di Maria Rina Virzì Lanza
Immaginando di rievocare le dolci sensazioni del suo arrivo al mondo,Francesco Lanza così scrive:
“Fuori il
sole di luglio splendeva, la campagna era piena di spighe, c'era nell'aria
l'odore denso e refrigerante delle pesche e delle albicocche (...)"1
Era il 5
luglio 1897, Francesco nasceva.
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La casa natale, disegno di Marcella Tuttobene |
“(…) Agata entrava e usciva, con la faccia delle grandi
occasioni, come se fosse a parte d'un segreto che non poteva assolutamente
rivelare a nessuno; il babbo si voltava di scatto, l'inseguiva per due o tre
passi, e con la trepidazione d'un fanciullo all'avverarsi di un evento straordinario
le faceva la solita, laconica domanda: - Ebbene? (...) se Dio lo mandava, era il benvenuto, per non dire addirittura
che giungeva a proposito. Lo avrebbe chiamato come il padrino che già gli
destinava, con lo stesso nome cioè del santo al quale era intitolato il
bellissimo podere che aveva comprato il giorno avanti(…) Passai di braccio in
braccio, trionfalmente, come un prodigio. Tutti, anche la Calamara [la levatrice], sembravano impressionatissimi del mio
arrivo al mondo, all'infuori di me stesso, che continuavo a manifestare con
ridicole smorfie e vagiti la mia desolata disapprovazione, il mio inconsolabile
disappunto, Che ero venuto a farci nel mondo? perché tutta quella gente mi
faceva festa? (…) Solo io piangevo”.2
Questi brevi stralci tratti da Arrivo al mondo ci presentano subito un lato del suo
temperamento chiaramente improntato alla malinconia e all'ipersensibilità,
Certo è molto difficile intravedere questo aspetto pessimistico nelle pagine
lanziane, in quanto l'Autore, soprattutto nei Mimi Siciliani, sembra
voglia nascondere la sua vera natura sotto una maschera ridanciana, Solo
nell'epistolario, Sicilia come trappola, Lettere a Corrado Sofia, e
in qualche brano delle prose, possiamo scorgere la malinconia dell'Autore.
Francesco Lanza era il quarto di sette fratelli (il padre Giuseppe,
avvocato, era stato sindaco di Valguarnera dal 1879 al 1881), la madre si chiamava Rosaria Berrittella, II nome
Francesco è imposto dal padre per legarlo a quello di un bellissimo podere da
poco acquistato: San Francesco.
Forte era l'attaccamento
alla famiglia, religiosissima, di stampo patriarcale, affettuosamente
presieduta dal nonno materno, un burbero e bonario medico all'antica, tipico pater
famlias.Il Lanza dedica commosse pagine di prosa ai ricordi d'infanzia e
descrive le care abitudini della sua famiglia usa a riunirsi in casa dei nonni,
in occasione di festività, Dalle pagine traspaiono la dolcezza della mamma
Rosaria e la soavità della nonna. La burbera ma buona zia, la affaccendata
domestica, i gravi discorsi tra il nonno e il papa, allora giovane avvocato, il
gioco dei garzoni, conferiscono coralità alla scena. Le descrizioni non offrono
solo una documentazione biografica lanziana, ma presentano costumi di vita
siciliana che, ancora oggi, felicemente sopravvivono in alcune famiglie
dell'Isola:
“Allora era in
casa dei nonni che si faceva la cena di Natale, La piccola tavola di tutti i
giorni diventava immensa per accoglierci, Non restava quasi più spazio in
quella stanza stretta e bassa e col soffitto a travi dalle quali pendevano le
lunghe reste di pere e mele fragranti e i grappoli d'uva conservati per
l'inverno, La tovaglia era la più bella, di lino di Fiandra, le stoviglie di
maiolica, le posate di argento con la cifra, quelle dello sposalizio dei nonni,
Tutto era luminoso e pieno di festa, (…)
nel riposante gaudio che era nell'aria la zia perdeva la sua abituale severità
e ci concedeva di gustare in anticipo un dolce o un poco di quell'insalata che
era la sua specialità, La nonna (...) appariva più bianca e maestosa, col
grande viso ovale, levigato e malinconico come un medaglione d'avorio
(...). Tutta la gente di servizio era
in moto, Agata per l'occasione aiutava bravamente Rosa e la zia, mettendo il
becco da per tutto, mentre noi intanto per ingannare l'attesa giocavamo alle
nocciole coi garzoni.II nonno e il babbo venivano su all'ultimo, accalorati e
sorridenti, continuando con piacevolezza i discorsi gravi intavolati nello
studi. Quella sera essi si trovavano
perfettamente d'accordo su tutto, non c'era la minima divergenza fra le loro
idee sull'agricoltura, sulla politica e sulla religione, La mamma, il cui viso
era più roseo e gioviale del solito, se ne stava silenziosa a sentire e a la fanciullezza e il suo cuore s'era guardare con una timida dolcezza d'invitata, ma era
felice che quella festa fosse nella casa dove aveva trascorsa aperto ai primi
incantevol sogni”.3
II rispetto per gli anziani, l'unità della famiglia
all'antica, è felicemente documentata dalla descrizione di un brindisi
familiare, fatto dall'austero ma benevolo nonno:
“Infine,
in un silenzioso improvviso e pieno di una gioiosa aspettazione, il nonno
alzava il bicchiere e con la sua voce grave e sentenziosa faceva un lungo
sermoncino, di cui riuscivamo a capire soltanto nel suo pieno significato la frase finale: «Alla vostra
salute!», Risonavano le nostre grida, i bicchieri tintinnavano armoniosamente,
e il babbo, in preda a una fanciullesca letizia che gli sfavillava dagli occhi,
alzava di nuovo il suo e guardando la mamma, che continuava a sorridere con la
stessa timida dolcezza, diceva con festosa solennità; «Alla fortuna e alla
felicità dei nostri figlioli!», Questo brindisi aveva per noi una straordinaria
