L’ora del sole a picco
coglie alla sprovvista il paese, lo fulmina a bruciapelo, lo fa restare a
strapiombo come sospeso a un filo dall’alto deserto
del cielo incandescente. Le strade si spalancano all’infinito, squadrate
simmetricamente dalla luce abbagliante che a dirotto vi imperversa,
le case si rarefanno addossandosi l’una all’altra come per ripararsi, ma
invano, a vicenda. I coni dei campanili si sfaldano in confuse vibrazioni,
livellandosi ai tetti distesi in una sola linea all’orizzonte; il panorama
s’appiattisce sotto l’uniforme superficie della canicola.
L’ombra, simile a un impalpabile sipario di velluto che s’innalza furtivamente, s’è ritirata da ogni parte, scoprendo uno squallido fulgore dove i corpi in bilico non hanno proiezione, come avulsi da se stessi.
Le galline che attraversano spaventate la strada, torcono il collo col respiro in gola, facendo l’occhietto sotto la cresta penzolante, per cercare la propria ombra scomparsa dalla circolazione. C’è intorno un senso di pànico, di vuoto e d’inesplicabile abbandono. Man mano la vita, il movimento, gli stessi rumori diradano. Anche i cani con la lingua di fuori stillante e rosea come un ciclamino, anelanti e stracchi, si rintanano in casa, accucciandosi col muso lungo sulle zampe sotto i tavoli, e le sedie. I colombi s’infilano come frecce nelle grondaie e nei buchi dei muri, e tratto tratto affacciano il collo plumbeo e iridescente, con un vellutato gurr-gurr nella strozza per rifiatare.
In men che si dica il paese folgorato in pieno ha tutta l’aria d’essere disabitato, fantasmagorico a distanze come una visione di lanterna magica. I superstiti, i sensali che se ne stanno tutto il giorno a zonzo coi pollici nei taschini del panciotto; i civili che hanno lungamente boccheggiato al circolo senza la forza di dire una parola più del necessario, gli impiegati municipali che escono dall’ufficio con la mezza manica ancora infilata, gli ultimi naufraghi dell’ora solcano a grandi passi la piazza, s’ingolfano per le stradette geometricamente allungate come in una pianta topografica, approdano finalmente nell’infido porto dei domicili, dove tutti gli scuri sono socchiusi e gli stoini abbassati. Fuori, il paese resta in balia di se stesso, sotto la sferza a perpendicolo del sole: le porte e le finestre sembrano bocche contratte nello sforzo di respirare dopo i sintomi d’una lenta asfissia. Le stie vuote, qualche sedia rovesciata dinnanzi una soglia, una brocca su un muretto, qualche cencio a un balcone fanno pensare ai segni d’un lontano saccheggio, o a un esodo di cui non s’è avuto sentore; i muri ammassati alla rinfusa in un monotono grigiore, senza uno stacco o uno sgembo, appaiono calcinati dalla furia provvisoria del sole non per un desolato effetto di luce, ma da un tempo immemorabile e senza origine. Si ha l’impressione che come una landa o un campo di battaglia abbandonato, il paese sia alla mercé del primo venuto; che chiunque vi possa entrare da padrone, occuparlo a suo piacimento per lungo e per largo, scardinare le porte, scoperchiare i tetti, mettere tutto a sacco sotto l’immutabile fiamma del sole senza che nessuno si muova e si affacci o che addirittura se ne accorga.
A questo, ed è il solo indizio di vita, pensano le ragazze, le veneri e le giunoni in fiore, mentre ossessionate dal fuoco che è nell’aria vagano come ardenti fantasime da una stanza all’altra, nelle torride stie domestiche donde invano i loro desideri dalle ali di gallina, cercano di spiccare il volo. Di soprassalto volgono il capo verso la porta, i balconi e le finestre, aspettando che da un momento all’altro si schiantino e dentro balzino con la scimitarra in pugno gli arcangeli paesani dei loro sogni.
Il paese al sole è un immenso deserto, dove non si ha il coraggio e la forza d’avventurarsi.
Francesco Lanza, Il
Tevere, 9 agosto 1929