“COME UNA PIUMA BIANCA IN UN GORGO BUIO E SENZA FONDO”
di Rino La Delfa
I Mimi sono l’opera più conosciuta di
Lanza, l’unica a proposito della quale si è stabilita finora una tradizione
critica[1] e che,
nello stesso tempo, può riuscire simpatica al lettore comune. La verità è che i
suoi scritti perfetti hanno così pochi lettori o lettori così poco attenti che
spesso i Mimi vengono considerati un
libro di basso divertimento umoristico e saporitamente scandaloso. La “scelta
espressiva” dei Mimi – come ama chiamarla
Italo Calvino a proposito di un commento introduttivo alla loro ristampa nel
1984[2] – è
tale da fargli accettare per intero le intime antinomie della gente di Sicilia
nella cui spiritualità è facile trascorrere da una intensa (talora fanatica)
serietà religiosa alla gioia di sommergere nel grottesco certi momenti del
culto ufficiale, anche se carichi di senso divino.
E ai
due estremi di questa disposizione popolare si legano rispettivamente la
ieratica serietà dell’Almanacco per il
popolo siciliano, uno strumento didattico assurto a opera letteraria,[3] e il
mondo talora “beffardo, irriverente, ironico e libertino” – come lo
caratterizza Sciascia in un suo saggio letterario su Lanza[4] – di
certi mimi, senza che per questo si possa dire che tutto il Lanza si
identifichi in uno solo di tali due modi di sentire, umani e poetici. “La
jattura più grande che si è accanita contro la fortuna letteraria del Lanza è
costituita sino ad oggi nel puritanesimo eccessivo con cui si è voluta
discriminare la materia dei Mimi”,[5] e
nella mancanza di un coraggioso tentativo di leggere gli stessi nella
prospettiva della sua più vasta produzione letteraria.[6] Questo
è quanto tenteremo di fare a partire da questa riflessione: interrogare il
Lanza dei Mimi e delle altre sue opere
in maniera unitaria, in modo da rilevare più accuratamente le istanze e il
senso della sua riflessione umana e poetica.
1. I confini della nostra riflessione
Accostandoci a Lanza con gli interrogativi che
motivano questa nostra riflessione, siamo consapevoli di non dover direttamente
entrare nel merito di una analisi critica dello stile delle sue opere, né tanto
meno nel recupero filologico-storico degli oggetti che variamente la
costituiscono. Va da sé che il nostro studio presuppone ampiamente tali interessi,
senza tuttavia impegnarsi nel renderli centrali o espliciti. Trascenderli non
significa evitare di dipendere eventualmente dal condizionamento che essi
necessariamente giocano nella composizione dell’opera letteraria.
La
“scelta espressiva” dello scrittore Lanza può senza dubbi essere commentata con
la riflessione di Santino Caramella, valido filosofo siciliano di quest’ultimo
secolo, e tenuto in grande considerazione dallo stesso Lanza che lo conobbe e
la cui collaborazione richiese per il suo Lunario.[7] “La
fantasia – suggerisce Caramella – è nell’ordine del soggetto l’attività analoga
al fenomeno nell’ordine dell’oggetto. In conseguenza, per quanto si proceda a
distinguere l’attività artistica nel mondo della conoscenza fantastica, non si
può fare a meno di tradurre nel linguaggio della estetica ciò che si dice del
fenomeno nel linguaggio della psicologia e della gnoseologia, anzi, e prima di
tutto, della fenomenologia. Il fenomeno è apparenza che assume una struttura
costante e intenzionale; l’atto estetico è immagine di senso e sentimento che
si organizza in opera d’arte, in forma bella, gusto dell’espressione, e alla
scienza del fenomeno corrisponde la critica e la storia della poesia. Il
fenomeno si svela sul proprio piano dell’esperienza come un’elaborazione
fattuale e fattiva di certi dati; e la fantasia si vanta di essere mimesi e
poiesi, operazione selettiva e creativa: il ‘puro fare’, contingente e
variabile, è un loro carattere comune…”.[8]
A
partire da questo assunto, vale una volta per tutte premettere che seppure
Lanza abbia in qualche modo assimilato la lezione dei rondisti nella sua
struttura sintattica più rigorosa, che abbia colto l’attualità nonché il valore
del frammento dai vociani, e che si sia identificato con lo spirito più verace
del felibrismo,[9]
tuttavia abbia anche e decisamente superato tutte queste modalità stilistiche e
inclinazioni del gusto attraverso il movimento originale della sua fantasia
creatrice. E’ dunque alla porta di questa “fantasia selettiva e creativa” – per
stare al dettato di Caramella – che vogliamo bussare per capire quali autentici
interrogativi siano affiorati e si siano espressi nel “ritmo dell’onda della
coscienza” dello scrittore.[10]
2. Il mondo poetico di Lanza
L’opera
del Lanza mostra un afflato sentimentale talvolta evocativo del crepuscolare,
per via di quel suo cocente rimorso e del suo bisogno accorato di rievocare le
cose più semplici remote ed eterne del suo paese.[11] Il
passaggio dalla evocazione psicologica e sentimentale alla espressione libera e
artistica dalla sua terra e dal suo popolo, ovvero dal suo cuore, è
dichiaratamente il frutto dell’influsso sulla sua formazione artistica di G.
Verga, G. Pitrè e G. Meli: “Una lezione sociale e stilistica insieme che prende
il Lanza dal fondo del suo essere e gli scopre il significato terreno, tutto
siciliano, della propria vita e della propria opera, fino alla contemplazione
mitica (astorica) di un mondo, in cui è il protagonista il contadino nella sua
terra, come Adamo nel paradiso terrestre”.[12]
Sta qui
la manifestazione fantastica della coscienza del Lanza: nel sapore primitivo
delle cose, assunto dalla fantasia del popolo siciliano che ama immergersi
nell’epopea immemorabile della terra; nel segreto orgoglio di questo popolo che
il mito di Proserpina e Plutone celebra nel mistero delle quattro stagioni,
mistero della sua vita e della vita della natura, in cui l’Isola si allarga
alla dimensione del mondo.[13]
“Il
Lanza fu scrittore senza drammi” rileva M. Lamartina[14] – a
mio parere uno tra i più sensibili studiosi dell’Autore – neppure la
problematica sociale assunse in lui la rilevanza di un cruccio ricco di
conseguenza sul piano umano e letterario, ma si stemperò in un senso di
mestizia, tutte le volte che prese forma ai suoi occhi l’esistenza di coloro che
sono soliti “misurare il mondo ad are ed ettari” e di coloro – e sono i più –
che “sudano e penano per campare la
vita”.[15] Ma in
definitiva, tanto gli uni che gli altri, i galantuomini e i cafoni, finiscono
per avere cittadinanza nel suo sereno mondo poetico come creature
indispensabili ad esso. La grottesca apoteosi dei primi è nella tela smagliante
de L’ora del circolo,[16] mentre
gli altri rimangono in perpetuo stagliati nelle più autentiche figurazioni
poetiche di cui l’autore riuscì ad essere creatore.