importanza, perché il nonno, nonostante avesse già bevuto il sorso di vino che
s'era versato, cosa veramente insolita, riempiva con gravità il bicchiere fino
all'orlo e lo vuotava lentamente, rivolgendoci attraverso il cristallo uno
sguardo benevolo e luminoso”.4
Lanza crebbe nel paese in cui era nato, Valguarnera Caropepe (allora provincia di Caltanissetta, oggi di
Enna). L'educazione impartitagli dalla famiglia avrebbe lasciato una traccia
profonda nell'animo dello scrittore, che ebbe sempre presente, sin da piccolo,
un notevole senso di responsabilità dinanzi al dovere, A responsabilizzarlo
doveva essere stato il nonno materno:
“II nonno
era di poche parole, non apriva bocca che per un ordine o un rimprovero, Facevamo
la via in silenzio, Lui e la zia non ammettevano che si potesse stare senza far
niente, crogiolati nella propria pigrizia, A nessuno era concesso riposo più
del necessario, anche in villeggiatura; non me ne sarei stato tutto il giorno
sotto gli alberi a gingillarmi coi grilli o al fiume a solleticare con un filo
d'erba le idrometre natanti (,,,). Il nonno, obbedendo alla sua natura georgica, avrebbe potato, buttato giù
gli alberi morti, rialzato le siepi cadenti (…), Io avrei portato, per la mia parte,
le pietre per le siepi, mondato le bacchettine d'olmo e le canne per i
canestri; avrei dovuto ogni dopopranzo raccogliere i frutti che caduti per il
vento dai rami ricoprivano fitto il terreno”.5
Se il nonno fu
educatore severo, ancora più rigido fu il maestro del piccolo Lanza:
“II mio
maestro era un prete terribile, dalla faccia, le spalle e i piedi larghi come
Platone. La bacchettina di ferro che teneva infilata nella manica donde, all'improvviso,
sembrava uscire come un serpente da una buca per avventarsi sulla punta delle
nostre dita, ci faceva tremare, specialmente quando col vocione collerico
egli ci chiamava alla lavagna o, a faccia a faccia col mappamondo (...)6
Inserito in un sano ma rigido
ambiente familiare e scolastico, il Lanza andava maturando la sua formazione,
Compiuti gli studi di base a Valguarnera, frequentò la scuola secondaria a
Catania, al liceo classico «Spedalieri», dove conseguì la licenza liceale nel
1915, Lì conobbe, studente pure lui, il Navarria, al quale sarebbe rimasto
legato d'amicizia fino alla morte. Scrive Navarria a Giuseppe Greco; «Ci
conoscemmo nel 1911 nel quartino che i Lanza avevano in via Naumachia (…) e ci
ritrovammo insieme nella quarta B del ginnasio Spedalieri».7 All’agosto
di due anni dopo (all’estate quindi che precede l’iscrizione alla prima
liceale) risale la prima poesia di Francesco, l’“Ode all’amico compìto”
dedicata al fraterno amico Cristofero La Spina. Una poesia di che, rivelando
talento precoce e grande sensibilità, evoca gli smarrimenti dell’adolescenza ed
il faticoso percorso verso l’età adulta.
Catania attraversava un periodo di particolare floridezza culturale; erano gli anni di De Felice, Rapisardi, Capuana e De Roberto e dello stesso Verga che già da tempo viveva lontano dalla scena letteraria, amareggiato dagli sviluppi e situazione politica italiana. Di questa Catania, “criticabile ma viva”, e di questi uomini, non rimane traccia nell'opera di Lanza, forse ancora troppo giovane, in quell'epoca, per frequentare ambienti politici e letterari. Verga, però, dovette qualche volta incontrarlo, e l'ammirazione per lui è provata dalla «solenne ed epicheggiante» pagina dedicatagli nell'Almanacco per il popolo siciliano:
“Sappiate,
o contadini, che una volta visse in questa benedetta terra un uomo chiamato
Giovanni Verga. Fino a poco tempo fa, chi andava a Catania poteva vederlo
seduto dinanzi al casino dei nobili, una gamba a cavallo dell'altra, gli occhi
lucenti come un innamorato, i
capelli tutti bianchi: aveva ottant’anni”.8
Ultimati gli studi liceali, Lanza si iscrisse
alla facoltà di giurisprudenza a Roma, laureandosi, però, a Catania
nell'autunno del 1922; con una tesi su Giuseppe Proudhon, La tesi risente
dell'esperienza della guerra al fronte e dell'agitato dopoguerra ed è
improntata, sin dall'inizio, a un ragionato pessimismo, Così scrive, fra
l'altro:
“A noi
della presente generazione è toccato in eredità un compito formidabile. Pagati di persona gli errori della
guerra, constatati nelle loro varie fasi gli insuccessi della pace
antipacificatrice, il problema della Guerra e della Pace resta per noi
pressoché insolut., Che la guerra abbia ucciso la guerra non pare per evidenti
segni; e che la pace ci abbia veramente portato in dono la Pace non possiamo
affatto riconoscere per la dura esperienza d'ogni giorno”.
E prosegue
con lucida premonizione:
“Da un lato la
guerra che si dichiarava redentrice dei popoli oppressi e punitrice dei popoli
oppressori, e che fu accettata dal nostro entusiasmo giovanile perché, oltre ai
suoi immediati scopi nazionali, avrebbe dovuto segnare la morte d'ogni altra
guerra, non ha potuto completamente mantenere le sue promesse; dall'altro, la
pace mostra tuttavia le conseguenze di un simile disagio, e a un occhio attento
svela altresì nascoste profonde incrinature alle fragili basi, appare cioè
come preparatoria di non lontane e forse più terribili guerre”.9
Gli anni trascorsi a Roma gli dettero la
possibilità di conoscere molti poeti e narratori che arricchirono i suoi
spiccati interessi umanistici. Sono esperienze importanti, incontri decisivi;
ma che non seppero mai allontanare lo scrittore dal suo paese così lontano dai
grandi centri e alle prese con problemi di sussistenza.
