UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI
CATANIA
CORSO DI LAUREA IN LETTERE
CLASSICHE
FLORA TERRANOVA
FRANCESCO LANZA E I MIMI DI
ERODA:
UNA PARENTELA FORZATA
TESI DI LAUREA
ANNO ACCADEMICO 2006/2007
(110 e lode)
Introduzione
Il
lettore moderno che affronta un testo letterario greco si trova spesso a
proprio agio, in una sensazione di profonda sintonia con quegli autori,
nonostante il divario di tempo e spazio che li separa. “Il contatto con la
cultura greco-latina non rientra solo nella categoria dell’utile, ma in quella
fondamentale e fondante dell’emozione e della bellezza”[1]. I classici sono considerati
unanimemente depositari di contenuti concettuali e morali e di lezioni formali
di portata universale, utili perché ci riportano al senso della storia e della
memoria, ci aiutano a comunicare, fornendoci ‘parole’ e non solo vocaboli. Essi, inoltre, agiscono come elemento di
coesione tra due mondi, di ieri e di
oggi, mantenendo viva l’idea di un patrimonio comune.
La
Sicilia, in particolare, deve molto del suo patrimonio culturale e sociale al
mondo greco, ma la letteratura siciliana sembra ad alcuni aver in parte saldato
il suo debito nei confronti dei greci con i Mimi siciliani di Francesco
Lanza, un autore che, nei primi decenni del Novecento, “in una scrittura
essenziale e stilisticamente perfetta, seppe fissare i nuclei originari
dell’anima siciliana, la vocazione al mito, alla saggezza, alla fatica,
stemperata spesso dalla coscienza del grottesco di cui si appesantisce la
quotidianità dei semplici”[2]. Lo
scrittore siciliano, a parere di molta parte della critica, ha avuto il merito
di aver colmato la distanza inevitabile, naturale, che separa un ‘classico’
greco dalla nostra modernità, adattando un genere dai connotati molto precisi,
il mimo, al sentire moderno e isolano. L’accostamento che ha riscosso più
successo nella critica è stato quello con i Mimiambi di Eroda, poeta
greco della prima metà del III secolo a.C., che compose dei quadretti vivaci e
forti in versi, puntando la sua verve ironica sulla società corrotta,volgare e
superficiale delle grandi città, in uno stile molto curato.
Si
cercherà di dimostrare, seguendo con attenzione il percorso umano e letterario
dell’autore, che Lanza non è, in realtà, il nuovo Eroda o un mimografo
siciliano del Novecento, ma un curioso e attento sperimentatore di generi, che
ha incontrato nel suo percorso anche generi che possono richiamare alla memoria
il mimo antico, ma ha, soprattutto, rivalutato l’importanza della cultura
orale, mezzo esclusivo di trasmissione per i greci fino all’epoca ellenistica,
raccogliendo per i suoi mimi i racconti popolari della sua terra, patrimonio
comune a tutti.
Si
dimostrerà, in questo lavoro, che egli è riuscito ad attualizzare quel mondo e
quella letteratura, filtrando i frammenti del passato, metabolizzati attraverso
la lettura, e mantenendo nel cuore la Sicilia e nell’anima la Grecia. Le
assonanze, però, si fermano qui. Lanza non ha voluto rispolverare un genere lontano
nel tempo in modo consapevole; la sua materia necessitava di modi narrativi
molto precisi che non si possono far risalire certo al III secolo a.C. La sua
formazione culturale ha spinto molti a guardare indietro verso il mondo greco,
e la fortuna della sua opera più nota, i Mimi siciliani appunto, si
deve, forse, proprio al titolo scelto per lui da Ardengo Soffici.
Verranno
esaminate le posizioni della critica nei confronti della personalità artistica
di Lanza e del suo percorso narrativo, condividendo, però, solo il parere
espresso da Salvatore Di Marco a proposito dell’affrettata e ingiustificata
parentela tra i Mimi di Lanza e i Mimiambi di Eroda.
A
lungo la critica letteraria ha ignorato questo scrittore o, quando ha voluto
degnarlo di attenzione, è rimasta prigioniera del sistema letterario,
dell’ansia ordinatrice, delle tassonomie e delle classifiche. È sorprendente
che nell’ “anemica fioritura di prose d’arte”[3] e frammenti, sia passato
inosservato uno scrittore vivo, corposo e vitale come Francesco Lanza. Forse
l’altalenante fortuna critica è dovuta al fraintendimento della sua opera più
nota, i Mimi siciliani appunto. Sono piccole storie, a volte solo poche
frasi, che raccontano il mondo dei paesi, delle campagne, in un linguaggio
vivo, un italiano intarsiato di termini dialettali, che non abbassano, però, il
livello artistico dell’opera. Questa, anzi, in apparenza così frammentaria,
acquista compattezza proprio grazie alla potenza unificatrice del linguaggio.
Nel
giudizio dell’opera, però, ci si è fermati spesso solo alla veste folkloristica
o a certa materia un po’ sboccata, facendone quasi un librettino di storielle
divertenti, di basso umorismo. I mimi non sono questo, o non solo. Sono
dialoghi veloci, ma non affrettati, leggeri ma densi, di persone semplici,
indicate con la generica definizione dei paesi d’origine (il piazzese, il
caropipano, il barrafranchese...). Ad ogni toponimico sembra corrispondere un
vizio, un’abitudine, ma è un’impressione dovuta alla prima lettura. I nomi dei
paesi sono soltanto un espediente letterario per far sfilare davanti agli occhi
del lettore una galleria di personaggi, di “tipi sbalzati dalla piattitudine
della vita attraverso il grottesco e l’assurdo”[4], che possono appartenere a
qualunque luogo. C’è, poi, un’ulteriore tipizzazione, basata sul gioco delle
antinomie, tipica della novellistica popolare, che vede affrontarsi, ad
esempio, lo sciocco e il furbo, il marito un po’ ingenuo e il compare sornione.
