FRANCESCO LANZA
di Leonardo Sciascia
Al centro della tavola di Bruegel
in cui centodiciotto proverbi fiamminghi sono raffigurati in altrettante scene
articolate nella unità di una folle kermesse, c'è una donna giovane e formosa,
vestita di rosso, che con espressione di malizia nel volto, in contrasto col
gesto che è di amorosa premura, assicura sulla testa e sulle spalle di un uomo
piuttosto avanti negli anni, e cadente, un mantello azzurro identico a quegli
scapolari che ancor oggi qualche contadino siciliano porta. Gli studiosi del
dipinto dicono che l'immagine corrisponde al detto: «mettere il manto azzurro
sulle spalle del marito », reperibile nella tradizione popolare fiamminga. Il Cocchiara dice che effettivamente si usava nei Paesi Bassi
imporre il manto azzurro al marito tradito: e c'è da crederlo, se ai nostri
giorni la cronaca registra, in un paese dell'Olanda, la lapidazione di
un'adultera. Ma che il manto azzurro fosse feroce usanza o soltanto immaginoso
modo di dire riguardo alla condizione sociale in cui veniva a trovarsi il marito
tradito, oggetto cioè della curiosità e del disprezzo altrui, distinto dagli
altri quasi indossasse una cappa di colore inconsueto e squillante, qui ci
importa notare come il proverbio figurato da Bruegel
immediatamente ci collega al mimo di Francesco Lanza
che si intitola II cappuccio a pizzo:
« Un dì
che Re Guglielmo non aveva nulla da fare al solito suo, fece gettare, per
città, castelli e paesi, un bando a suon di trombe, tamburi e pifferi :
« "Signori miei! da oggi in poi
chi è becco deve mettersi il cappuccio a pizzo per non far succedere
confusioni. E chi non se lo mette, c'è la pena della testa e cent'onze di multa".
« Dappertutto, quelli che erano in
piazza, al sentire il bando, chi scappava di qua e chi scappava di là, come
cascasse il cielo a pezzi; e tutti tornavano col cappuccio a pizzo, per non
pagare la multa e perdere la testa. Anche il troinese
se ne andò a casa sua di corsa, e tutto ansante e trafelato lo contò alla
moglie:
« "Lo sapete il bando che ha gettato Re Guglielmo, che tutti i becchi devono mettersi da oggi in poi il cappuccio a pizzo, per non far succedere confusioni? Ditemi, moglie mia, me lo devo mettere anch'io?".
« La moglie diventò una furia e andava
su e giù sbraitando contro Re Guglielmo che non aveva nulla da fare e metteva
lo scompiglio nelle case della gente onesta, e il cappuccio a pizzo doveva
metterselo prima lui, come capo di regno per dare il buon esempio ai sudditi.
« "Lui se lo deve mettere il
cappuccio a pizzo; e le pianelle, che le corna gli escono fin dai piedi; e le
brache se le deve allargare per farcele entrare tutte. Ah, marito mio, voi lo
sapete s'io vi ho sempre rispettato! e quelle di Re Guglielmo sono invece quanto
l'arena del mare! Domandatelo a tutti che cura ho avuto del vostro nome e come
mi sono sempre comportata, e nessuno ve lo sa dire! Chi mi è venuto appresso
per la tentazione non gli ho rotto il battesimo, e non ve l'ho fatto saper mai
per non farvi dispiacere. Ah, marito mio, io ci ho pensato per il mio onore e
non voi! e per il vostro ci avete pensato voi e non io! Ah, marito mio, lo potete
dir forte che vi ho onorato più del sole nel cielo!".
« Il troinese
si ringalluzziva tutto a sentirla fare così, e anche lui se la pigliava con Re
Guglielmo che non pensava ai casi suoi; ma come se ne usciva per tornarsene in
piazza, la moglie lo richiamò in fretta:
« "Sentite, marito mio, per il sì
e per il no mettetevelo anche voi il cappuccio a pizzo, e così leviamo
l'occasione".
« E il troinese
per il sì e per il no si mise anche lui il cappuccio a pizzo » .
È come se la scena dipinta da Bruegel avesse acquistato, per così dire, il parlato:
l'ambiguo parlato della donna, che è poi esattissimo calco di un siciliano nativamente ed effettualmente
ambiguo. Ma a parte il preciso rapporto tra questo mimo di Lanza
e il proverbio di Bruegel, il riferimento al quadro
ha per noi un valore non fortuito o di curiosità, ma intrinseco e lato, di una
congenialità tematica ed espressiva tra il mondo dei proverbi e il mondo dei
mimi; che è in effetti, di entrambi, un mondo che sta al vertice del paradosso,
sul punto del rovescio. Il mondo alla rovescia, insomma; cioè, supremo e greve
paradosso, il mondo dell'ignoranza, della stupidità, dell'intolleranza, del
tradimento, della pazzia in cui come dimezzato l'uomo irredimibilmente
vive. E con l'uomo dimezzato ecco che tocchiamo altro tema, conseguente a quello
del mondo alla rovescia, che dalla fantasia popolare è passato con larga e
continua fortuna alla letteratura europea.