Valguarnera prima comunicava con le città lontane per mezzo di
«trazzere» o vie vicinali, Solo nel 1876 fu costruito lo stradale che andava a
Dittaino, la stazione ferroviaria più vicina per congiungere il paese con la
stazione di Catania, La ferrovia a scartamento ridotto arrivò da Dittaino a
Valguarnera nel 1910.
A questo proposito mi sembra utile richiamare l'attenzione su un
delizioso brano tratto da Storie e terre di Sicilia, che Lanza dedicò
alla città di Enna, nel quale mette in rilievo le estreme "difficoltà"
delle comunicazioni stradali e i lunghi tempi di percorrenza che occorrevano
per andare da Valguarnera in qualsiasi altro piccolo o grande paese della
Sicilia:
“Per noi
che ci siamo a quattro passi, che l'abbiamo sempre davanti gli occhi, irta
spesso di classiche nebbie che più che nasconderla la fanno più evidente (,.,);
per noi che siamo si può dire della stessa parrocchia e ci paghiamo le tasse,
andare a Enna è come andare alla Mecca. Se avessimo una macchina da correre standoci comodamente seduti, il
meglio sarebbe arrivarci in mezz'ora per l'itinerario ovidiano e plutonico
rifatto a ritroso al modo dei grandi”.10
Con una certa
ironia, lo scrittore aggiunge:
“Non avendo macchina di sorta, se non una da fare
il caffè, lasciamolo a malincuore questo viaggio ai mugnai e ai bifolchi del
mio paese, nobilitati dal peso e dalla misura, che settimanalmente si recano in
fretta e furia in provincia a brigare per le loro magagne. (...) Date le nostre possibilità di gente alla
giornata, volendo potremmo farlo a piedi o con più stile e riferimento a dosso di ciuco, Ma non essendo di tutti i giorni
lo scopo turistico e passionale, e amando anche noi fin dove si può comodo e
agio (,,,) Non ci resta che il mezzo più pratico; quotidiano e anonimo, da non restare
grati a nessuno, del treno; ma tre ore di viaggio tra coincidenze, trabalzi,
scartamento ridotto, linea ordinaria e autobus per trenta chilometri di
distanza è un bello sforzo”.11
Riflettendo su quella che era la situazione in quegli anni, ci rendiamo
conto che, per l'inadeguatezza delle strutture e delle enormi difficoltà che si
dovevano affrontare per spostarsi da un posto all'altro, anche il più vicino,
nonostante molte siano state le
trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno contraddistinto gli
ultimi decenni, sono rimaste le "classiche nebbie" di cui parla
Lanza. Scrive Pavolini: «Lanza era tipo che bisognava definirlo all'antica»12.
Pur affascinato dalla vita moderna e dinamica di Roma, consapevole della profonda
miseria che intristiva gran parte della Sicilia, sapeva guardare con speranza
al mondo semplice e rurale, amando non solo i contadini, ma anche le tradizioni
più antiche della sua terra. E
se la lontananza dalla città costituisce certamente un limite all'affermarsi
sociale, la vita in taluni paesini interni diventa la salvaguardia
essenziale di certi valori, che morirebbero una volta inurbati.
“Non si parla delle città,
dove gli usi hanno una maggiore dispersione pubblica, si correggono secondo dettami
continentali e si frantumano contaminati, ma nei paesi e nei borghi sulle
montagne le tradizioni resistono ancora alle esigenze dei tempi con una
patetica e florida fierezza, e tutti gli avvenimenti memorabili rivelano sempre
il lor fondo rustico e la lor discendenza georgica”.13
Questo
brano è la preziosa indicazione della squisita sensibilità narrativa dello
scrittore e della sua cordiale disposizione verso la ricerca di temi poetici
che conservano il calore delle cose di casa, L'unità della famiglia, la
parentela, sentita profondamente come autentico legame di sangue, che induce a
riunirsi per festeggiare le solennità, l'apertura verso la gente, che invoglia
a incontrarsi senza sofismi, il dono dell'ospitalità, sono profondi valori che
resistono, fortunatamente, in luoghi dove la difesa delle tradizioni continua
nonostante il dilagare di certe mode, tendenti a considerare superata non solo
la tradizione ma anche l'etica.
Le lettere che lo scrittore indirizza all'amico Aurelio Navarria, negli anni vissuti a Roma, documentano l'eccezionale varietà e vastità delle sue letture; Aristofane, Luciano, Aretino, Virgilio, Ovidio, Ariosto; classici italiani, scrittori moderni e contemporanei; Rebora, Flaubert, De Maistre, Montaigne, Roumanille, Mistral, Cechov; scrittori politici e storici; Marx e Lenin. Lo scrittore si appassionò allo studio del Pitrè, del Verga e del Meli, che vengono considerati suoi maestri.
Lanza nutrì ammirazione, seppure con delle
riserve, anche per D'Annunzio:
“(...) m’è
capitato in questi giorni fra le mani il Notturno dannunziano, e ho pensato che
è proprio il retoricissimo D'Annunzio che ha fatto un'opera d'arte magnifica
coi mezzi dei giovani”.13
II 6 agosto del 1916 morì a Gorizia il fratello Antonino, tenente di fanteria
a Peuma, vittima della prima guerra mondiale (decorato di due medaglie
d'argento al valor militare:
vedi).
“Alla sua
memoria il giovane Autore dedicò dei componimenti poetici percorsi da tristi
venature foscoliane e scritti sui metri di una classicità tutta carducciana.
In quegli anni Francesco Lanza venne precisando sempre di più i contorni della
propria vocazione di scrittore”.14
Questa vocazione era improntata a un «neoclassicismo rondista» (a contenuto popolare inedito), non estranea agli influssi del «clima vociano e alla moda del frammento».