Lo scambio di battute tra i personaggi è il risultato di un lungo e attento
studio delle tradizioni e narrazioni orali dell’universo contadino,
rivitalizzate dal tessuto narrativo composto ed elegante. Lo scopo non è quello
di condurre il lettore alla facile risata, ma neanche di fornire lezioni
morali. Lanza non assume toni da predicatore, che addita nei villici
comportamenti fuori dal normale, neanche
quando descrive scene e atteggiamenti ferocemente blasfemi. Il suo è un
affresco ironico e divertito, in un gioco leggero e pungente, della società
contadina che conosce, delle credenze religiose, delle debolezze, delle
‘euforie sessuali’, come le definisce C. Sofia nella sua introduzione ai Mimi
del 1991. I suoi protagonisti non ingaggiano battaglie ideologiche; essi
sembrano, a volte, ignorare il senso di certi rituali o, comunque, hanno un
approccio naturale, primordiale, tribale con la religione e i suoi simboli; lo
stesso rapporto che hanno, a volte, con la natura. Lontano da ogni
idealizzazione bucolica della natura, Lanza ne offre, anzi, una visione
degradata; i suoi contadini hanno un approccio possessivo, cannibalesco,
aggressivo, ma anche disincantato e ingenuo con la natura. L’uomo descritto da
Lanza è ‘ingenuamente primitivo’ e, forse, proprio in virtù di
quest’atteggiamento i protagonisti dei mimi sono indicati con denominazioni
etniche, da clan.
Altro
elemento essenziale del mondo dei mimi è il sesso. C’è, nei mimi, un
susseguirsi di tresche e tradimenti, di assalti impetuosi e false ingenuità,
scene boccaccesche e grottesche, altre favolose e assurde. La maliziosa e
attenta regista del circuito erotico è sempre la donna, che, pur oggetto di
attenzioni sessuali, resta soggetto attivo. È
lei a tirare i fili dei due burattini, il marito e il compare, nel
triangolo amoroso. E questi ultimi, pur ‘combattendo su fronti opposti’,
riescono spesso a trovare spazio e tempo per una collaborazione che è resa
necessaria da varie esigenze contingenti (la cura del campo, le necessità della
povera moglie lasciata sola, dimenticanze nella procreazione...). La scoperta del
tradimento, delle corna, non crea, però, né imbarazzo né vera gelosia da dramma
popolare, al contrario dà occasione per chiarimenti surreali e gestualità
esilaranti. Non c’è il senso del peccato, la punizione per una colpa. L’eros è
vissuto in modo naturale e primitivo, e così è anche descritto da Lanza. La
franca oscenità di certe scene è mitigata, quasi trasfigurata, dal linguaggio
materiato di ironia e dalla naturalezza verbale e scenica di Lanza.
Profondamente siciliana è, poi, all’interno di questi quadri, la sentita
esigenza che della ‘mancanzella’, come viene definita, la vittima non rechi
traccia. L’onore è importante sopra ogni cosa e, quindi, tutto va bene purché
il cornuto o l’adultera non riportino segni visibili del fattaccio, la
‘stampa’.
Nella
sua arte c’è una perfezione che è dovuta alle due componenti di fondo della sua
scrittura, la “radicalità siciliana” e la “terrestrità ellenica”. Il lettore di
Lanza si troverà di fronte pagine di una
“scrittura classica, ma non antica, perché quella classicità investe tutto
l’uomo stagliato nel paesaggio mitico della <sua> terra natale”[5], pagine
che hanno “un carattere di classicità intima, connaturale, che sembra in lui
discesa da qualche atavo greco e che si manifesta soprattutto in quei suoi
naturali e divertenti mimi”[6].
La
biografia dell’autore ci accompagnerà lungo i fecondi e travagliati primi
decenni del novecento, mostrando il percorso umano e letterario di uno
scrittore sensibile al fascino del passato, che si affida al presente, nella
speranza di migliorare il futuro della sua terra. Il suo percorso letterario
comprende, infatti, non solo l’avventura dei mimi (passato), ma anche articoli
giornalistici (presente) e opere che potremmo definire didattiche (futuro).
Nella
seconda parte di questo lavoro si ripercorrerà la storia più antica del mimo,
dalle sue origini all’opera di Eroda, per poter meglio cogliere le differenze
che si incontreranno nella lettura dei due testi assunti in questa tesi per il
confronto.
Ci
si riferirà al mimo come ad un tipo di letteratura del quotidiano, tipica
dell’età ellenistica, costruita a piccoli quadri, con protagonisti non più eroi
ma gente del popolo, con un linguaggio infarcito di termini dialettali, ma non
per questo rozzo o popolare, anzi spesso frutto di un attento studio. E si
vedrà che dal mimo antico Lanza, in effetti, sembra raccogliere per sé il
carattere episodico, la propensione all’azione parlata e gesticolata, il
tentativo (riuscito) di risolvere tutto in un’unica scena.
Nella
terza e ultima parte si raccoglieranno i risultati dell’analisi dei due autori.