Né il
problema esistenziale dei moderni riuscì ad attrarre nella spirale del dubbio e
dell’angoscia la vita del suo pensiero, “se non nella misura in cui ne possa
essere afflitto colui che ama la solare vita della terra e teme l’avvento delle
tenebre: la pacata nostalgia di un poeta georgico che nella positività delle
sue prospettive di vita avverte pure la necessità della morte, come evento
doloroso che travolge uomini e cose. Un fatto, comunque, enucleato dalla
visione artistica del Lanza, quasi periferico, come regione remota al di là del
limite e quindi ricorrente nella coscienza nei soli momenti in cui il pensiero
sgomento corra a scrutare lontano”.[17]
Ma
quasi sempre il Lanza preferì guardare attorno a sé, dentro le cose che sentì
vicine alla sua spiritualità di poeta, e ne scoprì l’anima segreta e vi si
adagiò immemore; e se richiami di lontananza lo interessarono, “esse furono
quelle che lo ricondussero al senso primigenio del nostro sentire terreno e
alle scaturigini remote dei suoi ricordi, quasi custoditi e rinvenuti nello
scrigno di una esistenza anteriore”.[18]
Per una
tale disposizione spirituale e affettiva il mondo poetico di Lanza si apre in
un’aura di mitezza e nitore ideale, senza ombre, rifluisce nel reale senza
affondarvi, senza rimanervi irretito, anzi operandovi – alla stregua della
suggestione di Caramella – “una magica metamorfosi che ne amplia i contorni, ne
ammorbidisce il senso, sino a farne il nucleo di un mito”.[19]
3. Paesaggio e poesia
Questa
coscienza poetica è presente e operante nella consapevolezza dello scrittore.
In un saggio su L’analfabetismo in
Sicilia,[20]
scritto
in preparazione all’Almanacco, mostra interamente e criticamente
questa convinzione, chiarendo per noi i termini della sua aderenza alla terra
di Sicilia, cioè alle cose che sentì vicine alla sua spiritualità di poeta, ciò
che qui chiama eufemisticamente “la campagna”: “Il torto maggiore – spiega
Lanza – è sempre quello di considerar la campagna dalla città, di giudicarla
sui libri e i giornali, secondo un cliché
arcadico e pastorale, alla stregua delle vacanze estive, e delle ‘pastorellerie
alla Rousseau’ ”.[21] Lanza
qualifica questa, mera “retorica e parodia della campagna”.[22] Per
lui – e ciò pare assai determinante per comprenderne l’originalità – la
campagna è insieme paesaggio e poesia; in essa – “il paesaggio è intimo e
centrale, la poesia posteriore”,[23]
posteriore, nel
duplice senso di retrospettivo e finale. In altri termini, la poesia ha una
sostanza che la precede e che si trova già nelle cose. Avverte infatti l’autore
con toni perentori: “Bisogna dunque mettersi d’accordo sulla campagna in
generale, e su quella siciliana in particolare: che ha delle prospettive e dei
contorni propri, aggravati dal clima storico e sociale”.[24] La
meditazione poetica di Lanza è incomprensibile se non si tiene conto di questa
istanza per lui così essenziale: il rischio – come può rilevarsi nella critica
più superficiale – sarebbe infatti quello, al meglio, di allinearlo alla
schiera dei poeti arcadici, o, al peggio, ai cultori metodici delle nostalgie
folkloriche.
Per
Lanza “campagna è soprattutto il tono e l’ansia; è la continuità fisica fra la
terra e l’uomo, la necessità ostile di amministrarla, la servità tramandata da
padre in figlio inesorabilmente, la fatalità senza parole dove l’uomo è uno
strumento come la vanga e come l’aratro. Ancora, è il senso d’appartenere alla
terra fino alla morte, la gelosia, l’acrimonia del possesso, l’ira della
fatica, il raccoglimento pensoso, l’intimità saporosa del pane, l’ubriachezza
del sole e della vastità: è la paternità; lo sgomento filiale. Nei verdi campi
di biade c’è più grigio e giallo che non si creda. L’uomo acquista la stessa
opacità sorda della terra, la cui economia gli schianta la schiena e storce il
collo”.[25]
Sono
parole chiare che rivelano la tangibilità poetica della coscienza di questo
autore, la verità della sua “onda” fantastica, sul modulo della riflessione del
Caramella, che ci ricorda come la fantasia sia “riflessione attiva, che trae
dalla propria fonte interiori motivi di novità e di variazione nella
contemplazione della vita: e [come] dalla fonte al getto d’acqua vi sono
giuochi inventivi, di effetto imprevisto”.[26] E
l’imprevisto, nel senso dell’autenticamente gratuito, giunge immediatamente
dopo nella nitida riflessione del Lanza, allorché egli esordisce dicendo:
“Perciò poesia della terra è la finale cristianità della sofferenza, e
paesaggio è l’aderenza d’una generazione intera, se non addirittura di un
ciclo”.[27]
Ci
sembra di potere cogliere in questo asserto conclusivo come il manifesto
teoretico della poetica del Lanza; esso potrebbe così condensarsi “al principio
fu la terra, e il villano è il suo demiurgo”: sta qui la teologia del nostro
autore, tanto feconda di poetiche visioni, dove uomini, eroi e santi cristiani
si confondono per identità di sostanza che rimane sempre divinamente terrena e
corposa, come quella delle ridenti creature del mimo e del mito, legate al loro
sfondo rurale come alla ragione stessa della loro esistenza.[28]
Non c’è
vicenda rurale, nella descrizione che Lanza fa di esse nelle sue opere, che
perda mai sacertà e decoro e contro cui il villano recrimini: egli è lasciato
intatto nella sua originaria condizione di signore della terra, di interprete
del linguaggio della natura. Lungi da ogni problematica sociale che ne fiacchi
l’entusiasmo, egli appare “con la falce al fianco, chè quella è la sua spada”[29] e se
la schiena “gli duole dal lungo stare curvato” egli “non ha neppure il tempo di
pensarci, che c’è da preparare l’aia”.[30] In
questo è anche visibile il distacco formale da Verga e Pirandello: il mondo di
Lanza è molto lontano dalla tragica condizione delle creature verghiane che
hanno il volto di “Nedda” e di quelle pirandelliane che hanno il volto di
“Ciaula”. Nel Lanza c’è il cantore del sole di Sicilia, negli altri, sino a
Tommaso di Lampedusa e sino allo Sciascia, sono riscontrabili i cantori della
sofferenza del sole di Sicilia.[31]
Senza
entrare nel merito di questi altri autori, appare chiaro invece come in Lanza
vi sia una dimensione profondamente consapevole, sebbene non formalmente
espressa secondo i canoni confessionali del cattolicesimo del suo tempo, della
visione cristiana dell’esistenza e della vita. Non avrebbe senso la sua
osservazione “poesia della terra è la finale cristianità della sofferenza, e
paesaggio è l’aderenza d’una generazione intera, se non addirittura di un
ciclo”, se essa non implicasse quella che lui chiama “la religiosa poesia della
terra e del lavoro”,[32] ovvero
l’interpretazione poetico-fantastica, a livello della coscienza, della realtà.