Scrive Francesco Lanza all'amico Aurelio Navarria:
“Ho pensato leggendo Boine: anche noi siamo dei
vociani. Smania di cultura e delirio dello stile, Facciamo inscientemente in
modo che la immaginazione resti sopraffatta e compressa, Ma arte è prima
immaginazione, dopo è questo equilibrio tra immaginazione e stima, Ma una
sopraffazione non ci deve essere né di qua né di là, Noi invece, più ci piace il periodo che il senso, più cioè il
frammento che la novella (tu più di me), più il grido che la scena, più il
monologo che il dialogo, più l'io (anche nel famoso obiettivismo) che l'altrui
(con l'io).15
Anche se catalogato tra "rondisti e
postrondisti", Lanza non doveva stimare molto la corrente della Ronda, almeno
a giudicare da quanto scrive al Navarria:
“Leggo di questi giorni il
testamento letterario di Leopardi, edito dalla Ronda, Ove ci sono (in costoro
della Ronda) buone intenzioni, ma disgraziatamente completa incapacità di
attuazioni, È strano che degli esseri superficiali e frammentari si siano con
tanta passione riaccostati al grande costruttore moderno (…) Ma sono sicuro che
non costruiranno mai niente; cattivi discepoli di cotanto maestro”.16
Da lettore, il Lanza diviene ben presto scrittore, Le sue prime composizioni sono Poesie di gioventù, composte dal 1919 al 1921 e pubblicate nel 1926, Le liriche sono "ispirate a tonalità dannunziane e crepuscolari" e sanno di esercizio letterario, "documentano tuttavia l'avvio di una esperienza, di una ricerca estetica giovanile che troverà un'altra via più fruttuosa".
Come si evince dal foglio matricolare (qui riprodotto), Francesco Lanza viene chiamato alle armi nell'agosto del 1917. Nell'ottobre è allievo ufficiale a Modena. Dal febbraio all'agosto dell'anno successivo frequenta la Scuola Allievi Ufficiali di Ravenna e, quale sottotenente di artiglieria, viene successivamente coinvolto negli ultimi sprazzi della guerra. Nel gennaio del 1920 a Caltanissetta, dove si trovava in servizio di pubblica sicurezza per lo sciopero dei ferrovieri, si ammalò di febbre spagnola, Gli restò leso un polmone.
Dopo quella breve esperienza il giovane cominciò a interessarsi di politica e nel 1920 fondò a Valguarnera, osteggiato da tutta la borghesia del paese la prima sezione del partito socialista, divenendone segretario.17 Egli stesso narra i primi passi di quell'esperienza su "II Proletario" di Caltanissetta del 1921, La sezione del partito socialista era sorta in via Alighieri, nella casa a pian terreno di don Piddu Fidemi. Gli iscritti al partito erano giovani studenti, operai, zolfatai, artigiani, agricoltori; e nonostante fossero diffidati dal maresciallo dei carabinieri a non circolare il giorno delle elezioni, allo scrutinio furono trovate circa 800 schede socialiste. Valguarnera, come già detto, era allora il centro antifascista più importante della provincia.18 In una lettera del 28 agosto 1921 a Navarria si legge:
“Furono
eletti all'unanimità l'Avv. Lanza Francesco Segretario politico; il ragioniere
Scarlata Antonio, Di Benedetto Giovanni, Lo Presti Antonio, Consiglieri; Greco
Giuseppe, Vice Segretario».19
Scrive Lanza:
“II fatto della
mia politica. Una cosa seria di cui rido come un pazzo, Uno spavento borghese
c'è e come! E calunnie, insinuazioni, minacce, eccetera come ad un vero uomo
politico. Ma a scartamento ridotto, tutto. Io ci rido, loro ci si rodono il
fegato. Mi dicono: senti qua tu sei bravo figliolo, ma t'hanno traviato i
libri. Ah! quei libracci bisognerebbe bruciarteli, E poi, che speri? d'aver
seguito? Resti solo come un cane, perché noi ti compriamo tutti i socialisti
per quindici lire e mezzo. E poi quanti siete? venti? e quanti pazzi? ventuno?
Va là, smettila, Pensa al tuo avvenire - Io resto in stile, sornione, duro e
non intervistabile”.20
II tono della lettera è abbastanza divertito, e mette in evidenza una personalità certo combattiva sotto l'ardore neofita degli entusiasmi giovanili, ma nello stesso tempo la sottaciuta consapevolezza che non era certo nell'impegno politico che lo scrittore pensava di risolvere i propri progetti per il futuro, Non si trattava, in definitiva, di una scelta di vita, Lanza fu, nota acutamente Sciascia, socialista di «un socialismo senza storia».21 II suo socialismo, più che da convinzioni ideologico-politiche, era dovuto a ragioni umanitarie, desiderava un miglioramento della classe contadina.
Poi s’iscrisse al partito fascista; è di quel periodo la fotografia ritraente lo scrittore con Mussolini.22 Ma il fascismo di Lanza (come quello di Pirandello) «fu il frutto dell'onesta illusione ili cui alcuni fra i migliori caddero, che Mussolini, oltre all'ordine, volesse riportare anche la giustizia, soprattutto alle plebi diseredate».23 Infatti, in quel periodo, il fascismo aveva elaborato dei provvedimenti e aveva stabilizzato l'ordine sociale nelle campagne, Ci sono prove testimonianti la sanità morale del Lanza che mai brigò per il fascismo. Aiutò infatti un compaesano, Peppino Loggia, di idee socialiste a fuggire in America, per eludere le persecuzioni del regime.24 Rifiutò la direzione del giornale "II Tricolore", offertagli da Telesio Interlandi che ebbe a dire: «Io non ho mai sentito una resistenza così terribile e pur così naturale, come quella che Lanza opponeva al mio aiuto (…)».25 Appena si seppe che Pirandello, Panzini e Bontempelli avevano accettato la nomina di "accademici" dal fascismo, Lanza non resistette alla tentazione di scrivere la prosa caricaturale: Il colletto di Pirandello, secondo una dichiarazione orale del fratello Vittorio Lanza, ma su questa prosa non abbiamo trovato altra notizia, Scritti fortemente ironici sul fascismo sembrano le Norme per la divisa del sig. Accademico n. 2, che alludono a letterati ingaggiati dal regime.26
Gli svariati
interessi che possedeva lo portarono a occuparsi anche di teatro, e per questo
compose alcuni lavori. Appassionato lettore dell'Ariosto, egli scrisse le sue
opere teatrali durante un lungo periodo di convalescenza trascorso a
Valguarnera tra il 1921 e il 1923, nei suoi poderi di San Francesco e di
Cafeci, Compose nel 1922 la favola drammatica ariostesca Fiordispina,
pubblicata nel 1928, L'atto unico Corpus Domini, prima di essere rappresentato
con successo al teatro degli Indipendenti di Roma, con la regia di Anton
Giulio Bragaglia, il 18 febbraio del 1927, era stato pubblicato nel 1924 sul N°
5 di "Galleria" di Roma. II testo fu poi riproposto su
"Dramma" N° 330, nel 1940, con il nuovo titolo di Giorno di festa.