Si vedrà che Eroda ebbe, proprio negli anni in cui Lanza viveva e si affacciava
al mondo della letteratura, una notevole risonanza. La scoperta e pubblicazione
dei suoi mimi risale al 1891, e in un periodo in cui imperversava il verismo
egli dovette sembrarne l’antesignano. Lanza nasce pochi anni dopo, nel 1897, e
muore prematuramente nel 1933, dopo una vita segnata da eventi luttuosi, ma
rischiarata dalla levità profonda della sua scrittura e della sua personalità.
Si
procederà alla ricerca forzata di assonanze stilistiche, tematiche, verbali per
dimostrare che la scelta del titolo per il libro lanziano fu dettata
dall’entusiasmo per i Mimiambi appena
tradotti in Italia e dalla superficiale lettura di quelle che erano state
pensate come Storie di Nino Scardino. Non
si condannerà, tuttavia, la scelta di Soffici, perché le si riconoscerà il
merito di aver contribuito ad una diffusione più ‘colta’ del libro lanziano e
di aver fornito una chiave di lettura che lo affrancasse dal triviale
dell’umorismo da bar di provincia.
Concluderà
questo lavoro un appello, attraverso le parole di M. N. Zagarella, ad una più
attenta, cosciente e appassionata lettura dei Mimi sicilani.[7]
L’autore
oggetto di questo studio è, purtroppo, ancora poco noto e i manuali di storia
della letteratura e le antologie riportati in bibliografia sono gli unici
esempi di citazione di Lanza tra i ‘grandi e piccoli’ autori della letteratura
italiana. Solo una ristretta parte della critica e un gruppo, forse più
consistente, di appassionati conosce a fondo la vita e l’opera di Francesco
Lanza. Per tutti questi motivi sembra necessario dover presentare un profilo,
che si spera accurato e completo, dell’autore, a partire dalle sue vicende
biografiche e dalla sua collocazione, ancora discussa, all’interno del quadro
storico-letterario della cultura italiana, prima di affrontare l’esame della
sua opera forse più nota, i Mimi
siciliani.
Francesco
Lanza nacque a Valguarnera (allora provincia di Caltanissetta, oggi Enna) il 5
luglio 1897, quarto di sette fratelli, figlio dell’avvocato Giuseppe e di
Rosaria Berrittella. Conseguì la licenza liceale a Catania nel 1915 e si trasferì
a Roma per studiare Giurisprudenza, ma la vera vocazione restò quella degli
studi umanistici, base fondamentale e preziosa per la futura attività
letteraria, portando egli dentro il “delizioso bacillo delle lettere”[8].
Le
lettere scritte all’amico Aurelio Navarria rappresentano per noi una fonte
importante per documentare la vastità e varietà delle sue letture: i greci e
latini, come Aristofane, Luciano, Virgilio, Ovidio; i conterranei Verga, Pitrè,
Meli; i classici italiani e stranieri; scrittori politici e storici.
La
sua breve vita fu scandita, purtroppo, da alcuni avvenimenti dolorosi. Nel 1916
lo colpì un lutto familiare, la morte in guerra del fratello Antonino, che egli
celebrò con componimenti poetici a volte intrisi di retorica rappresentazione dell’eroismo,
altrove, invece, percorsi da venature malinconiche piene di sincerità umana.
Partecipò egli stesso, nel 1918, alla prima guerra mondiale come ufficiale di
artiglieria e pochi anni dopo contrasse la febbre spagnola, che lo segnò
profondamente, costringendolo a una lunga convalescenza nel suo podere nella
natia Valguarnera. La sosta forzata ebbe il merito, almeno, di consentirgli
di dedicarsi alla lettura e alla
scrittura; sono di questi anni, infatti, la raccolta delle liriche scritte fin
dall’adolescenza e la farsa in tre atti Il
vendicatore. La debilitazione dovuta alla malattia e il rifugio nelle
lettere non lo portarono, tuttavia, a tralasciare la partecipazione attiva alla
vita politica e sociale della sua città. Fondò, infatti, nel 1920, la sezione
locale del Partito Socialista, diventandone il primo segretario. È, forse, in
questo periodo della sua vita che più si rese conto delle “tristezze e
deficienze” della vita delle classi più povere della sua terra (Nicola Basile,
in Storie e terre di Sicilia[9],
sospetta che la sua adesione al socialismo sia stata quasi d’ispirazione
letteraria e umana, più che genericamente ideologica). Visse il suo impegno
politico, però, con quell’ironia che ritroveremo anche nelle sue pagine. In una
lettera del 20 dicembre 1921 scrive all’amico Aurelio a proposito della sua
vita politica: è “una cosa seria di cui rido come un pazzo”; si vanta di
ricevere “calunnie, insinuazioni, minacce [...] come un vero uomo politico”;
prende in giro i tanti suoi compaesani che vogliono ‘recuperarlo’, e, tra
questi, un prete, che, in seguito alla minaccia di uno schiaffo da parte del
Lanza difensore del suo partito, tace “per non trovarsi nella necessità di dare
l’altra gota”[10].
