Sappiate, o contadini, che una volta visse in questa nostra benedetta terra un uomo chiamato Giovanni Verga. Fino a poco tempo fa, chi andava a Catania poteva vederlo seduto dinanzi al casino dei nobili, una gamba a cavallo dell'altra, gli occhi lucenti come un innamorato, i capelli tutti bianchi: aveva ottant'anni.
Da fanciullo, per fuggire il colera che faceva strage, si riparò a Vizzini, patria dei suoi antichi; e là conobbe la campagna, opera bella del Signore, e l'amò. Fu compagno di Jeli il pastore, di cui più tardi si ricordò e ne scrisse la pietosa storia; gli insegnarono quelli della Cavalleria Rusticana, cumpà Turiddu Macca, comare Lola la bella, compare Alfio il carrettiere; e seppe che c'era anche stato un uomo con le mani mangiate dalla calcina, che a furia di lavorare come un asino senza mai risparmiarsi, all'acqua e al sole, s'era fatta tanta roba da non saperla più nemmeno lui, e aveva avuto nome mastro don Gesualdo.
Queste cose gli restarono impresse nella memoria; e tante altre che vedeva passando per la piana di Catania, dove la malaria ammazza meglio delle schioppettate, e il pane è duro a guadagnarsi, e la morte quando viene è più dolce della vita senza speranza e conforto.
Fattosi grande, se ne andò fuorivia dove la vita è tutta voluttà e vanità, dove solo chi ha denari è ricco, dove le donne tentano il cuore degli uomini, e altra fatica non hanno che perdere il tempo. Di esse egli scrisse in suoi romanzi acquistandosi grande fama fra la gente vana.
Ma a lungo andare il cuore gli doleva di quella vita senz'altro scopo se non l'ansia dello svago. Si ricordò che altrove si penava duramente per un pezzo di pane, col solo piacere di buttarsi a dormire la notte sulla nuda terra, come i cani; e le donne sono anche esse bestie da fatica, mangiate vive dai pensieri della casa e dei figli.
Gli tornarono alla mente Jeli il pastore, mastro don Gesualdo, la campagna di Vizzini, la piana di Catania, il biviere di Lentini carico di malaria, e tutte le creature penanti che gli erano passate sott'occhio, bambino.
Lasciò la città, lasciò i vani piaceri, e tornò nella nostra terra; e qui si convinse sempre più che solo nella vita dei poveri e dei disgraziati è davvero la voce del Signore; che il dolore degli umili merita più rispetto e amore, che non tutte le gioie dei grandi e dei felici.
Trovandosi in un paesello sul mare vicino Catania - ad Aci Trezza - finalmente s'accorse di quante lacrime è fatto il pane della povera gente, di quanto sudore, di quanto sangue gettato alla cattiva fortuna.
D'allora in poi il suo cuore fu tutto dedicato agli umili, e come prima aveva fatto per le farfalle delle città, di essi scrisse i dolori e gli affanni; le poche gioie e le lacrime amare.
Di quel paesello sul mare narrò tutte le vicende; e le sciagure d'una famiglia di pescatori, coi suoi morti, i suoi vivi, e quelli buttati alla ventura; e ne fece un libro bello e santo, intitolato I Malavoglia.
Tant'altre furono le sue storie, e in ognuna di esse c'è sempre un pezzo del cuore del nostro contadino; di quelli che sudano e penano per campare la vita, e scompaiono senza aver mai vinto la sorte nemica.
Per questo egli è grande, e per questo è necessario che voi, o contadini, ricordiate il suo nome.
(Almanacco per il popolo siciliano, 1924)
Omaggio a Verga
In principio dell'opera nostra, sentiamo il bisogno di ricordare Giovanni Verga; vogliamo essere fedeli al suo insegnamento di un costume letterario dignitoso e severo, senza macchia di vana adulazione, senza la corruzione che nasce dal mercato della verità e del sapere.
La campagna e
il mare di Sicilia vivono nelle sue pagine, che dopo di lui nessun poeta ha
saputo ricreare con pari potenza; quei popolani abitanti un paese dell'interno
o un villaggio sul mare, vivono e vivranno immortali per tutti.
La Sicilia, durando la lotta che la unì all'Italia e dopo, sentì
agitarsi la secolare immobilità di costumi e d'idee da germi che, distruggendo
l'antica, produssero una nuova civiltà. Ma prima di confondersi nella grande anima della patria unita, pare che, per mezzo
dell'opera dei raccoglitori di canti popolari e dei novellatori si sia voluta
riconoscere nei suoi speciali caratteri. Così Nedda del
Verga fu preceduta dalle raccolte di canti del popolo per opera del
Vigo, del Salomone Marino, del Pitrè. E con Verga la
Sicilia, che da sei secoli aveva scarsamente partecipato
alla vita letteraria d'Italia e non le aveva dato un grande poeta, nobilmente
riprende il suo posto. Recentemente un autorevole critico lamentava che Verga sia lettera morta non solo all'estero, che non farebbe
meraviglia, ma anche in Italia. È vero, ma ci sembra che sia in gioco non tanto
la fortuna di Giovanni Verga, quanto la dignità del nostro paese.
(Lunario Siciliano, dicembre 1927)