Poi Lanza si cimentò in una farsa dialettale in tre atti dal titolo Il Vendicatore che fu pubblicata postuma, nel 1974, per iniziativa di Salvatore Rossi
(nella collana di testi teatrali inediti o rari di autori siciliani diretta da
Carmelo Musumarra). Va ricordata, infine, la commedia in tre atti Cosa darei
per sapere come è fatta una donna e l'atto unico Una moglie brutta.27
I temi dell'amore, dell'adulterio, dell'erotismo, caratterizzano l'opera
di Lanza commediografo in un clima drammaturgico attraversato da forti
suggestioni pirandelliane.
Nel 1922, il Lanza entra a far parte del mondo del giornalismo
letterario, Scrive vivaci articoli sul "Corriere di Sicilia" che si
stampava a Catania. A Roma, nel 1923, è chiamato da Ardengo Soffici a
collaborare alla terza pagina del "Corriere Italiano" e, nel 1924,
alla rivista "Galleria".
Nel 1923
compaiono i primi saggi delle Storie di Nino Scardino, nome del
mezzadro dei Lanza,28 poi per suggerimento di Ardengo Soffici le
storie ebbero come titolo definitivo Mimi Siciliani. L'Autore scriveva:
«L'opera è in decisa opposizione a
tutta la letteratura corrente (…) e, nella forma, si riattaca necessariamente a
Verga; per la sostanza il modello di riferimento (forse) è Roumanille,
Insomma, «folkloristica, popolaresca, azzardata, sorniona, di nocciolo duro e
letterariamente senza valore (…)».29 Tra i primi lettori dei Mimi
figurano; «(…) Baldini, Ungaretti, qualche altro frequentatore della
redazione, [che stavano] curvi a gustar con lieto stupore l'attico sale, la
delicatissima freschezza, la sobrietà classica di quelle storielle tutta
maliziosa filosofia».30 La composizione dei Mimi Siciliani continua
sino al 1927 e molti vennero pubblicati fra il 1926 e il 1927 su "La fiera
letteraria", nella rubrica "Cambusa". Nel 1928 l'Autore li
raccolse in volume,
Insieme con
Vera Gaiba compila un volumetto di letture per le scuole elementari La Spiga
(Torino, Paravia, 1927),
Nel 1923, Francesco Lanza compose 1'Almanacco per il popolo siciliano per desiderio di Giuseppe Lombardo Radice, che combatteva l'analfabetismo a quel tempo pesantissimo in Sicilia e vedeva nel potenziamento della scuola popolare un valido ausilio per la campagna di alfabetizzazione indirizzata soprattutto alle classi contadine dell'isola, L'Almanacco fu pubblicato dopo un anno dalla stesura. Nacque così un almanacco popolare, pieno di letture, di notizie e di consigli pratici utili al contadino. Nella lettera che segue possiamo trovare una spiegazione sull'intento che ha indotto Francesco Lanza a comporre l'Almanacco; «In ogni modo io scriverò l'Almanacco; anzitutto perché mi alletta e mi porta di botto in un campo a me caro (e mio tormento): La fantasia popolaresca…».31
Nel 1925 e nel 1926, l'Autore fa girare i suoi scritti da "II Resto del Carlino" a "L'Ambrosiano", da "II Lavoro Fascista" al "Giornale di Sicilia",
Ritornato a Valguarnera, Lanza apre, ma con poca fortuna, una bottega
di calce e gesso, Poco dopo, completamente negato per i "negotia",
chiude bottega. Nel 1927 viene rappresentato, al teatro degli Indipendenti di
Roma, l'atto unico Corpus Domini, ribattezzato poi Giorno di festa.32
Ma col teatro Lanza non ebbe fortuna; Angelo Musco si rifiutò di rappresentargli
II vendicatore perché, a suo giudizio, troppo audace.
A Enna, nel dicembre del 1927, Lanza fondò il "Lunario siciliano", un periodico mensile al quale collaborarono autorevoli letterati del tempo come G. Centorbi, A. Navarria, E. Cecchi, R. Bacchelli, T. Interlandi. II giornale nel 1929, per motivi economici, fu trasferito a Roma, in via della Mercede 9, l'allora redazione de "II Tevere", ma subì una seconda interruzione, Qui, oltre ai collaboratori già citati si registrarono le firme di Ardengo Soffici, Silvio D'Amico, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Corrado Sofia, Enrico Falqui, Stefano Landi, Luigi Pirandello. Ritornò infine alle stampe nell'aprile del 1931 a Messina, sotto la direzione di Stefano Bottari (vi collaborò, fra gli altri, il poeta dialettale Alessio Di Giovanni), in assenza del Lanza ammalato a Valguarnera, ma ne vennero pubblicati solo tre numeri prima della sua definitiva cessazione.
Lanza, con il Lunario siciliano, pensava di pubblicare un periodico trimestrale per il popolo con leggende, poesie, proverbi e notizie utili di agricoltura, commerciali e di vario genere. Si trattava dei sogni di un poeta in quanto il Lunario, pur avendo consensi e prestigiose collaborazioni, ebbe vita breve e incostante, I redattori di questa rivista di letteratura popolare avevano assunto come motivo ispiratore la fedeltà all'insegnamento verghiano e del Pitrè.