Riprese
gli studi universitari e si laureò a Catania nel 1922 e proprio a Catania fece
il suo primo incontro importante, con Giuseppe Lombardo Radice, che gli propose
di occuparsi della parte letteraria di un progetto, di cui l’insigne
pedagogista avrebbe curato la parte didattica: l’Almanacco per il popolo siciliano. Il progetto nasceva dalla
necessità di risollevare da una preoccupante condizione di ignoranza una parte
del popolo siciliano e, quindi, a consigli di ordine pratico doveva essere data
una veste letteraria. L’Almanacco
vide la luce nel 1923 (senza la collaborazione di Lombardo Radice, avviato nel
frattempo ad altri progetti) con lo scopo dichiarato di fornire ai contadini
una sorta di prontuario letterariamente elaborato, che potesse aiutarli nelle
difficoltà quotidiane del loro lavoro e risollevarli dalla condizione isolante
di analfabeti. Lo stesso spirito, lo stesso istintivo umanitarismo verso le
classi più disagiate della sua terra, che già lo aveva spinto nell’avventura
politica del socialismo, lo convinse al nuovo obiettivo.
Scrisse
in questi stessi anni delle brevi storielle d’umorismo popolare, come le
definisce egli stesso nella corrispondenza con Aurelio Navarria; e, proprio a
Navarria, ne invia una nel 1921, dal titolo “Il buco”, per averne un parere[11].
Sono i primi abbozzi di quelle che poi diventarono le Storie di Nino Scardino.
Nel
1923, per seguire da vicino le ultime fasi della realizzazione dell’Almanacco, giunse a Roma e iniziò a
frequentarne gli ambienti letterari. Conobbe Emilio Cecchi, Prezzolini, Ardengo
Soffici, che lo chiamò a collaborare alla terza pagina del “Corriere Italiano”
(dove pubblicò i primi saggi dei Mimi)
e alla rivista “Galleria”. Nel giro di pochi anni collaborò alle più importanti
riviste letterarie e pubblicò, prima su “Galleria” (con il titolo di Mimi rustici siciliani) e poi sulla
“Fiera letteraria”, quasi tutte le sue Storie
di Nino Scardino, titolo originario di quelli che poi diventarono, per
suggerimento di Ardengo Soffici, i Mimi
siciliani.
Dopo
un breve periodo ‘siciliano’ in cui tentò l’avventura degli affari, ritornò a
Roma, adattandosi al giornalismo di professione, che gli permetteva comunque di
viaggiare e conoscere altri piccoli mondi. Riprese, quindi, le sue
collaborazioni, con “La fiera letteraria”, “Il Tevere”, “Il Selvaggio” e, nel
1927, fondò, con la collaborazione di Nino Savarese, un periodico mensile, il “Lunario siciliano”, siciliano
per il luogo di edizione, Enna, e per i contenuti, con il desiderio di
trasmetterli al di fuori dei confini isolani. L’avventura ebbe breve vita,
nonostante le collaborazioni prestigiose dei conterranei Aurelio Navarria, Elio
Vittorini, e quelle di Emilio Cecchi,
Silvio D’Amico, Riccardo Bacchelli, Enrico Falqui, Ardengo Soffici. Intensificò
la sua attività giornalistica, collaborando con “L’Italia Letteraria” (nuova
versione di quella che era stata “La fiera letteraria”), “Il Resto del
Carlino”, “L’Ambrosiano”, “Il Lavoro Fascista”, la “Gazzetta del Popolo”. Nel
1928 pubblicò in volume, per la Alpes di Milano, i Mimi siciliani, che non riscossero, però, grande successo. In una
lettera all’amico Corrado Sofia, dopo essersi raccomandato di non far cadere
quel libro in mani femminili dato il contenuto quasi pornografico, conclude che
forse di buono c’era soltanto l’edizione. Dice Lanza: “è un libro che non ha avuto
fortuna: forse se fosse uscito in Francia, come diceva Prezzolini che mi
consigliò di pubblicarlo, avrebbe avuto il successo delle Storielle Ebree
di Jahier”[12].
L’avventura del Lunario si chiuse
definitivamente nel 1931, con Lanza lontano, nella sua Valguarnera, ancora una
volta ammalato. Scrisse, in quegli anni, oltre ai suoi resoconti di viaggi e
agli articoli per le rubriche che curava, anche opere teatrali (tra queste
anche commedie in dialetto siciliano) nelle quali erano centrali i temi
dell’amore, dell’adulterio, dell’erotismo infedele, che tanta parte avevano
anche nei Mimi, e curò una raccolta
di scritti del Meli, che sarà pubblicata postuma. Agli inizi degli anni Trenta,
viaggiò molto in Europa come corrispondente giornalistico e si recò anche in
Tripolitania, viaggio che gli ispirò le pagine dei Mimi arabi.
Negli
ultimi anni della sua breve vita aderì al fascismo, mostrando, come già in
passato per il socialismo, un interesse specifico e ‘umanitario’ (la
prospettiva di soluzione del problema agrario siciliano), più che convintamente
ideologico. Egli stesso, nelle pagine della sua corrispondenza con l’amico
Aurelio Navarria, chiarisce le ragioni della sua posizione e specifica di non
aver certo avuto in cambio favori o promesse, che non gli interessavano.
Scrive: “Tu sai che io non ho avuto nulla dal fascismo – da otto mesi anzi sono
in cerca di un impiego che mi permetta di vivere in pace senza l’ossessione di
dover tramutare in racconto o in articolo di terza pagina la pagina bianca
[...] - [...] ma brigherò di diventare segretario politico [...] per vedere se
con un po’ di fascismo bene applicato non sia possibile insegnare un po’ di
civiltà [...] ai villanzoni del circolo e dei feudi”[13].
