni paesana, è tutto un incalzarsi di grossolane astuzie e picaresche grullerie fino a quel finale («ma io vi dico che era Re Porco che se la tirò per i capelli») che ribadisce ironicamente quella chiave mitica come patetico alibi per una balorda storia d'ordinaria follia.

Come in un'improbabile oasi da mille e una notte (e Lanza scrisse pure deliziosi Mimi arabi), la narrazione è anche un rito che esorcizza la morte popolando di parole il deserto: e lo scrittore sici­liano si dedicò, infatti, con disperata diligenza a riempire di elaboratissime intelaiature verbali il vuoto della giornata agreste e di quella paesana. Di quest'ultima ci consegna, nelle sue prose, di­vertenti ma tutt'altro che divertiti reportages in cui pare animare uno spettrale museo d'ombre impo­nendogli la fittizia vita d'una scrittura agile e fre­schissima. In questo senso L'ora del circolo è la più notevole di tali tranches de vie; e la progressiva ani­mazione delle polverose sale della memoria me­diante le rituali sfilate di habitués, rigidamente scan­dite dalle vistose stimmate delle classi, del censo e delle generazioni, così come certi mirabili ritratti di fatui «adoni feudali», che «squartano sull'altare del ricordo e del desiderio le veneri inveterate e immaginarie dei loro peripli», anticipano e prefi­gurano la metaforica Catania brancatiana, castello d'Atlante e crocevia di mute e vane ricerche di fantomatici Graal, incarnati nella larvale inconsi­stenza d'una inattendibile utopia o d'una imprati­cabile fantasticheria erotica.

Per verificare il sottile erotismo pre-branca­tiano di Lanza si vedano, infine, certi morbidi ri­tratti di «fanciulle che maturano lentamente in ca­sa come i fichi secchi e l'uva passa al sole», certe estenuate evocazioni di «volti consumati dall'in­sonnia» e «pieni di una dispersa dolcezza» e di oc­chi che «tra le lunghe ciglia hanno umili e promet­tenti fulgori da focolare domestico»; e non si potrà fare a meno di avvertire, in quegli interni fermentanti d'ombra e di sogni, quell'inconfondibile «odore di velo, di pelle bruscamente riscaldata dal sangue, di forcine di tartaruga e d'indumenti con­servati a lungo insieme a vecchi fiori» che da lì a poco emanerà Barbara Puglisi nel Bell'Antonio di Brancati.

Oltre il velo di umano pudore e di consumata letterarietà steso da queste prose disseminate su ri­viste e quotidiani (e raccolte postume in volume assai più tardi), è semmai il teatro di Lanza a con­vogliare, e piuttosto agl'inizi dell'itinerario creati­vo dello scrittore, accenti di più franco erotismo: è così nella farsa Il vendicatore, che a Musco parve addirittura troppo sboccata e che invece gioca pre­valentemente su contrappunti linguistici e ammic­camenti metaletterari; è così nell'acceso Corpus Do­mini che fu rappresentato nel '27 al Teatro degli Indipendenti da Bragaglia, e che nella ricerca programmatica dell'eccesso mediante la sovrapposi­zione al rito d'un profanissimo amplesso, finisce tutt'al più col proporsi come un'esangue variante del Rosario di De Roberto o peggio di Malìa di Capuana (ma si veda pure la Sagra di Pirandello o, due anni dopo la pièce di Lanza, la sconsacrata Messa della Misericordia di Pietro Mignosi).

Ed è così, infine, nella «favola ariostesca» Fiordispina, del '22: una fantasticheria velatamente omosessuale, sottil­mente morbosa, intrisa di pirandellismo («Quale pazzia può superare questa, che tu sei donna co­me me, che il tuo sesso è una fedele copia del mio, mentre il mio desiderio per te dovrebbe tro­varti diverso?»). Ma è un pirandellismo decantato in arcadia, sublimato e stilizzato: così come l'osses­sione della verginità che pulsa dentro il falsetto fit­tiziamente pacificato dell'aulico fraseggio (e che Lanza doveva avvertire come una spina ben altri­menti lacerante).

Ma di queste ed altre pene, e di queste ed altre pagine, s'è detto abbastanza, troppo - anzi - per non temere di offendere il sorridente e doloroso riserbo di Francesco Lanza. Resta fuori la questione-romanzo: ma quel mutilo Vita e miracoli di Giustino Lambusta, che non si saprebbe se affida­re a un filologo o a un détective, con quei due capi­toli superstiti e scompagnati, sottratti al laborato­rio di Lanza, con la sua struttura impietosamente squadernata, divaricata, è per l'appunto poco più che un residuato d'officina. Ma è anche, a leggerlo con uno sforzo d'immaginazione, il solco d'un possibile crocevia: tra la scrittura del primo capi­tolo, felicemente attestata sulla trincea d'un post­verismo vivace e curioso, polemico e analitico, do­ve l’indiretto libero di Verga e De Roberto può illuminarsi dell’“umorismo” di Mattia Pascal, e quella del terzo, che viceversa con esibito disagio e sofferta precarietà s'avvia lungo il tracciato volu­tamente anonimo e sgradevole, “inetto” e scritto “male” che va da Uno, nessuno e centomila ai romanzi di Angelo Fiore, che è poi quello del più pieno e disincantato Novecento.

All’incrocio di molte strade e non tutte secon­darie, l'opera di Lanza può fare a meno, tuttavia, di siffatti esercizi d'immaginazione critica per con­tribuire, in forza d'inquietanti epifanie o di sua­denti intermittenze del cuore, a illuminare gli ac­cidentati percorsi e la sconvolta segnaletica della nostra memoria collettiva.

 

(Antonio Di Grado, "Il mondo offeso di Francesco Lanza" in Finis Siciliae. Scritture nell'isola tra resistenza e resa, Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2005, pp. 71-100)