Per Lanza, essendo la poesia posteriore, essa – come si è detto – implica una
sostanza anteriore nell’esperienza. Per questo l’autore fa sue le parole di
Lombardo-Radice nel dire che “un contadino meridionale […] è spesso un artista
spontaneo”.[33] Il
dissidio per il contadino siciliano, spiega Lanza nel contesto del suo saggio
pedagogico, non consiste nell’assenza di una visione sulla vita, quanto “tra la
sua ignoranza alfabetica e la sua sapienza in quanto aderenza e continuità
agricola, umano significato della terra: dalla coscienza cioè di non potere
avere il corrispondente grafico del proprio mondo pensato e parlato, gonfio di
vergine linfa”.[34]
Il
significato di questa osservazione è decisamente importante in Lanza. Essa
implica che il reale – a differenza di Pirandello – non si dà nell’atto della
sua espressione, e che la tensione tra esperienza e atto estetico è costitutiva
della coscienza poetica. In maniera del tutto ironica infatti commenterà che
“insegnare per esempio la grammatica al nostro contadino significherebbe farlo
sgrammaticare; avviarlo a comporre significa costringerlo alla caricatura
dell’italiano […] il dialetto è così vivo e presente in lui, così connaturato e
predominante che il corrispondente nella lingua italiana non può riuscire che
deformato e avvilito dalla sotterranea potenza di quello”.[35]
La
conseguenza di questo modo di vedere è che “il contadino è un essere di pura
fantasia; lettore immaginoso, alato, primitivo: la vanga gli fiorisce in mano
come il tronco di palma a San Cristoforo. Per arrivare alla sua anima bisogna
quindi attraversare la sua fantasia. Tutto per lui deve assumere un immediato
valore poetico […] sempre intonato alla sua umanità, rilevato in immagini,
trasformato in poesia”.[36]
L’esito pratico auspicato dall’autore perché il contadino realizzi questa sua
vocazione è quello di avvicinarlo “ai capolavori della tradizione popolare e
umanistica: alle storie dei Santi e di Cavalleria, alla Bibbia, al Vangelo, ai
poemi eroici e georgici […] su un tono di poesia sempre presente”.[37]
Cito
apposta quest’ultima osservazione, perché mi permette di valorizzare
significativamente – contro l’opinione corrente – l’emergere fin da questa fase
della sua vita e della sua riflessione di un consistente pensiero cristiano del
Lanza, proprio come viene espresso nella sua affermazione: “poesia della terra
è la finale cristianità della sofferenza, e paesaggio è l’aderenza d’una
generazione intera, se non addirittura di un ciclo”. Affiancare Bibbia, Vangelo
e storie di Santi a rapsodie eroiche e georgiche, non costituisce affatto una
riduzione da parte di Lanza del valore intrinseco che la fede può associare a
queste fonti in ambiente confessionale, piuttosto ne dimostra la reale
consistenza in contesto esistenziale, nel senso che esse esprimono la visione
poetica della vita, ovvero l’intelligenza cosciente del vissuto come atto
posteriore. In tal senso la poesia appare in Lanza come una forza liberatrice
dei significati intimi e delle aspirazioni profonde che risiedono nelle cose:
una visione focalizzata, fin’anche ottimistica (alla maniera di F. de Sales?)
del mondo, giammai una serie di significati sovra-imposti all’esperienza, una
vera e propria fuga dal mondo nell’iperuranio fittizio e disumano
dell’astrazione.
Quasi
come per dare valore alle sue convinzioni, Lanza punta un indice accusatore
contro ciò che, a parer suo, trattiene tale liberazione dal prendere corpo
interamente. Senza i toni dell’allusione, ma con pacata determinazione, con la
distanza fisica che gli è imposta dallo scrivere mentre si trova a Roma, e con
la distanza spirituale-morale dell’autore de L’ora del circolo, dice: “C’è laggiù una piccola borghesia rurale,
opprimente turba di farmacisti, avvocati e cavalieri, angusta ed estranea,
senza grandi ideali civili e politici, sprovvista di ogni ansia di modernità,
senza una visione cristiana della vita”.[38]
L’attacco non è solo dettato dalla connaturale inclinazione al senso di
giustizia sociale che accompagnerà il nostro autore costantemente nel corso
della sua breve esistenza. L’accusa è molto più grave: tali uomini non hanno
coscienza poetica, quell’onda della “fantasia selettiva e creativa”, che
permetta di possedere ideali, ansie, e una visione
cristiana della vita.
L’intuizione
di Lanza è sconvolgente; egli sembra dire che lì attecchisce una visione
cristiana della vita, dove prima di tutto vi è una consapevolezza dell’aderenza
alla terra, nel senso attribuitole allorché parla eufemisticamente della
“campagna”. La nostra impressione può essere avvalorata da infinite piste di
ricerca nell’opera complessiva dell’autore o da specifiche letture. Vale per
tutte in questo istante il richiamo alle beatitudini di Matteo (Mt 5, 1-10)
poste non a caso nell’incipit del suo
almanacco popolare.[39] Fedele
alle sue proposte pedagogiche egli accompagna la scansione di ciascuno dei mesi
dell’anno con la scelta tematicamente meticolosa di un brano evangelico da
proporre alla considerazione dei lettori dell’almanacco. Le beatitudini infatti
intrecciano insieme la visione terrena dell’uomo e la sua vocazione celeste, in
una contemporaneità stringente sia nell’annunzio evangelico che sul piano
poetico lanziano tra aderenza alla terra (paesaggio) e finale “cristianità
della sofferenza”. Dirà Lanza, “In Sicilia tutto ciò che è grande ed ammirevole
è sempre agricolo: arte, poesia, storia. Verga non appartiene alle farmacie, ma
alla campagna […] c’è un analfabetismo delle classi dirigenti molto più grave
che non quello dei contadini”.[40]
Quanto
rilevato circa la “visione cristiana” della vita in Lanza assume una importanza
particolare se si tiene conto di alcuni necessari elementi. Primo, il fatto che
tale espressione ricorra – mi pare di vedere – solamente e unicamente nel
contesto del saggio citato, che nella produzione dell’autore è l’unico esempio
di una riflessione teoretica sul significato dell’arte in relazione alla vita.
Proprio l’esiguità della ricorrenza del concetto ne dice il valore intrinseco;
ancora di più il contesto – una riflessione antropologica – in cui lo si
richiama. In genere l’opera del Lanza, a causa del suo forte spessore
allegorico, non avrebbe potuto ammettere l’esplicitazione concettuale della
sostanza del vissuto, che, semmai sarebbe dovuta emergere come assimilazione
retrospettiva dell’atto poetico. Il resto della nostra indagine avrà il compito
di mettere a fuoco questa dinamica nelle sue opere.
Secondo,
il nostro autore, proprio negli anni in cui scrive questo saggio, appare ai
suoi biografi piuttosto avulso dalla professione formale di una fede religiosa.[41]
Aurelio Navarria, suo amico fraterno e intellettualmente affine, ci informa che
“negli ultimi anni di vita, specialmente dopo la morte della madre, avvenuta
nel novembre del 1931, Lanza tornò alla fede cattolica con un fervore schietto
e privo di formalismo. Giovinetto era stato un lettore assiduo della Bibbia,
che gli aveva dato ispirazione a vari drammi e poesie. Nell’opera sua a stampa,
nei Mimi, nelle favole cavalleresche,
nelle novelle rusticane, è difficile sospettare questo lato della sua natura
poetica inteso alle supreme virtù cristiane”.[42] Questa
apparente ‘laicità’ del Lanza nulla toglie alla possibilità di rivedere tale
giudizio – per quanto autorevole – circa la sua religiosità, sebbene da una
prospettiva interna – non dico intimistica – alla personalità umana e intellettuale
dell’autore.
Ne è
prova la proposta di quella “visione cristiana” appena esaminata, che egli
sembra legare non tanto alla professione formale pubblica della fede cristiana,
ovvero ad una presenza semplicemente culturale del fatto cristiano nella
società – questo Lanza lo avrebbe aborrito – quanto invece alla coerenza tra
vita e coscienza poetica, che egli riassume nella prospettiva di tale visione.
(Basti notare il contrasto pieno di ironia che ravvisa nel confronto tra il
mondo dei notabili, privo di una “visione cristiana” della vita e quello dei
contadini “gonfio di vergine linfa”.) La difficoltà di “sospettare” – come dice
il Navarria – l’esistenza di una simile visione cristiana può essere superata
da una ri-lettura delle opere, anche dei Mimi,
a partire dalle concezioni teoriche ricavate fino a questo punto nella nostra
indagine. Resta vero che – e qui Navarria intuisce bene – negli ultimi anni
della sua vita Lanza si riappropri di una consapevole fede cristiana.[43] Ma
sarebbe impresa impossibile ricavare questo stesso fatto dalle medesime opere e
dalle lettere dell’autore. La sobrietà della sua ‘conversione’ con “un fervore
schietto e privo di formalismo” al massimo lo si evince dal duplice uso in
tutte le lettere scritte a partire da questa data del termine “Provvidenza”,
cui si affida per motivi pratici davanti alla precarietà delle sue condizioni
economiche.