Il Cocchiara
chiama « coreografia paremiografìca » la rappresentazione
che Bruegel ha dato dei proverbi fiamminghi; e
«gioiello paremiografico » dice il Pitré quella Raccolta di proverbi siciliani di
Antonio Veneziano in cui «con ingegnoso innesto centinaia di proverbi e motti
siciliani si legano in settanta ottave a rime alternate ». La tavola dì Bruegel è del 1559; qualche anno dopo fioriva in Sicilia
la poesia del Veneziano. Ma che l'esigenza o il gusto di rappresentare la
difficile convivenza degli uomini attraverso la forma paremiografìca
si diffondesse dalle Fiandre alla Sicilia per effettiva comunicazione, non è
ipotesi che si possa fondatamente avanzare; è ipotesi meno vaga invece che
tanto il Bruegel quanto il Veneziano si calassero nel
mondo popolare per una più o meno diretta sollecitazione erasmiana,
dell'Erasmo degli Adagi e dell'Elogio della pazzia. Per cui il
termine paremiografico va sottratto al corso
scientifico che ha nel mondo contemporaneo e restituito all'umanesimo: una
forma cioè attraverso cui si realizza una contemplazione e conoscenza dell'uomo.
E questa restituzione non vale soltanto per quanto riguarda un Bruegel e un Veneziano, che sarebbe del tutto ovvia; ma
anche per quanto riguarda i Mimi di Francesco Lanza.
La paremiografia contiene infatti il mimo: e il proverbio altro non è che la
stilizzazione del mimo (e in mimi effettualmente Bruegel scioglie i proverbi). E non a caso Ardengo Sollici appunto suggerì il titolo di Mimi alle brevi
storie che Lanza pensava di attribuire a un narratore
popolano, intitolandole Storie di Nino Scardino.
Ai Mimi di Eronda
pensava dunque Soffici; e noi a una lunga tradizione paremiografica
che va da Eronda ai predicatori medioevali, a san
Bernardino da Siena, ad Erasmo, ai pittori fiamminghi, ad Antonio Veneziano,
all'anonimo autore di quegli Avvenimenti faceti di Sicilia di cui più
avanti parleremo. Intanto, di questi Mimi di Francesco Lanza che davanti al lettore si compongono fitti e vividi
come il quadro dei proverbi di Bruegel, ci piace
notare il rinverdito rapporto col mondo fiammingo, forse sollecitato in Lanza dall'incontro con l'epopea
rabelaisiana,
« drolatique », tenera e
insieme violenta, paremiografica in un certo senso,
delle leggende fiamminghe di Charles De Coster. Proprio negli anni in cui Lanza
veniva scrivendo i Mimi, in Italia si pubblicava La leggenda e le avventure
di Tyl Ulenspiegel: e
non è improbabile che Lanza trovasse nella sapiente e
fresca ricostruzione dello scrittore fiammingo, libro di tutti i campanili di Fiandra,
come giustamente si disse, uno stimolo di più a far risuonare nei suoi Mimi,
nelle sue novelle, nelle sue descrizioni di stagioni ed ore ed incontri, i
campanili di Sicilia. E potremmo anche portare il confronto sul piano della
lingua e dello stile, che nel fiammingo come nel siciliano risultano da un
impasto piuttosto arduo (il che li rende entrambi quasi intraducibili in altre
lingue) : ma finiremmo col perdere di vista le diverse tradizioni culturali in
cui i due scrittori si muovono.