La svolta mussoliniana è sorprendente in una personalità come quella di Lanza,
così mite e candida, come la definisce Enzo Barnabà nel suo articolo “La pagina
nera di Francesco Lanza”. Barnabà riporta poi un brano di un reportage in
Romania per “Il Tevere”, in cui Lanza si abbandona a commenti razzisti nei
confronti della comunità ebraica, seguendo senz’altro le direttive del
direttore Telesio Interlandi. L’antisemitismo sembra, però, riservarlo alle
occasioni, per così dire, pubbliche, tenendosi strette nella sfera privata le
amicizie come quelle con Otto Pohl, diplomatico austriaco di religione ebraica
che aveva scelto la rivoluzione socialista. La conclusione che Enzo Barnabà
trae è che anche Lanza fu afflitto da “nicodemismo, la sindrome opportunista
che durante il ventennio infierì tra gli intellettuali italiani”[14].
Distrutto
moralmente dalla morte della madre, avvenuta nel 1931, recuperò la fede
cristiana, non avendo mai perso comunque lo ‘spirito cristiano’, ossia il
sentimento profondo di solidarietà umana, di amore verso gli umili e i più
poveri, di cui aveva pervaso molte delle sue opere. Angosciato dal rimorso per
non aver rivisto la madre per l’ultima volta, iniziò a sentire anche il paese
estraneo, poiché lei era la sua vera casa; eppure, leggiamo nelle sue lettere,
si sente “attaccato al paese in modo profondo e doloroso”. Quel paese
“maledetto, dove non si parla che di debiti, scadenze, di miseria”, a cui dice
di dovere la maggior parte dei suoi mali, che si vendica nei suoi confronti per
il solo motivo che l’ ha troppo amato; un paese “afoso, pesante, indifferente”
che gli toglie “ogni volontà, estro, felicità di lavorare”, come scrive
all’amico Corrado[15].
Abbattuto
dalle difficoltà economiche, si lasciò, per qualche tempo, “trascinare dal
pigro fiume delle cose”[16];
cercò alla fine un lavoro ‘impiegatizio’, al qual scopo diceva di aver preso la
laurea in legge, e lo ottenne, nel 1932, in un ministero a Roma, ma, per le
precarie condizioni di salute, dovette far ritorno a Valguarnera. Ricadeva
nella trappola. E a Valguarnera morì il 6 gennaio 1933.
Gli anni in cui Lanza vive e scrive sono tra i più fecondi di cambiamenti
della vita italiana. L’attenzione sulla sua attività va posta dalla metà degli
anni venti in poi, quelli della piena maturità, ma è utile, per una piena
comprensione, tracciare un quadro del decennio precedente.
Il primo quindicennio del novecento, la cosiddetta età giolittiana, per la dominante figura dell’allora capo del governo Giovanni Giolitti, era sembrato a tutti duro e inquieto, ma fu poi visto, alla luce dei pesanti avvenimenti degli anni successivi, quasi come un’era felice. Giolitti aveva vagheggiato l’idea di integrare le varie forze sociali, sopendone i conflitti, ma aveva visto il fallimento del suo disegno sotto le sempre più forti spinte nazionalistiche, favorite dal clima precipitosamente ottimista, dovuto all’incremento rapido dell’industrializzazione e al progresso economico, che favoriva disegni autarchici. La nuova situazione politico-sociale favoriva, del resto, un dibattito culturale intenso e vario, che si sviluppava soprattutto sulle riviste o sulle terze pagine dei giornali, quelle affidate, appunto, all’informazione e alle problematiche culturali. Tra le riviste, la più notevole era “La Voce”. Essa, fondata nel 1908 a Firenze, in una prima fase, sotto la direzione di Prezzolini, si era battuta per un rinnovamento della letteratura che coincidesse con il rinnovamento della società italiana, superando il distacco della letteratura dalla realtà, ma poi sotto la direzione di Papini era ritornata alla pura letteratura, pubblicando ogni forma di racconto o lirica; sotto la seconda direzione di Prezzolini diventò rivista politica; alla fine sotto la guida di De Robertis si arrese ad una concezione aristocratica e rarefatta della poesia, che doveva trovare la sua dimensione nel frammento, liberato dalle parti impoetiche. La rivista sospese le pubblicazioni nel 1916.
Si era trattato di una sorta di fuga dal reale, verso il frammento puro e avulso da inquinamenti ‘psicosociali’ e la stessa esigenza di fuga si era manifestata anche nella narrativa e, in generale, la svolta irrazionale aveva pervaso tutta la cultura europea; i nuovi artisti e letterati sentivano inadeguato e limitativo l’indirizzo realistico dei decenni precedenti, volevano andare oltre il fenomenico. Si era verificata una frattura tra artista e società che aveva avuto, però, esiti diversi: per un verso si era assistito all’esibizione compiaciuta della propria superiorità e raffinatezza letteraria, dall’altro alla descrizione del senso di smarrimento e sradicamento dell’uomo e dell’artista, per ultimo all’esaltazione dell’io, alla ricerca dell’attivismo, dello sperimentare a tutti i costi. Quest’ultimo esito aveva portato alla fusione di letteratura e orientamento politico aggressivo-imperialista.
Questo
clima trovò, nell’agosto del 1914, il suo tragico sbocco nello scoppio della
prima guerra mondiale e l’anno successivo vide l’ingresso in guerra
dell’Italia.
La
guerra e gli anni del dopoguerra acuirono, invece di risolvere, i contrasti
sociali e politici. Le masse contadine ancora affamate di terra, i reduci da
reinserire nella società, coloro che durante la guerra si erano resi avvezzi al
comando che mal si adattarono alla grigia routine: questo ed altro preparò la
strada alla nascita del fascismo.