4. La visione cristiana della vita denudata della formalità sacrale
L’intento
di questo parte della riflessione è quello di evincere nelle opere del Lanza
quella dinamica produttrice del loro forte spessore allegorico, a partire dal
quale – come si è detto – non avrebbe potuto ammettere l’esplicitazione
concettuale della sostanza del vissuto, che, semmai sarebbe dovuta emergere
come assimilazione retrospettiva dell’atto poetico. Non deve dimenticarsi come
per il nostro autore, “poesia della terra è la finale cristianità della
sofferenza”, atto posteriore al vissuto umano in aderenza alla condizione
terrena “così continua e sostanziale”.[44] La
religiosità del Lanza in tal senso si identifica nel suo credo morale e vive
sull’humus cristiano senza
confessionalizzarsi, come germoglio spontaneo.[45]
Contrariamente
a quanto potrebbe dirsi se si valutano in maniera superficiale, questa
prospettiva – a mio parere – si può già ricavare nei Mimi.[46] Che
cosa sono i Mimi? “Sono dialoghi
popolareschi e rapidissimi, ma non soffocati, nel respiro ritmico di un impasto
linguistico che tocca il tono sicuro e alto dell’arte. Gli interlocutori
protagonisti sono mimi paesani che la tradizione orale ha conservato immutati
con un rilievo plastico dal tocco classico in cui puoi riconoscere attualissimo
il richiamo alla perfezione ellenica della Sicilia antica. Il cervello fino del
contadino siciliano, l’astuzia della sua donna; il tonto che accoglie la beffa
come un nuovo sorprendente scoprirsi del mistero o del segreto della natura; il
villico burlone che nel comparatico appunta tutta la sua gioia di vivere,
rilevano il mondo complesso di una gente che mantiene i tratti esteriori
semplici e quasi gelosamente enigmatici”.[47]
Accanto
alle diverse valutazioni stilistiche e letterarie dei Mimi, ampiamente emerse
nella critica, quello che qui preme rilevare è la loro esemplarità di una
“poetica dell’assurdo”.[48]
L’osceno e il boccaccesco di tutta una fascia della mimografia lanziana
assumono connotazioni irrealmente grottesche. Essi sono costruiti su di una
metafisica dell’assurdo che non sembra funzionale ad un qualsiasi fine della
narrazione. E’ in questo trattare poeticamente l’assurdo, il paradossale,
l’inconsueto che viene in genere ravvisata l’originalità dei Mimi. L. Sciascia
commenta che il Lanza, “letteratissimo, introverte nell’atto stesso di far
letteratura l’oggettiva ironia delle cose”.[49] Ciò è
vero se si pensa alla storiella de La
lunga, nella quale è descritta la scena di un corteo nuziale che non può
entrare in chiesa perché la sposa “non poteva passare, ché la porta era bassa e
non sapean come fare”; il problema viene risolto da un passante che, anziché
recidere la testa della sposa, come tutti suggerivano, “lasciò cadere come
venne una manata sul collo della zita: quella calò la testa e passò”;[50] oppure
la storia de Il licodiano che “tant’era ladro che non avendo a chi rubare rubava a
se stesso, e a chi non aveva nulla rubava la vista degli occhi mettendoglisi
davanti”; o ancora la storia del mazzarinese che soffiava dentro un sacco che
poi chiudeva accuratamente al fine di conservare il fiato per quando gli
sarebbe mancato.[51]
In che
cosa consiste veramente l’assurdo dei mimi di Lanza? Si tratta semplicemente di
un “gioco” dell’autore con i motivi grotteschi delle storie; il metterli in
evidenza ed esaltarli per promuoverne una lettura poetica?[52] Se
accettassimo questa interpretazione, rischieremmo di svuotare la poesia dei
mimi della sua stessa originaria “assurdità”: piuttosto “La cifra artistica,
pur mirabile per la levigatezza e la letterarietà del linguaggio, rimane unica
per l’impasto felice dell’estro popolare, degli elementi figurali ed icastici,
della concitazione dialogica tra creature che sembrano appartenere ad una
umanità senza peccato originale e senza coscienza del peccato”.[53] Nel
mondo dei Mimi c’è il sapore di una
innocenza primordiale, di un candore edenico: in esso non c’è posto per la
fame, per la paura, per la gelosia. “In Lanza c’è il recupero di un mondo
raccontato che ricalca di striscio la logica del reale, ma attenuata, sfumata,
quasi metafisica, con l’uomo liberato dal peso del quotidiano e immerso nel
trionfo di una bonarietà istintiva, come unica valenza della gioia del vivere”.[54] In
questo – a mio avviso, cogliendo il pensiero di alcuni critici come Mariano
Lamartina e Melo Freni[55] –
consiste la poetica dell’assurdo dei Mimi
di Lanza. In tal senso, “il mimo erotico del Lanza ha fatto giustizia di un
certo moralismo puritano che ha sempre contrastato il passo al libero fiorire
della immaginazione e dell’arte”.[56]
Infatti, allo stesso gusto di parafrasare racconti dell’area religiosa si
possono accostare i mimi che raccontano, sdrammatizzandole, le sacre
rappresentazioni in uso, durante le feste pasquali, in vari paesi della
Sicilia. I mimi che ne nascono evidenziano l’esigenza, tutta popolare, di
materializzare gli effetti talora aberranti della sacralità, per cui, spesso
anche la rievocazione sceneggiata del dramma della Passione si libera dalle
ombre del mistero per assumere ritmo di vicende accidentali, piene di brio e di
vita, senza scadere nella derisione del fatto religioso.[57]
“Il
ridicolo erompe dalla scoperta sperequazione tra il divino e l’umano, tra il
Cristo vero e il Cristo fittizio, in cui si cela l’uomo col suo peso di
terrenità e con le sue esigenze corporali. La finzione non regge a lungo al suo
ardito impegno e l’uomo ne esce sferzato dallo scherno e dal sarcasmo della
platea, costretto a riassumere le fragili dimensioni da cui aveva presunto di
evadere”.[58]
Il
Lanza recepisce la vis comica di tale
tipo di farsa e la manipola sapientemente.[59]
Soprattutto lasciandovi una patina di letterarietà liturgica. A Mineo, per
esempio, “presero un tale che aveva una bella barba bionda e due occhi cilestri
[…] e nudatolo lo misero in croce. Quando finalmente calò l’ora e il Cristo
doveva spirare […] tutti ammutolirono, buttandosi faccia a terra”. Lo scenario
è suggestivo, ma nel silenzio generale campeggerà la prosaicità degli effetti
fisiologici della abbondante zucca divorata dal finto Cristo prima di salire in
croce. E l’uomo, così risucchiato dalla forza gravitazionale della sua
terrenità, si offre al divertimento dell’attenta platea.[60]
La
soluzione lanziana dell’assurdo diverge dal cosiddetto “incidente
pirandelliano”. Per l’agrigentino ciò che è accidentale diventa la cifra per il
divenire della vita nella forma, almeno secondo le coordinate stabilite dal suo
primo critico, il Tilgher, in un susseguirsi drammatico di scoperte
ineluttabili che cambiano identità e destino dell’uomo comunque subordinato
alla finzione. Per vivere l’uomo pirandelliano ha bisogno di una forma, deve
cioè salire sulla scena e rappresentarsi, trovare senso nel copione di un capocomico.