Nel 1928 svanisce per Lanza anche la possibilità di collaborare alla "Stampa", per avere stroncato un libro di Curzio Malaparte:
“Tanto io quanto tu abbiamo perduto la possibilità di collaborare alla
Stampa: Malaparte ce l'ha con noi per quella stroncatura del suo libro, La cosa
mi dispiace perché si trattava di guadagnare 400 lire ad articolo! Che Dio la
mandi buona al Malaparte!”33
Nel 1928 Lanza lavora a Roma come redattore de "II Tevere", sulle cui pagine cura una rubrica umoristica di Ercole Patti soprannominato il "Signor Pott". Lanza si firmava con lo pseudonimo il collega del signor Pott, Su "II Tevere" vengono pubblicate storielle siciliane, descrizioni di paesi siciliani, storie cavalleresche, prose classiche e moderne.
Nelle prose posteriori ai Mimi Siciliani,
raggruppate in Fanciullezza e Paese, l'Autore da il meglio di sé,
giungendo a un equilibrio di forma e contenuto. Nel 1929 e 1930 fu redattore de
"L'Italia Letteraria", diretta da G.B, Angioletti, dove continuò le
rubriche "Cambusa" e il "Mercante in Fiera", Mentre è
redattore de "II Tevere" (in cui pubblica le sue impressioni sul
viaggio in Sardegna), collabora ancora a "II Resto del Carlino",
"La Fiera Letteraria", "L'Ambrosiano", la "Gazzetta
del Popolo". Nel maggio del 1930 segue il viaggio di Mussolini in Toscana.
In quegli anni il Lanza appare stanco e debilitato nel fisico e nello
spirito. In seguito alla febbre spagnola, contratta nel 1928, gli rimase leso
un polmone; più tardi, in seguito a una caduta da cavallo, riportò serie
conseguenze che lo indussero a sottoporsi a continue cure ricostituenti e a
saltuari periodi di riposo nei poderi di Cafeci e san Francesco.34
Lanza tuttavia non evitava, sebbene sofferente, il logorio del duro e snervante lavoro di redazione:
“Faccio una vitaccia: ti dico
solo che lavoro di notte alla… cronaca! Non pensavo mai di andare a finire
così. Fortunatamente ne ho per poco; sostituisco un redattore che tornerà a
metà giugno, Dopo, se non resterò al giornale, ma con un lavoro meno sfibrante
e umiliante, tornerò ai patri lavori (...)”.35
Per motivi di lavoro, accettò, nel 1930, di recarsi con Corrado Sofia in Ungheria, Romania, Polonia e Russia, Ma quel viaggio lo aveva profondamente turbato, aggiungendo così alle sue precarie condizioni di salute una crisi spirituale dalla quale stentava a riprendersi. Lui, che nel 1920 aveva fondato la sezione socialista, crede che l'URSS sia il luogo dove si sta sperimentando una società nuova, basata sulla ragione e la fratellanza. La sua delusione è grande quando tasta con mano il comunismo reale, per esempio quando lui e Sofia si imbattono in un gruppo di prigionieri che stanno per essere fucilati; oppure quando, alla stazione di una città ucraina, gli si presenta un "trozkista" che ha in tasca la tessera del Partito comunista, fin dal 1905, e racconta ai due giornalisti italiani che di quel partito non esiste più nulla. Infatti Lanza, tornato in Italia, del suo viaggio in Russia non scriverà nemmeno una riga,36 a costo di perdere il compenso che Interlandi gli aveva promesso e di cui aveva un cocente bisogno tanto da scrivere all'amico Sofia, d'essere pronto a vendere la sua macchina per scrivere pur di saldare il debito contratto con lui. Non soltanto era rimasto deluso e sconvolto da quanto aveva veduto,
“ma le
critiche che avrebbe rivolto a quel regime [sovietico] avrebbero secondo lui
rallegrato alcuni signori del suo paese i quali gli erano profondamente
ostili, non ammettevano l'attenzione che egli nutriva per la povera gente dei
campi”.37
Così ha scritto Sofia nel commemorare l'amico. E se Sofia aveva scritto decine di articoli in cui è raccontato il come e il dove del comunismo reale, Lanza sceglie, come già detto, sicilianamente, orgogliosamente, la strada del silenzio. Un silenzio da uomo d'onore, un reportage sofferto ma non scritto, abbandonando definitivamente le tesi socialiste sostenute nella prima giovinezza. Con grande amarezza scrive al Navarria:
“Ormai non
credo affatto alla libertà, alla giustizia e alla felicità sociali (i regimi in
ogni caso c'entrano poco) né tanto meno alle arcadie sanguinanti, inutili,
bestiali e inintelligenti, delle così dette rivoluzioni popolari, da quella di
Robespierre a quella di Lenin (…) A Mosca, mentre la folla non soltanto degli ex borghesi, ma di operai, e
di donne coperte di stracci facevano per sei o sette ore sotto il nevischio, la
coda dinanzi i negozi per mezzo litro di latte e una libbra di pane nero e
colloso, nei ricevimenti al commissariato degli Esteri noi pranzavamo con
forchette d'oro, vasellame di Sèvres, cristalli di Boemia, una trentina di
antipasti, cinque o sei specie di vini e di liquori (…), Questa la giustizia
sociale!
Le tasse?