Il
dibattito letterario del primo dopoguerra è segnato dal rifiorire delle
riviste, che raccoglievano gruppi omogenei di intellettuali. La prima in ordine
cronologico è la “Ronda”, fondata a Roma nel 1919 da un gruppo di letterati
tutti dal passato vociano; è una rivista che non si può definire politica in
senso stretto, ma che, comunque, riflette una sorta di richiamo all’ordine
tipico della borghesia di quegli anni, che avversa il socialismo e che propone
una sorta di aristocratica astrazione dalla realtà grazie alla letteratura, e,
quindi, una supervalutazione di essa. Si guarda alla lezione dei classici,
all’estrema pulizia formale, al senso d’equilibrio e della misura, ad una prosa
d’arte che deve evocare più che descrivere e che chiude il letterato nel suo
mondo fatto di belle lettere e fuori dalla realtà. L’attenzione si concentra,
in particolare, sul Leopardi, visto come teorizzatore di eleganza, punto di
partenza per una poetica che rivaluta la perfezione formale fine a se stessa.
La rivista chiuse i battenti nel 1923. Sotto la formula ‘ritorno all’ordine’,
però, possono essere comprese un po’ tutte le tendenze culturali del ventennio,
perché essa non indica contenuti ma, piuttosto, atteggiamenti: c’è il rifiuto
dell’esagitato e dell’avanguardistico e si auspica il ritorno alla compostezza,
da ricercare nel passato o da ricreare per il futuro.
Al
periodo confuso e difficile dell’immediato dopoguerra, seguì un
periodo travagliato e violento che portò alla cosiddetta «marcia su Roma» del
1922, che segnò il confine tra vecchia e nuova era, quella fascista. Ogni forma
di cultura da quel momento fu influenzata, quando non controllata, dai desideri
e dagli interessi del regime dittatoriale e totalitario, tale proprio perché
interviene attivamente in tutti gli aspetti della vita associata. Questo stesso
totalitarismo portò, però, il movimento (poi partito dal 1923) ad accogliere in
sé tutte le forze contraddittorie della società italiana, contentandosi, in mancanza
d’altro, di un riconoscimento e di un ossequio formale. Si cercò di creare una
sorta di koinè culturale che, però, non fu mai effettivamente realizzata. I
vari elementi che in essa confluirono e si combinarono variamente davano, però,
nonostante tutto, l’impressione di unità e tanto bastava.
Ci
fu, paradossalmente proprio in questi anni, un incremento dei mezzi di
comunicazione, violentati però, nella loro funzione primaria, l’informazione,
per condizionare gli atteggiamenti e indirizzare il consenso.
Tra
gli aspetti della politica fascista di più stretto interesse letterario ci fu,
poi, la pretesa di un’autarchia culturale che lasciò fuori l’Italia dal
processo culturale mondiale coevo. I nuovi letterati si limitarono, allora, a
riadattare e sviluppare temi e motivi della cultura del primo novecento e
alcuni guardarono più indietro al Verga o mossero timidamente alla scoperta di
nuovi autori, quale Svevo.
In
poesia si preferirono i componimenti brevi, densi, una sorta di tendenza al
frammento, e gli scrittori che aderirono a questa tendenza furono detti
‘vociani’, per la loro collaborazione all’omonima rivista. In prosa prevalse
l’opera di fantasia, la riscoperta della memoria (ossia della realtà filtrata
attraverso la memoria), dei sogni, delle descrizioni-invenzioni. L’interesse dello scrittore si
spostò dal volume all’episodio fino alla pagina, al frammento. Il passaggio
inevitabile fu dalla letteratura di contenuto a quella di stile. Coeva di
questa tendenza al ‘frammento’ fu, però, anche quella influenzata dalle pagine
di un’altra rivista, “Solaria”, che volle orientare verso una dimensione
narrativa più ampia. La rivista fiorentina, pubblicata tra il 1926 e il 1936,
fu una rivista eclettica, che raccolse l’attenzione allo stile come voleva “La Ronda”,
ma avvertì anche la necessità di un impegno morale e sociale; infatti, in
contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, favorì la
valorizzazione di tanti autori italiani e stranieri. Si ebbe un ‘ritorno al
romanzo’, ma non certo quello ottocentesco; nuovo protagonista è un mondo retto
dall’irrazionale, l’attenzione per il particolare, la deformazione della
realtà, l’uomo qualunque e la sua scoperta del senso tragico della vita. Si
parla ora non più di realismo, ma di espressionismo prima e di surrealismo poi,
intesi come forzatura del reale.
All’interno
del quadro letterario appena tracciato, sono in molti a non aver trovato un
accordo per la collocazione definitiva della personalità e dell’opera di
Francesco Lanza, soprattutto in riferimento alla sua opera più famosa, i Mimi siciliani. La stentata costituzione
di una tradizione critica può essere però attribuita, a parere anche di N. Zago[17],
alla stessa carriera artistica di Lanza, che, per essere stata interrotta così
precocemente, lascia un che di irrisolto. La sua fisionomia intellettuale,
sostiene ancora Zago, presenta una zona d’ombra, un margine di sfuggente
ambiguità e incompletezza che di solito accompagna le carriere artistiche, per
così dire, strozzate.
Il
canone di riferimento più immediato sembrerebbe essere quello verista, ponendo,
quindi, Lanza nella schiera di coloro, come si è detto, che nel rifiuto delle
tendenze letterarie del ventennio si rifugiano nel passato appena trascorso.