Per il nostro autore, l’assurdo risucchia l’uomo nella sua terrenità, divenendo
la cifra che lo aiuta a definire i contorni del reale, ma in senso poetico.
Solo scendendo dalla scena, fuori dalla finzione cioè, l’uomo può entrare nella
sua verità ed evitare di confondersi con la maschera di una astrazione, sia
essa sociale che religiosa. Un altro mimo che descrive tale dinamica è Il Cristo di Santa Caterina.[61]
Qui l’azione scenica è tutta incentrata su “una
fascia di carta velina” messa ai fianchi di un uomo per “nascondergli le
vergogne” e fargli fare il Cristo in croce. Il resto, le Marie, il corrotto del
popolo, l’ora che cala, il silenzio, sono elementi scenografici complementari
rispetto alla focalizzazione visiva della carta velina, che si esprime e si
racconta attraverso le sue modificazioni e in base alle sollecitazioni di una
splendida Maddalena “pettuta come una colomba”, che si stracciava per il
dolore. La carta velina prima stride, poi si gonfia, sta per esplodere; colpi
di flash su un oggetto-protagonista che sembra vivere una sua vicenda autonoma,
oggettiva. Ma subito la magia viene chiarita: un grido a denti stretti cala
dall’alto: “Mariagrà, nasconditi le mamme, se no la cartavelina si straccia!”.
Semiologicamente
ci troviamo di fronte a un sistema di messaggi non verbali, di mimi cioè, che,
se da una parte divertono per la loro carica di comicità, dall’altra ci
avvertono di una certa intenzionalità ironica che denunzia dissenso: in questo
caso, dissenso da una visione della vita formalmente ma non realmente sacrale,
e perciò lontanamente cristiana.[62] La
rivendicazione laica del Lanza di una vita scevra della sovrastruttura sacrale
non collide con la visione radicale del Vangelo, che anzi la presume. In tal
senso si potrebbe dire che del cristianesimo Lanza recepisce l’elemento
cruciale: la semplicità del povero in netto contrasto con l’effimero e il
superfluo, l’ottusità e la pienezza di sé. In senso paolino, la poetica
cristiana dei Mimi si potrebbe decifrare come ironia del rito legale in contrasto
con l’osservanza spirituale. Certo, non è possibile nella letteratura del Lanza
attendersi un riscontro sintetico delle verità cristiane così come sono
tematizzate nel dogma e stabilite nelle pratiche sacramentali della Chiesa, ma
queste permangono intatte sullo sfondo di una serena quiescenza. Non a caso
l’uomo, alla stregua del gergo tipico della Sicilia, è spesso chiamato col
sinonimo di “cristiano”, la sua testa, “battesimo” e la sua fronte, “cresima”.
“La
sostanza psicologica del mimo appare come la commedia dei personaggi mai
travolti dal marasma morale”:[63] a tal
proposito emblematico, e degno di una lettura ancora più approfondita di quella
che possiamo fare qui, resta l’atto unico Giorno
di festa,[64] che
rappresenta in una forma lirica compiuta sebbene istantanea, alla maniera di un
ritratto il cui genere è specularmente drammatico rispetto all’umorismo dei Mimi, la vicenda di Anna, “venere
rustica”che si accinge, sfogliando i fiori in un canestro, a veder passare il
Signore dal suo balcone, nella processione del Corpus Domini, “acconciata [come] per l’arrivo di un innamorato
ardentemente atteso”.
Il
sopraggiungere inaspettato di Bastiano, l’unico uomo cui ella vuole bene,
coincide col passaggio della processione e vi si intreccia in maniera fantastica.
Lo scomparire dei due dietro la tenda rossa a fiorami che nasconde l’alcova,
ora è in parallelo scenico con i canti, le luci, i profumi dei fiori e
dell’incenso, i suoni e i movimenti che si possono percepire al di là del
balcone.
Fra i
canti melodiosi dei bambini e delle donne, è udibile il verso del salmo cantato
in latino dai sacerdoti: “Suscitans a terra inopem: et de stercore erigens
pauperem”, quando “Anna appare trasognata dall’alcova” e “forte, appassionata”
implora al balcone “Signore, perdonate i miei peccati. Signore abbiate pietà di
me peccatrice; come la Maddalena io sono ai vostri piedi!” e “I cori, le grida,
i canti, le invocazioni, si incrociano, si confondono, s’abbracciano, si
frantumano, in odorosi pulviscoli d’oro”.
La
verità della salvezza invocata, in questa scena, consiste nella realtà del
peccato confessato; il suo splendore nella crudezza della condizione feriale
della vita. Il contrasto avvincente entro il quale attira l’autore,
nell’incontro tra Anna e la cima del “baldacchino tutto oro ed argento”, non è
una deformazione della vita nella finzione: l’istantanea scenica del Lanza
ritrae in maniera nitida e indelebile, qui ed ora, Cristo e la Maddalena, come
in un quadro d’autore, nella poesia sublime del rito sacramentale e al tempo
stesso cruda della stanza di Anna. Tutti i sensi dello spettatore sono
coinvolti ad apprendere che ciò che passa al di là del balcone sarebbe una pura
finzione rituale, se non fosse resa comprensibile dal peso terreno dell’umanità
che vive e attende da questa parte del balcone.
5. La frontiera della morte
Non
potremmo concludere la nostra indagine senza chiederci da dove nasca in Lanza
la sua “poetica dell’assurdo”. Perché mai cioè egli abbia voluto rileggere il
mondo da questa prospettiva. Osservava Kant che il riso nasce dall’improvviso
risolversi in nulla di una aspettativa intensa. Colpisce particolarmente un
tratto del racconto del 1930, Febbre,
che alcuni vedono tra altri come presagio della sua prematura scomparsa:[65] “Nella
cupa e affocata solitudine della febbre, come quando bambino invocavo con uno
sforzo immane mia madre, sento che basta appena uno strappo, mentre sono
sospeso a un filo, perché la mia anima si libri e s’immerga senza ricordo nel
vuoto, come una piuma bianca in un gorgo buio e senza fondo”.[66]
Ciò che
va afferrato in questo adagio lanziano, prima ancora che la danza fantastica e
surreale di questa piuma bianca ci trascini infinitamente nelle volute arcuate
del suo volo leggero, è l’inciso “senza ricordo”. Questa espressione dice nella
sua icastica semplicità tutto quello che Lanza vuole e può dire del mistero
della morte: ultimo atto della vita, atto senza ricordo. Il valore di questa
affermazione è incomparabile, in se stessa, se la si vuole affrontare da un
punto di vista filosofico, oppure – ed è quella che ci interessa – in rapporto
al mondo poetico del suo autore, se la si vuole accostare dalla prospettiva
letteraria.
Se
infatti la poesia è posteriore al vissuto, essa non può esserlo alla morte, in
quanto l’esperienza della morte è senza ricordo. La poesia dunque accompagna
l’uomo fino alla soglia della morte come atto riflesso sulla propria esistenza,
ma non lo segue poiché la morte è ‘senza ricordo’. La poesia rivela quanto
personale, cioè singolare, unica, irripetibile sia la vita di un uomo a se
stesso, dal momento che essa è il ricordo che l’uomo possiede della propria
vita mentre è nella sua condizione terrena. Lanza ci dà prova di questa sua
convinzione quando ci rammenta che il ricordo di un altro uomo in se stesso non
può essere una fonte poetica per l’individuo, nella stessa misura in cui la
vita dell’altro non può essere vissuta da lui. Nel componimento poetico Traduzione, leggiamo:
O
passegger, qui giace un mucchio d’ossa.