Ti confesso che vorrei vederle centuplicate fino al totale strozzamento della
proprietà privata, nostra miserabile catena e del corpo e dello spirito (...)”.38
“Tu sai
che io non ho avuto nulla dal fascismo, da otto mesi anzi sono in cerca di un
impiego che mi permetta di vivere in pace senza l'ossessione di dover tramutare
in racconto o in articolo di terza pagina la pagina bianca e i miei amici,
personaggi più o meno influenti del fascismo, non si curano o non sono capaci
di farmi avere un buco anche nell'Eritrea o nel Giuba dove ho chiesto d'andare
nonostante le mie condizioni, ma con tutto ciò, dopo quello che ho visto e per
la conoscenza che ho degli uomini, sono e resto fascista (…)
Ti dirò
che se dovessi abbandonare definitivamente la speranza d'andarmene altrove, non
solo accetterò ma brigherò di diventar segretario politico o podestà per vedere
se con un po' di fascismo bene applicato non sia possibile insegnare un po' di
civiltà non dico al popolo che soffre la fame ma ai villanzoni del circolo,
dei feudi e delle farmacie”.39
Queste parole piene di sdegno sembrano dettate non
tanto da un credo politico, ma piuttosto dall'esigenza umana che vuole
salvaguardare l'uomo, per non vederlo schiacciare da ingiuste
strutture socio-politiche. L'epistolario con l'amico Corrado Sofia, che
recentemente ha voluto raccogliere sotto il titolo Sicilia come trappola,40
testimonia lo stato d'animo del Lanza, provato da tante sofferenze e nello
stesso tempo costituisce l'estrema, dolorosa testimonianza del rapporto
odio-amore che legò lo scrittore alla sua terra, che se da un lato la Sicilia
era l'unica, insostituibile fonte d'ispirazione dell'intera sua opera
letteraria, dall'altro fu la causa della sua esasperazione psicologica e
morale, dell'inaridimento della sua vena, Infatti, negli ultimi due o tre anni
della sua vita, inchiodato nella natia Valguarnera, Lanza non riuscì più a
scrivere altro; e nelle lettere a Corrado Sofia forse potrà trovarsi la chiave
del suo involontario silenzio.
Io sono in campagna,
– scriveva - dove ho ormai la mia sola casa d'abitazione, bloccato dalla
noia, dalla disperazione e dal più ventoso e piovoso autunno. Un
albero d'arancio quest'anno è pieno di frutti e mi nutro di vitamine. Leggo
Balzac, mentre diluvia: l'ossessione del denaro che è in queste
pagine si impadronisce miseramente di me”.41
La madre, cui era legato da profondo affetto, gli venne a mancare nel novembre del 1931, gli amici sembravano averlo dimenticato, non si curavano di trovargli un lavoro che l'aiutasse a condurre una vita meno grama, La capacità creativa del Lanza si andava esaurendo e gli riusciva sempre più difficile scrivere, Nemmeno più fortunato era in campo sentimentale, si era perso in una passione per Jole D'Amico, una cara compagna di liceo soprannominata "Jobobic" ma non era mai nato un legame stabile, definitivo. Jole D'Amico si era poi sposata con un ufficiale tedesco assai più giovane di lei.42 Un certo presentimento di fine prematura assaliva di tanto in tanto l'Autore, che già a venticinque anni scriveva:
“(...) io non
ho certezza di vivere a lungo, nelle migliori delle ipotesi posso vivere quanto
Morselli; perciò ho fretta di dare una giustificazione alla mia vita,
soprattutto di fronte a me (…).43
Nel 1931 Francesco non sembra affatto contento della sua vita, non riesce a giustificarla e
confessa;
“A che parlarti di me? (...),
Ho in odio me stesso e il mondo: il senso della rovina materiale e
intellettuale, d'una vita perduta da ricominciare non so com. Sono alla ricerca
d'un impiego che mi possa salvare da questa situazione disperata, dal pericolo
di non so che espediente pazzesco. La miseria che c'è in paese - c'è della
gente che muore letteralmente di fame - contribuisce a demoralizzarmi, I vinti
hanno sempre torto, Mi sento inutile, e questo aggrava il mio morale
gravemente scosso”.44
Qualche conforto al suo cuore lacerato è dato
dalla fede cattolica cui, nell'ultimo periodo della vita, si era riavvicinato.
La fede cattolica lo aiutava a sperare in un avvenire più roseo, in un lavoro
affrontato con maggiore entusiasmo, magari allietato dall'affetto di una
famiglia che, Lanza aveva sempre desiderato crearsi; nel 1932, non gli sembrava
più un sogno irrealizzabile, si era invaghito di una "divina
fanciulla":
“Credo che
sposato potrò lavorare a queste cose [allude al proposito di comporre nuovi racconti] e se avessi una base
economica sicura non dispererei di dare un segno delle mie possibilità (…). E
allora mi sposerò. Cattolico apostolico romano penso alla santificazione del
matrimonio (…)”.45
Intanto, sentendosi un po' rasserenato, si recava a Tripoli, nel maggio
del 1932, dimorandovi alcuni mesi, I Mimi Arabi nacquero in seguito a
questo viaggio.
Lanza conciliò, con qualche compromesso, cristianesimo e spiritismo di
cui era stato sempre appassionato cultore partecipando a numerose sedute spiritiche
con Peppino Loggia che faceva da medium. Così informava l'amico Navarria:
“(…) io
sono qui in pieno spiritismo; non arricciare il naso, e non pensare che mi
lasci trascinare dalla suggestione(…) I misteri, sotto il magico potere del
tavolino di Peppino Loggia, si spalancano (…) Sei in errore sul mio ardore di
neofita; si tratta soltanto di un fenomeno del quale voglio rendermi conto.
Come ti scrissi, questo non aggiunge nulla alla mia fede, e tanto meno potrebbe
mutarl. II terreno sul quale poggio i piedi è forte e sodo, e il cattolicesimo
è albero così vasto che può comprendere anche la piccola fronda dello
spiritismo ( …)”.46
In seguito a un'iniezione, fatta con ago non sterilizzato,
lo scritture veniva colto da grave malore mentre si recava a Roma dove l'amico
Corrado Sofia era riuscito a trovargli un lavoro. Ma durante il viaggio è
costretto a fermarsi a Catania, perché colpito da una setticemia che lo
inchioda prima nella solitudine disperata di un albergo da "cocottes"
e poi lo porta a Valguarnera dove si spegneva dopo pochi giorni, Più che mai
profetici tornano alla memoria alcuni versi dell'Autore, che sintetizzano la
sua breve vita
“Vivremo per
sempre alla giornata
con lo struggente
pensiero del domani,
tutto sarà incerto
e provvisorio
come svegliarsi
giorno per giorno
in un'isola deserta.