Giorgio Santangelo, nel tracciare il quadro letterario della Sicilia dopo il
1860, nelle pagine della sua “Letteratura in Sicilia da Federico II a Pirandello”, ricorda
Francesco Lanza tra quei narratori e autori di teatro veristi che hanno dato un contributo notevole alla
letteratura nazionale. Si era sviluppata, secondo Santangelo, una letteratura
regionale, immediata conseguenza della poetica veristica allora di moda. Chi
voleva fare arte o letteratura adeguata alla vita contemporanea doveva guardare
agli strati più umili della società, dove c’è più natura e meno società, e dove
gli stimoli letterari sono più vivi e mossi. I primi racconti sembrano a detta
di molti (tra questi Zago) accogliere suggestioni veriste, verghiane in
particolare, ma subito incalzate dal gusto del favoloso o da quello “azzardato
e trasgressivo della gesticolazione mimica”[18].
Anche i Mimi sembrano calzare
perfettamente nella definizione di Santangelo, tenendo conto, però, che il tono
letterario non è di piena adesione e compassione per quella materia. Lanza, nei
Mimi, non idealizza e non
‘moraleggia’, ma descrive con grazia, leggerezza e ironia i suoi umili. Pelizzi
vede riecheggiare in Lanza “tutti i motivi del verismo antico”, ma con
“lucidità consapevole e con originalità”[19].
Nell’introduzione al volume “Gli eredi di Verga”, Barberi Squarotti dice che quell’eredità è “facile e pacifica” in
scrittori come Savarese e Lanza, nel senso di “una fedeltà a una regionalità
come descrizione di costumi e caratteri di essa tipici nel senso documentario e
realista”; distingue però i due scrittori, vedendo in Lanza “un di più di
acutezza pungente di moralista”. Era logico, secondo Rossi[20],
che, in particolare una materia come quella dei Mimi, popolaresca, richiamasse subito alla mente l’esperienza
verista, ma a ben guardare il motivo verista vi appariva ampiamente
ridimensionato. Lo stesso Salvatore Rossi conclude che non si può parlare di
alcuna eredità tra Verga e lo scrittore valguarnerese. Nel mondo di Lanza c’è,
secondo Rossi, molta più cultura che nel mondo di Verga, nel senso che dietro
ai Mimi, “a preparare e condizionare
[...] c’è tutta una linea assai lunga cha da Teocrito e dal Virgilio delle Bucoliche
giunge fino all’amato Meli, soffermandosi lungo numerose stazioni narrative
dove si trovano Boccaccio, Sacchetti e Bandello ai quali chiede in prestito il
tono dell’arguzia e della burla”. E ancora: “dietro ai contadini di Verga [...]
c’è l’uomo com’era alle origini, non corrotto dalla civiltà, coi suoi
sentimenti vergini. Il pastore di Verga è l’uomo senza maschera, il contadino
di Lanza l’uomo cui è stata imposta la maschera del pastore”. In definitiva,
per Rossi, non bisogna insistere su Verga come fonte, ma accettare piuttosto
altre parentele che spaziano dal Pitrè a Soffici, Baldini, Savarese, la Ronda e la poetica del frammento, con un
occhio particolare per queste ultime.
Molti
pongono, in effetti, Lanza nel gran calderone dei rondisti, frammentisti e
simili, che tanto spazio avevano avuto nel clima letterario degli anni venti. Lanza
doveva per forza di cose sentire l’influsso del clima vociano e frammentista, che era
però, secondo Basile[21],
moderato dalla contemporanea influenza di scuola rondista. Il plauso e la
promozione data da Ardengo Soffici ai Mimi
risulta, agli occhi di S. Rossi, perfettamente comprensibile, se si guarda all’adesione
di Soffici alla seconda fase della “Voce”, i cui ideali erano grosso modo
vicini a quelli della “Ronda”, ed erano, quegli atteggiamenti, precursori dei
giudizi favorevoli che sarebbero arrivati dalle pagine della rivista
fiorentina. Il rondismo di Lanza è stato, però, vissuto e raccontato in modi
diversi da chi lo leggeva e da chi lo conosceva. Falqui, ad esempio, lo dice
scrittore post-rondesco, e Basile gli risponde che quel ‘rondismo’ nasceva “dal gusto
della tradizione umanistica dei suoi studi e dalla vigile predilezione per le
antiche e buone lettere”[22],
null’altro; perché certo accolse quel nitore stilistico, ma riesprimendolo con
“una vibrazione più terrestre della parola, regolata dal dono nativo e dalla
vena incorruttibile della sua sicilianità”[23].
Si può, anzi, parlare di distanza intellettuale dai rondisti, ai quali Lanza
riconosce “buone intenzioni, ma disgraziatamente completa incapacità di
attuazioni”; che definisce “esseri superficiali e frammentari”, che si sono
stranamente accostati con passione al “più grande costruttore moderno
(Leopardi) [...] cattivi discepoli di cotanto maestro”, ma ai quali “in ogni
modo bisogna restar grati ché sono buoni disseccatori di cellule”, come
testimonia una lettera all’amico Navarria[24].