Non so
cos’abbian banchettato i vermi,
S’io
ebbi lunghe chiome o maschia posa,
Occhi
felici o d’ansio amore infermi;
Se la
mia bocca fu di baci rossa
O di
bestemmie. S’ebbi mani inermi
O
fratricide, se colmai la fossa
Già
stanco di saper senza sapermi.
Ma
dissi come te parole vane
E non
so quali – volan via le foglie –
E del
mio cuore polvere rimane.
Tu non
fermarti, ed alla vita cui
T’abbracci
chiedi sempre nuove spoglie:
Io
nulla sono come nulla fui![67]
Quanto
lontano appare questo modo di pensare da quello a lui conosciuto de I sepolcri del Foscolo per il quale in
gioventù aveva nutrito una stima insolita, al punto da identificarvisi nei
giochi goliardici con i suoi compagni di studio! L’impressione diventa ancora
più forte se si fa riferimento al suo componimento poetico Alla morte, dove non solo traspare la sua personale elaborazione
rispetto a quelle romantiche, ma anche la conferma precisa della consapevolezza
che la morte illumina “un’alba non consegnata al ricordo”:
Pura ai
miei occhi, o Morte, ti formavi
Nella
luce acuta della febbre
Come
una diafana essenza
Sprigionata
dal peso ermo del corpo.
La vita
così lontana e antica
A
questa ospite labile conduce.
Più
lieve l’onda non s’alza dal fiore.
Sul
buio intrico tu, estrema ragione,
Emergi
cima che s’illumina
D’un’alba
non consegnata al ricordo,
Alle
pendici, nere le passioni
Pesano
sulle radici dei sensi,
Impietrite
memorie che recide
Della
tua mano l’immagine scarna
Come
nel fondo algido di uno specchio.
In
questo aspro porto
Tu
sola, vedi, deserta, la luce.[68]
L’assenza
del ricordo che accompagna la morte, motivo dominante nella contemplazione di
questo mistero, non svuota la vita della sua coscienza poetica. Il ricordo fa
parte della vita come la sua assenza è lo stato della morte:
Non
notomizzo il passato
Né
interrogo l’avvenire,
Ma lieto
d’esser nato
Sarò
lieto di morire.[69]
Semmai, genera nel poeta Lanza
l’attesa che:
Sol
dalla morte la vita m’attendo.[70]
Pensiero, quest’ultimo che
aveva variamente espresso altrove, ma senza alcuna vena pessimistica nei
confronti della vita.[71]
Se,
dunque, la morte è uno stato nuovo rispetto alla vita, e con la morte cessa il
ricordo, ovvero la possibilità di un ricorso al mondo fantastico della poesia,
si comprende perchè Lanza trovi nella “poetica dell’assurdo” una delle vie più
adeguate per comprendere insieme e coniugare il mistero della vita e quello
della morte, in un intreccio che non svuoti la vita della sua pienezza, ma non
riempia al contempo la morte di quel suo vuoto in cui l’anima, come una piuma,
“si libri e si immerga”. Per questo motivo è possibile che dalla sua penna
possano venire vergate espressioni come “la morte quando viene è più dolce
della vita senza speranza e conforto”,[72] oppure
“la mia vita non è che una speranza di vita […] il pensiero tranquillo della
morte”,[73] e non
ritenerle frasi solamente languidamente poetiche o trovate unicamente
pateticamente assurde. Quando nell’esperienza della morte la poesia cessa di
dare voce al mondo parlato e pensato dell’uomo, essa cede il passo alla
“speranza”, come si evince esemplarmente dalla lirica Immagine:
In questo tedio d’esser vivo pare
Che nulla più giustifichi la vita,
E distaccato e vano
Mi sento come foglia dal suo ramo.
Senza speranza vuoto schema è il mondo
E non si sa perchè tardi la morte
Sol dono della sorte
Che ci evade dal carcere del Tempo.[74]
Nel gioco analogico di vita
piena di ricordo e morte priva di ricordo, la speranza diventa il nuovo volto
della poesia. L’assenza della poesia nella morte, ovvero di quella fantasia
cosciente con cui l’uomo rilegge la propria esistenza terrena, significa il
dischiudersi della “speranza”, il nuovo nome che Lanza dà a quel volo
fantastico della piuma, ovvero dell’anima, sospesa nel vuoto, “come in un gorgo
buio e senza fondo”. Ma, diversamente dalla poesia, che materializza lo spirito
delle cose provate, la speranza dà spirito, movimento, alla caducità e
all’immobilità della morte: “Senza speranza vuoto schema è il mondo”. Speranza
e morte si accompagnano come la poesia alla vita nel mondo lanziano: da qui il
passo alla comprensione cristiana della morte, come quella della vita, è tanto
semplice da non dover indulgere, come questi suoi versi suggeriscono, in un
[…] inganno di parole,
vano sofisticar sul come e ‘l quando!
E’ fin che vivi la tua vita buona,
L’ultima volta è sempre qualche cosa,
Sempre di se, passando, ella ti dona
Qualche cosa che ti vale: cardo o rosa.
Sempre bella sarà nel tuo saluto
Come l’amante che tende le braccia
Al tuo patire e poi ti volge.
Muto
Rido a sorora morte che minaccia.[75]
Conclusione
Viene da chiedersi fino a che punto Lanza abbia sentito
l’urgenza delle domande, dato il carattere profondamente contemplativo e la
posa inebriata ed estatica della sua meditazione letteraria.
L’apparente
inattualità storica della sua riflessione, quella che alcuni suoi critici
giustamente chiamano “l’astoricità” degli oggetti e dei personaggi della sua
passione poetica, dà prova della coerenza intuitiva, cioè fortemente
introspettiva, della sua ermeneutica poetica. Egli “non ha il tempo di
staccarsi dal suo mondo per giudicarlo, ma solo per contemplarlo. Lo spettacolo
di quel mondo è fedele nell’anima sua che ha il potere di evocarlo con il
soffio del creatore nel cui fiato senti il respiro di una vita in atto e non
consegnata all’analisi di un metodo filosofico, di una vita integra e piena,
nell’alveo di una tradizione che non è soltanto etica o religiosa, ma
soprattutto estetica, intima e nativa nel nostro popolo, spontanea e sincera
nel Lanza”.[76]
Non
dunque le domane emergono con la forza pressante del dubbio o della indagine,
ma l’intuizione stessa che dà corpo alla possibilità che esistano domande di
senso. Sebbene Lanza abbia dedicato pagine nitide intrise di perspicace ironia[77] e di
mesta consapevolezza alla denunzia di quei mali sociali e storici che affiggono
la terra dei suoi contadini[78] (non
va dimenticato qui il suo personale dramma economico e professionale che lo
spinge a chiamare un “trappola”, “inferno” lo stesso paese che gli aveva
fecondato la fantasia poetica[79]),
tuttavia egli non “usa” l’arte per definire un manifesto politico.[80] L’arte
non può, nella “poetica dell’ironia” di Lanza, essere imprigionata nella
“trappola” storica del caduco. Bisogna liberare la “trappola” perchè essa
esprima tutte le sue potenzialità, farla uscire dalla morsa di una morte
anticipata nel rifiuto di una coscienza poetica, di quella che egli chiama,
tautologicamente alla poesia, una “visione cristiana” della vita. Davanti al
mistero del male preferisce perciò il silenzio pensoso e ironico, poiché sa che
esso non esiste da se, ma è sempre il frutto cattivo di una “campagna” che non
è “continuità fra la terra e l’uomo”.