(…)
la speranza farà
sempre punto e daccapo,
anche la morte ci coglierà alla sprovvista”.47
Qualche giorno prima della morte, scrivendo a un amico, Lanza lamentava
la solitudine di cui soffriva a causa dell'indifferenza degli amici:
“Mi ero l'altro ieri messo in viaggio per Roma, ma in
treno sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fermarmi all'albergo,
Si tratta d'una iniezione suppurata con sintomi di setticemia, Per due giorni e
due notti ho delirato con la febbre a 41, solo come un cane, Ora la febbre è a
39, Ho telegrafato a parecchi amici vicini, ma tutti si sono limitati ai
semplici doveri di cortesia, Questa solitudine mi da una maggiore
disperazione. Aspetto domani mio fratello per tornare a casa: ricado nella
trappola, è proprio il mio destino. Mi sarà molto più difficile ora pensare a
partire: sia per i soldi, sia perché non ho più biglietti, e quello che feci
non sarà certo ancora usufruibile,
(...)
Scrivimi a Valguarnera - e speriamo che anche questa passi”.48
Lanza, spegnendosi dopo sei giorni, morì il 6 gennaio 1933, partì lo
stesso per un lungo viaggio, che nessuno immaginava facesse così presto, Nella
casa natale, dettata da Arcangelo Blandini, sono state scolpite queste parole:
IN QUESTA CASA DOVE ERA NATO
MORÌ LO SCRITTORE FRANCESCO LÀNZA
(5 LUGLIO 1897 - 6 GENNAIO 1933)
IN BREVE TERMINE DI VITA
CONSEGUÌ
PERSPICACE SENSO DELLE COSE UMANE
MISURA DI STILE E NITIDEZZA D'ARTE
ASCOLTÓ LE VOCI PROSSIME E LE REMOTE
CONTEMPERÓ MEDITAZIONE E SORRISO
ESPERIENZE E AFFETTI
IN SINTESI DI POESIA
Quella di Francesco Lanza appare una vita segnata,
ma senza quelle stimate tragiche che possono trasformare l'esistenza in
destino. Quanto c'è di tragico nella vicenda di Lanza è l'avvolgente
avvertimento di una situazione da cui non riesce a trovare una via d’uscita,
vissuta dunque nella dimensione schopenhauriana della irresolubilità.
Le notizie, ricavate dalle lettere che egli scrisse all'amico Corrado Sofia,
costituiscono un documento eccezionale; ci aiutano a calibrare la1 vita
di un uomo e insieme di una coscienza infelice, mentre ci danno il risvolto
drammatico della condizione intellettuale in un paese siciliano lungo gli anni
Trenta. La fuga dalla Sicilia di
quegli anni assomigliava a una vera e propria diaspora. Molti giovani
scrittori: Elio Vittorini, Vitaliano Brancati, Alfredo Mezio, Arcangelo
Blandini, e altri tentarono di evadere. Alcuni ci riuscirono; altri, come
Blandini, tornarono indietro o, come Lanza, non riuscirono a trovare
consistenza o pienezza di realtà. Eppure a Roma Francesco Lanza venne accolto e trovò spazio. Probabilmente il suo
temperamento e la sua situazione, non gli consentirono di restare fuori dalla
Sicilia, almeno quanto sarebbe stato sufficiente per assicurargli un qualche
ruolo, come non gli consentirono di tagliar corto, prendere di petto la vita,
rovesciarla e installarvisi. Lanza tornava in Sicilia, forse inconsapevolmente
ne sentiva il bisogno, forse sentiva il bisogno di poterla avvertire come una
prigionia soffocante, per continuare ad avere il desiderio di un'altra vita, Un
termine diverse volte adoperato nelle lettere, è un termine inequivoco e
perentorio: «scappare… scappare», variamente ripetuto
«Maledetto
paese» dice del proprio. Chiama la Sicilia «trappola», «gabbia infernale», La
parola trappola variamente ripetuta voleva significare la difficoltà che il
vivere in Sicilia gli procurava. La Sicilia diventava così situazione
coinvolgente, forza ineluttabile, peso insopportabile. Questa sensazione lo
accompagnò durante gli ultimi anni
della sua breve esistenza, un'ossessione dalla quale non riuscì a liberarsi, La
sua solitudine gli procurava frenesia e angosce, quasi presentisse che lo
scacco era a portata di mano, ne sfiorava l'orlo come davanti a un abisso. Ma
nonostante tutto voleva uscire da quella che chiamava «situazione disperata».
Aveva speranze, progetti, pensava alle tante
cose da scrivere, si allontanava più volte dalla Sicilia, faceva viaggi, ma poi
il suo malinconico demone tornava ad assalirlo:
“Mi pare,
nell'inutilità di questi giorni - scrive il 27 settembre del 1932 - ch'io
debba ancora incominciare a vivere, sicché la mia vita non è che una speranza di vita, l'amore, la
tranquillità di spirito, l'arte, la possibilità di bastare a me stesso, una
casa dove posare il corpo, cioè la sicurezza della vita e il pensiero
tranquillo della morte”.49
Sono cose calme ed essenziali. Ma
è come se le attendesse, non sembra faccia nulla per trovare una consistenza,
«La vita come speranza di vita» diventa l'equazione assillante che percorre la
sua esistenza, ma dove si insinua il sospetto di non poter riuscire a
realizzare nulla di questo essenziale. Lanza è come se introduca una forma di
remissività laboriosa, la cocente fermezza che comunque è necessario procedere,
andare avanti, e insieme la cauta e sinistra consapevolezza della sconfitta
presentita come tempesta che incombe.
Quella vita vissuta come speranza di vita, forse era una prospettiva di morte.
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NOTE