Il precedente più immediato ai Mimi (per noi, ma
molto probabilmente non per Lanza quando li scriveva)
sono quegli Avvenimenti faceti di Sicilia che Pitré
trasse da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Palermo e pubblicò in
duecento esemplari nel 1885. Il titolo del manoscritto era esattamente questo: Avvenimenti
faceti per mantenere in amenità innocente le oneste recreazioni
raccolte in diverse città e terre di questo Regno. Dalla natura dei fatti
che l'anonimo autore racconta, il Pitré ritenne fosse
un prete o un frate predicatore; dal modo come li racconta, che fosse « uno
dei tanti mediocrissimi scrittori siciliani del
secolo scorso, il quale nel suo dettato conserva più o meno fedelmente le forme
del dialetto, senza preoccuparsi di stile e di lingua; ma, in compenso, ha un
po' di quella schiettezza ed ingenuità che spesso manca agli scrittori d'arte »
; e riguardo alla materia, nota che è per di più di un terzo « tradizionale,
non pure in Sicilia, ma anche nel continente
italiano, in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra ed in altre contrade : aneddoti,
cioè novellette, facezie, burle, motti di spirito più o meno festevoli, più o
meno vivaci, che ognuno di noi, tra una brigata di amici, ha molte volte udito
raccontare ed ha raccontato egli stesso come seguiti nel tale o tal altro
luogo, in persona del tal dei tali». E aggiunge : « In vero, questi fatti
poterono bene avvenire qua e là, e ripetersi con circostanze simili o analoghe, o non
avvennero mai, e furono spiritose invenzioni di begli umori, quando per metter
in burla gli abitanti di un paese in voce di sciocchi e grossi di cervello,
quando per deridere una classe di gente, quando per depreziare
il prodotto di un suolo. Veri o inventati, unici o no, si raccontano, e
passando di bocca in bocca, di paese in paese, per la innata tendenza del
popolo a personificare, a localizzar tutto, si individualizzarono sempre più,
acquistando colori e circostanze locali ». E abbiamo citato questo passo del Pitré non tanto per definire la natura dei Mimi quanto
perché ci offre il modo di dire che questo processo di tradizione, questo
passare di bocca in bocca e di paese in paese, finisce col trovare in Valguarnera, e sotto la penna di Francesco Lanza, la definitiva localizzazione e individualizzazione;
cioè la forma dell'arte. Nel momento in cui Lanza li
ricrea, queste storie o avvenimenti faceti o mimi che si vogliano dire sono una
invenzione e sono unici. Per cui sarebbe ozioso esercizio il cercare quanti di
questi mimi siano venuti a Lanza dalle raccolte del Pitré, del Salomone-Marino, dagli
Avvenimenti faceti dell'anonimo settecentesco, dalle tradizioni del suo
paese. Probabilmente non uno solo gli è venuto dalla fantasia; ma al tempo stesso
sono tutti, uno per uno e nell'insieme, una sua fantasia della Sicilia. E se
diciamo che gli Avvenimenti faceti sono un precedente è perché ci pare
che l'anonimo prete o frate che li raccolse intorno al 1738 sia stato il primo
a tentar di dar forma letteraria, di articolare in libro, con mezzi piuttosto
rozzi e inefficaci, la materia dei mimi. A voler essere sottili potremmo anche
inserire, tra gli Avvenimenti faceti dell'anonimo e i Mimi di Lanza, alcune novelle di Pirandello,
che altro non sono che avvenimenti faceti perfettamente localizzati nell'area girgentana e per immediata tradizione pervenuti allo
scrittore, che ne scorgeva e fissava i risvolti drammatici e pietosi. Novelle
come La verità, da cui venne poi fuori la commedia Il berretto
a sonagli, come La giara, La cassa riposta, L'avemaria di Bobbio, II capretto nero e tante altre, è facile
vederle nell'essenza del mimo, nella tradizione di avvenimenti faceti locali.
Ma non vogliamo essere sottili.
Il nome di Pirandello, comunque, ci porta a guardare Lanza nel contesto della letteratura italiana contemporanea. E diciamo subito che Lanza ebbe la sfortuna di svolgersi in un periodo in cui la moda del frammento e il tentativo di una specie di restaurazione classica venivano a confondere le sue cose col frammento da un lato, con i risoffiati spiriti classici dall'altro. Questa confusione peraltro lo salvava, ma non interamente, dall'accusa di regionalismo (poiché il regionalismo era allora sospetto tanto in letteratura quanto in politica); ma non l'ha salvato da quello indistinto limbo in cui oggi giacciono i rondisti, i post-rondisti, i frammentisti, i capitolisti. E questa sorte, da Lanza non meritata, è la ragione principale per cui stiamo qui a scriverne : noi che rappresentiamo quanto di più lontano è immaginabile dagli ideali letterati degli anni Venti.
Sbrigativamente, in un ragguaglio sulla cultura
italiana pubblicato da Prezzolini nel 1927, Lanza è dato come «un buon scrittore regionalista». E
tuttavia questa definizione è per noi più accettabile dell'intruppamento
tra autori di frammenti e di capitoli in cui spesso il nostro scrittore si
trova a malcapitare. Probabilmente, nel 1927,
l'aggettivo «buono» stava come una specie di attenuante all'imputazione di
regionalismo: è uno scrittore regionalista, ma buono.