La
poesia, come la speranza, “solo nella vita dei poveri e dei disgraziati è
davvero la voce del Signore”.[81] Una
frase, quest’ultima, rara e infinitamente significativa, sulle labbra di uno
scrittore-poeta che si distingue costantemente per la sua ‘laicità’, ovvero per
la sua personale vissuta e storica ‘aderenza al paesaggio, ad una generazione
intera, se non addirittura ad un ciclo’.
(Rino La Delfa,
"Come una piuma bianca in un
gorgo buio e senza fondo". Francesco Lanza e l'ironia poetica del
grottesco, in Massimo Naro (a cura),
Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del
Novecento, Salvatore Sciascia Editore,
Caltanissetta-Roma 2003, pp. 23-46)
[1] Così registrava alcune decine di anni addietro S.
Rossi, Rileggendo l’opera dell’autore dei
“Mimi Siciliani”, in “Realtà del Mezzogiorno” 10 (Ottobre 1970), p. 910,
ribadendolo nella Introduzione Profilo di
Francesco Lanza a F. Lanza, Il
Vendicatore, Società di Storia patria per la Sicilia Orientale, Catania
1974, p. 11; da allora non è cambiato molto. La recente pubblicazione delle
opere dell’Autore in un singolo volume a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Francesco Lanza. Opere, La Cantinella,
Catania 2002 (da ora in poi: F. Lanza,
Opere) potrebbe dilatare il raggio
d’interesse della critica letteraria e, come più volte auspicato nel passato da
alcuni critici, diventare uno strumento prezioso e insostituibile per il
recupero di una visione più attenta e completa di Lanza. Il volume contiene
anche una vasta e accurata bibliografia alla quale rimandiamo per una
conoscenza dettagliata dello sviluppo dell’interesse della critica nell’Autore
(pp. 39-46). A proposito dei Mimi
vale la pena ricordare in particolare le riflessioni di C. Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo,
Hoepli, Milano1929, A. Soffici, A
Francesco Lanza, in “Il Tevere”, numero unico dedicato a Francesco Lanza, Roma (6 Febbraio 1933);
G. De Robertis, Il buon viaggio, Le
Monnier, Firenze 1941; E. Vittorini, Ricordo
di Francesco Lanza, in “Il Pegaso” Firenze, 5 (Marzo 1933); A. Boccelli, Francesco Lanza, in “Nuova Antologia”
Roma, (1 Febbraio 1933); E. Falqui, Franceso
Lanza, in Prosatori e narratori del
Novecento italiano, Einaudi, Torino 1950; G. Titta Rosa, Francesco Lanza, in Dizionario letterario, Bompiani, Milano 1951; L. Sciascia, Francesco Lanza, in La corda pazza, Einaudi, Torino 1982; S. Di Marco, Vita e opere di Francesco Lanza narratore
siciliano, in AA. VV., Francesco
Lanza, Ila Palma, Palermo 1989; N. Tedesco, Introduzione a Francesco Lanza, Re
Porco e altre prose, Epos, Caltanissetta, 1985; I. Calvino, Introduzione a F. Lanza, Mimi siciliani,
Sellerio editore, Palermo, 1984.
[2] I. Calvino, Introduzione
a F. Lanza, Mimi siciliani, cit., p. VIII.
[3] Almanacco per il popolo Siciliano, in F. Lanza, Opere,
cit., pp. 183-309; pubblicato a Roma nel 1924 per conto del Comitato contro
l’analfabetismo organizzato dall’Associazione nazionale per gli interessi del
Mezzogiorno d’Italia con stampe di Ardengo Soffici e illustrazioni di Carmelo
Aloisi.
[4] L. Sciascia, Francesco
Lanza, cit., p. 278.
[5] M. Lamartina, Realtà e mito
nell’opera di Francesco Lanza, Vittorietti editore, Palermo
1971, p. 37.
[6] Tale tentativo risulta più facile dal momento che
l’intera opera dell’Autore è più facilmente accessibile grazie alla sua recente
pubblicazione; cf. S. Zappulla Muscarà (ed.), Francesco Lanza. Opere, cit.
[7] Il Lunario
siciliano è un periodico mensile a cui collaboreranno autorevoli letterati
del tempo, G. Centorbi, A. Navarria, A. Blandini, R. De Mattei, F. Biondolillo,
E. Cecchi, R. Bacchelli, T. Interlandi, A.Soffici, S. D’Amico, G. Ungaretti, E.
Vittorini, V. Brancati, E. Falqui, C. Sofia, S. Landi-Pirandello. Sarà
pubblicato a Enna dal dicembre 1927
all’aprile 1928, da aprile a novembre 1929 a Roma, nella sede del
“Tevere”, dall’aprile 1931 al giugno 1931 a Messina.
[8] S. Caramella, L’atto
estetico e la coscienza profonda, in Coscienza
della Poesia, a cura di F. Armetta, Mario Grispo editore, Palermo 2000,
55-61, 55; il saggio era stato originariamente pubblicato in “Il Baretti” 6
(31-32/1965) pp. 91-100.
[9] Cf. per esempio G. Cottone, Profilo di Francesco Lanza, in AA. VV., Francesco Lanza, cit., pp. 11-12, oppure M. Di Venuta, La provincia sorniona. L’opera narrativa di
Francesco Lanza, Epos, Palermo 1983.
[10] Ib., p. 56: “La fantasia è verso il soggetto nella
stessa relazione, in questo caso, che il fenomeno verso l’oggetto: la fantasia
è il ritmo dell’onda in cui affiora e si esprime la corrente della coscienza;
la fantasia è la superficie terrestre in cui si documentano i movimenti
tettonici dell’Io; la fantasia è il sogno del sublimale, dell’orexis”.
[11] Cf. G. Cottone, Profilo di Francesco Lanza, cit., p. 11.
[12] Ib.; cfr. per esempio F. Lanza, Opere, cit., pp. 192, 256, 285.
[13] Cf. G. Cottone, Profilo di Francesco Lanza, cit., p. 14.
[14] M. Lamartina, Realtà
e mito nell’opera di Francesco Lanza, cit., p. 23.
[15] F. Lanza, Opere,
cit., p. 193.
[16] Uno tra “i vivaci quadretti di ambiente” ama
chiamarli S. Zappulla Muscarà, in cui è “ritratto un ozioso gruppo di borghesi
al circolo, con le loro superficiali e gratuite chiacchiere […] piccolo
capolavoro”. (Il “malizioso sorriso” di
Francesco Lanza, saggio introduttivo a F. Lanza, Opere, cit., p. 16. Cf. anche, N. Zago, L’itinerario narrativo di Lanza, in AA. VV., Francesco Lanza, cit., p. 84.
[17] M. Lamartina, Realtà
e mito nell’opera di Francesco Lanza, cit., p. 24.
[18] Ib.
[19] Ib.
[20] In F. Lanza, Opere,
cit., pp. 433-442, originariamente pubblicato in “Il Popolo”, 23-24 (prima
parte) e 26-27 (seconda parte) luglio 1923, al tempo in cui produsse L’Almanacco.
[21] Ib., p. 434.
[22] Ib.
[23] Ib.
[24] Ib.
[25]Ib.
[26] S. Caramella, L’atto
estetico e la coscienza profonda, cit., p. 58.
[27] F. Lanza, L’analfabetismo
in Sicilia, cit., p. 435.
[28] Cf. M. Lamartina, Realtà e mito nell’opera di Francesco Lanza, cit., p. 26.
[29] F. Lanza, Almanacco
pei popolo siciliano, cit., p. 240.
[30] Ib.
[31] Cf. M. Lamartina, Realtà e mito nell’opera di Francesco Lanza, cit., p. 27.
[32] F. Lanza, L’analfabetismo
in Sicilia, cit., p. 438.
[33] Ib., pp. 435-436. Non va dimenticato che inizialmente
Lanza avrebbe dovuto collaborare con
Lombardo-Radice stesso alla stesura dell’ Almanacco, e che la promozione ad alti incarichi presso il
Ministero dell’Istruzione Pubblica allora retto da Gentile, sia stata la causa
dell’assunzione integrale da parte di Lanza del compito di stendere il manuale.
Cf. S. Rossi, Rileggendo l’opera
dell’autore di “Mimi Siciliani”, in “Realtà del Mezzogiorno” 10 (ottobre
1970), De Luca editore, Roma 1970, pp. 919-922.
[34] Ib., p. 436. Cf. V. Santangelo, “Mimi” di Francesco Lanza, in AA. VV., Francesco Lanza, cit., p. 70.
[35] F. Lanza, L’analfabetismo
in Sicilia, cit., p. 437.
[36] Ib., p. 439.
[37] Ib., p. 440.
[38] Ib.
[39] Cf. Id., Almanacco
per il popolo siciliano, cit., p. 188-189.
[40] Id., L’analfabetismo
in Sicilia, cit., p. 441.
[41] Cf. S. Rossi, Rileggendo
l’opera dell’autore di “Mimi Siciliani”, cit., pp. 905- 928.
[42] A. Navarria, Prefazione
a F. Lanza, Mimi e altre cose,
Sansoni, Firenze 1946, p. 3. Dello stesso parere è G. Magno, storico e
contemporaneo del Lanza. Nella seconda edizione delle sue Memorie storiche di Valguarnera Caropepe, Scuola salesiana del
libro, Catania-Barriera 1965, p. 192, suggerisce: “Seguendo i suoi esemplari,
si mantenne sempre in un clima fantasioso e classico, in cui però la
spiritualità è quasi sempre assente. Morì da buon cristiano e penso che,
trascorso il periodo giovanile, se fosse vissuto ancora, avrebbe purgato i suoi
Mimi Siciliani ed avrebbe dato ad essi un tono più ideale; lo fa sperare il suo
avvicinamento a Dio negli ultimi suoi anni”.
[43] Uno studio approfondito di questo aspetto
certamente decisivo per la comprensione di Lanza dovrebbe includere, fra le
altre cose, la considerazione di almeno tre fondamentali fattori che avrebbero
concorso alla sua svolta confessionale. Primo fra tutti il decesso della madre,
figura di enorme rilievo nella vicenda esistenziale e sentimentale dell’Autore;
secondo, la delusione politica e intellettuale provocatagli, rispetto alle sue attese,
dal suo viaggio come osservatore nell’Unione Sovietica; terzo, il superamento e
il conseguente abbandono di una breve fase di sperimentazione esoterica a
contatto con G. Loggia, personaggio particolarmente peculiare del contesto
paesano, attraverso la ripresa del pensiero filosofico di Socrate sulla morte.
[44] F. Lanza, L’analfabetismo
in Sicilia, cit., p. 435.
[45] Cf. M. Lamartina, Realtà e mito nell’opera di Francesco Lanza, cit., p. 32.
[46] Naturalmente tale prospettiva è una fra le tante
riscontrabili nell’opera; cf. S. Rossi, Rileggendo l’opera dell’autore dei
“Mimi Siciliani”, cit, pp. 910-918.
[47] G. Cottone, Profilo
di Francesco Lanza, cit., p. 12.
[48] S. Di Marco, Vita
e opere di Francesco Lanza narratore siciliano, in AA.VV., Francesco Lanza, cit., p. 32.
[49] L. Sciascia, Francesco
Lanza, cit., p. 274.
[50] F. Lanza, Opere,
cit., p. 69.
[51] Cf. ib.,
p. 71.
[52] Cf. S. Di Marco, Vita e opere di Francesco Lanza narratore siciliano, in AA. VV., Francesco Lanza, cit., p. 33: questa,
secondo il parere di Di Marco è la ragione per cui nei Mimi sembra esserci una forza accattivante.
[53] M. Lamartina, La
vocazione scenica nel “mimo” di Francesco Lanza, in AA. VV. Francesco Lanza, cit., p. 55.
[54] Ib., p. 57.
[55] Cf. M. Freni, Sui
“Mimi e altri scritti” di Francesco Lanza, U.P.C. Editrice, Catania 1970.
[56] M. Lamartina, La
vocazione scenica nel “mimo” di Francesco Lanza, in AA. VV. Francesco Lanza, cit., p. 57.
[57] Opposta è la opinione di A. Di Grado, Totem e tabù di Sicilia: appunti sui “Mimi”
di Lanza, in ib., pp. 49-50.
[58] Ib., p. 60.
[59] Cf. I. Calvino, Introduzione a Francesco Lanza, Mimi
siciliani, cit., p. XIII: “La storiella paesana compie un’operazione
simmetrica (e in fondo ridondante e tautologica) facendo insorgere i segni
profani contro il sistema dei simboli sacri”.
[60] Il Cristo di Mineo, in F. Lanza, Opere,
cit., p. 109-110.
[61] Ib., p. 108-109.
[62] Cf. M. Freni, Sui “Mimi e altri scritti” di
Francesco Lanza, cit. pp. 28-29: “Il mito che abbiamo visto spesso come
elemento di somma importanza, non interferisce per niente, invece, nel rapporto
fa il mimo di Francesco Lanza e la divinità. E’ un rapporto completamente
amitico, umanizzato al massimo, posto su un piano di orizzontale direzione. Il
divino non incombe, non soggioga, non avvilisce; subisce, invece, una sorta di
adattamento soggettivo secondo le esigenze e gli umori popolari. Non può essere
una religione pura, ma soltanto un modo di concepire la religione, senza la
possibilità di penetrarne i simboli ed i misteri”.
[63] M. Lamartina, La
vocazione scenica nel “mimo” di Francesco Lanza, in AA. VV. Francesco Lanza, cit., p. 58.
[64] F. Lanza, Opere,
cit., pp. 669-676.
[65] Cf. per esempio, S. Zappulla Muscarà, Il “malizioso sorriso” di Francesco Lanza,
cit., p. 18.
[66] F. Lanza, Opere,
cit., p., 504. Una interpretazione
diversa dalla nostra del passo citato è offerta da N. Tedesco, Introduzione a Francesco Lanza, Re Porco e altre prose, cit., pp. 9-10.
[67] Ib., p. 790-791.
[68] Ib., p. 814.
[69] Ib., p. 799: Vanità.
[70] Ib., p. 811: Eden.
[71] Si legga per esempio la lettera ad A. Navarria
del 10 novembre 1932: ib., pp.
790-791; e quella a C. Sofia del 27 settembre 1932, pp. 875-877.
[72] Ib., p. 192.
[73] Ib., p. 876.
[74] Ib., p. 817
[75] Ib., p. 790: Saluto.
[76] G. Cottone, Narratori di Sicilia, Accademia di
studi “Cielo d’Alcamo”, Alcamo 1954, p. 9.
[77] Cf. F. Lanza, Opere,
cit., pp. 333-336: Ritratto di politico.
[78] Cf. ib.,
p. 235: Le tre piaghe della Sicilia,
e p. 309: Il presente e l’avvenire della
Sicilia.
[79] Cf. ib.,
pp. 852-881: Lettere a Corrado Sofia;
questo epistolario era stato previamente pubblicato col titolo Sicilia come trappola, lettere a Corrado
Sofia, Edizioni dell’ariete, Siracura 1989
[80] A proposito della coscienza sociale di Lanza si
veda, F. Giarrizzo, La formazione ideologica e il messaggio etico-politico di
Francesco Lanza, Nova Graf, Assoro 1997.
[81] Ib., p. 193.