Oggi che abbiamo
più avvertita conoscenza e coscienza della cultura nazionale e del ruolo che
in essa ha avuto ed ha la Sicilia, il termine regionalista applicato a uno
scrittore o un artista siciliano lo sentiamo come una specie di pleonasmo. Che
cosa significa « scrittore regionalista»? Che rappresenta il modo di essere, la
realtà, la particolarità di una regione? Che ne mette in luce i problemi, le
remore, i travagli, la cultura, i valori? Ma esiste uno scrittore siciliano, un
artista siciliano, uno scrittore o un artista che possano veramente dirsi
tali, che non abbia fatto questo? Da Giovanni Verga
a Renato Guttuso, da Federico De Roberto
a Giuseppe Migneco, da Pirandello
a Mazzaglia, quale scrittore o artista siciliano non
è stato regionalista? E se poi al termine regionalista si vuoi dare il senso
della ristrettezza d'orizzonte, della mancanza di respiro, dell'angustia, della
povertà, i pochi nomi che abbiamo fatto e i molti altri che potremmo fare stanno
proprio a dire il contrario: se l'arte e la letteratura italiana del nostro
tempo contano qualcosa nel mondo, il merito è peculiarmente di scrittori e
artisti siciliani, di scrittori ed artisti regionalisti. E basti pensare che
il più grande successo letterario che sia stato registrato nel mondo in questi
ultimi anni è quella summa del regionalismo che è II gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Accettiamo dunque per Francesco Lanza
il termine regionalista come quello che lo immette nella tradizione letteraria
siciliana, e quindi in un fenomeno europeo, sottraendolo al piccolo e propriamente
provinciale fenomeno dei frammenti, degli elzeviri, dei capitoli in cui per
circa vent'anni si svolge e si involge la letteratura italiana. E c'è da
chiedersi anzi come uno scrittore della vena di Lanza,
così vivo e vitale, così corposo, così irresistibile e godibile, non abbia
fatto spicco anche allora, non abbia trovato un suo pubblico, frammezzo
all'anemica fioritura di prose d'arte, di raccontini da terza pagina, di
romanzetti che non avevano nemmeno il merito di essere « rosa ». Sorprende,
tra l'altro, che nei quaderni del carcere di Antonio Gramsci
non ci sia una scheda che riguarda i Mimi di Lanza,
libro che avrebbe dovuto apprezzare quanto, e per certi versi più, di quanto
apprezzò il Malagigi di Nino Savarese: ma l'informazione
che Gramsci riusciva ad avere in carcere era
alquanto irregolare e fortuita, né d'altra parte i nomi di coloro che
recensivano i libri di Lanza godevano di qualche prestigio
ai suoi occhi. Il che, forse, è ancora oggi una specie di diaframma tra l'opera
di Lanza e il pubblico che meriterebbe di avere.
Abbiamo nominato Nino
Savarese: e qui cade in taglio di dire che
l'abbinamento costante tra Savarese e Lanza è pure un motivo di confusione. E dobbiamo confessare
che per tanto tempo siamo stati anche noi intenti a cogliere le somiglianze tra
i due scrittori, i punti di contatto, mentre un'operazione inversa, intesa a
coglierne le differenze, sarebbe per entrambi, in un certo senso, liberatoria.
Strettamente conterranei ed amici, con in comune la passione per la storia, i
miti, le tradizioni della Sicilia, Savarese e Lanza sono tra loro diversi nella visione della vita e
negli intendimenti : religioso, « speculativo » (l'espressione è di Lanza), contemplativo, inteso a una casta mitografia, Nino Savarese; beffardo, irriverente, ironico, libertino, pieno
di contrasti, Francesco Lanza. E si badi che usiamo
l'espressione libertino e nel senso corrente e nel senso originario di « colui
che pensa liberamente ». Per cui se ad uno scrittore siciliano Lanza è veramente vicino, non è a Nino
Savarese, ma a Vitaliano Brancati
che immediatamente lo segue. La commedia erotica siciliana comincia coi Mimi
e coi racconti di Lanza. E non staremo a
ricordare quei mimi in cui si agita il gallismo, che tra l'altro sono i più; ma
teniamo a ricordare quel racconto, tra i più perfetti, tra i più vivi della
letteratura italiana contemporanea, che s'intitola Re Porco. E che Lanza abbia avuto anche una certa influenza, oltre che
nello scoprire all'autore del Don Giovanni in Sicilia la dimensione
della Sicilia erotica, anche nella formazione della sua lingua e del suo stile,
pare di poterlo affermare fondatamente. E anche certi squarci, certi tagli,
certe tenerezze e malinconie che affiorano a contrasto dell'erotismo più acceso,
sono di Lanza prima che di Brancati.
E non è poi un caso che una battuta
del mimo intitolato Lu ma faccia da
epigrafe a quel capitolo del Bell'Antonio in cui esplode il fierissimo
caso da Sacra Rota in cui Antonio Magnano, la sua famiglia, la sua parentela
precipitano fino all'annientamento.
(Leonardo Sciascia, “ La corda pazza”, Torino, 1970)