Anche Santangelo ascrive i Mimi a
quella che chiama la stagione umana e letteraria di Lanza influenzata dal
frammentismo rondista, intesa non come rimando al passato o come espressione
entro schemi ben definiti, ma riconoscendo quella lezione solo nel gusto per la
limpidezza dello stile. Lo stesso Lanza confessa in una lettera che, dopotutto,
anche lui e Navarria dovevano considerarsi vociani, per la smania della cultura
e il delirio dello stile; tuttavia non approva la scelta artistica di rifarsi
al Leopardi, anzi in una lettera confessa di aver trovato magnifico semmai il Notturno di D’Annunzio, col suo
‘pittorismo’ nelle descrizioni. L’appartenenza alla poetica del frammento potrà
essere meglio accettata se si intende questa come tendenza innovatrice e
polemica nei confronti della forma chiusa. Questo è il parere di A. Di Grado[25]
che ascrive Lanza alla tendenza del frammento piuttosto che a quella
restauratrice della forma chiusa e perfetta del ‘capitolo’. La presunta lezione
rondista, in ogni caso, è stata assimilata da Lanza solo al livello di una
struttura sintattica più rigorosa, ma superata, come dice Cottone, dal
movimento originale della fantasia creatrice. Cottone vede Lanza perfettamente
al centro della temperie culturale dell’epoca perché, negli anni in cui “continuava
ancora [...] l’eco accorata e morbida dei crepuscolari, si rivelava l’impegno
morale dei vociani e il gusto neoclassico dei rondisti”, Francesco Lanza era
“sentimentalmente un crepuscolare, per via [...] del suo bisogno accorato di
rievocare le cose più semplici remote ed eterne del suo paese, letterariamente
un vociano e un rondista insieme”[26].
Sciascia indica, invece, nel periodo in cui Lanza visse e scrisse una delle sue
più grandi sfortune, perché “la moda del frammento e il tentativo di una specie
di restaurazione classica venivano a confondere le sue cose col frammento da un
lato, con i risoffiati spiriti classici dall’altro”[27].
Quella confusione salvò, comunque, Lanza, sempre secondo il parere di Sciascia,
dall’accusa di regionalismo. In quegli anni di esaltazione di una cultura
nazionalista e unitaria, italianofila per così dire, le culture che si
esprimevano nelle lingue regionali furono osteggiate, e aggettivate, in modi
dispregiativi, come regionaliste. L’essere quindi abbandonato nell’indistinto
limbo dei rondisti, frammentisti e simili lo allontanò da quel regionalismo
tanto sospetto in politica e letteratura. Prezzolini, volendo forse in parte
attenuarne le colpe, lo dice “buon scrittore regionalista”. Sciascia,
nonostante tutto, mostra di preferire
questa definizione alle altre, perché se per regionalista si intende uno
scrittore che affronta e racconta la propria regione con tutte le luci e le
ombre che la caratterizzano, e tenta di trasmetterne i valori e la cultura,
come fecero Verga o Pirandello, allora l’accusa si trasforma in vanto e
inserisce lo scrittore in una tradizione letteraria più ampia, sottraendolo
così al “piccolo e propriamente provinciale fenomeno dei frammenti, degli
elzeviri, dei capitoli”[28].
La fortuna e il favore di cui Lanza godette presso i rappresentanti di quelle
poetiche potrebbero essere indicati, secondo il parere di Sciascia, come cause
della sua più mite e ridotta fortuna e circolazione in altri ambienti, operando
come una specie di diaframma tra la sua opera e il pubblico che meriterebbe di
avere; ne cita a prova il fatto che nei Quaderni
di Gramsci non vi sia menzione dei Mimi,
cosa che attribuisce, oltre alla spiegabile irregolarità delle informazioni, al
poco prestigio di cui godevano agli occhi di Gramsci coloro che recensivano
allora i libri dello scrittore siciliano. Altri, forse guardando alla
produzione complessiva dello scrittore, sentono di escludere parentele strette
con le tendenze dei primi decenni del novecento, scorgendo in Lanza una
dimensione più ampia che può essere spiegata solo guardando più indietro al suo
conterraneo Verga. Ancora una volta verismo, dunque, ma spiegato in modi
differenti. Per Basile, ad esempio, il maestro morale e stilistico è senz’altro
Verga, perché rappresentava allora un passaggio quasi obbligato per gli autori
siciliani, punto di riferimento per il suo stile essenziale ma “potente
nell’inventiva”. Cottone, dopo aver accettato l’influenza di crepuscolari,
vociani e rondisti, chiarisce, però, che “la lezione che lo restituisce a se
stesso, perché gli consente di esprimersi liberamente dalla sua terra e dal suo
popolo [...] è quella del Verga”, una lezione “sociale e stilistica insieme che
prende Lanza dal fondo del suo essere e gli scopre il significato terreno,
tutto siciliano, della propria vita e della propria opera, fino alla
contemplazione mitica (astorica) di un mondo, in cui è protagonista il
contadino nella sua terra”[29].
Fece sua, dunque, Lanza “la lezione di sobrietà e dignità letteraria del
Verga”, ma, aggiunge Cottone, educando il suo “gusto georgico [...] con lo
studio amoroso di Giovanni Meli, mentre Giuseppe Pitrè dovette offrirgli la
materia più appassionante la sua curiosità di studioso e più sollecitante la
sua vocazione di scrittore”[30].
Di Marco[31],
invece, preferisce affiancare al Verga, come maestro, Pirandello. Parla più
esplicitamente di stile pirandelliano a proposito dei Mimi, forse tenendo d’occhio le Novelle
per un anno, quelle regionalistiche, con la loro rappresentazione della
Sicilia e dei siciliani non distaccata, così come teorizzato dal verismo, ma
deformata da toni aspri, tinta d’umor nero e di violento espressionismo
verbale. E parlando di espressionismo, si arriva all’altra parte della critica
lanziana, quella che, soffermandosi sui Mimi,
vi scorge parentele più sincere con il Tozzi di Bestie. Su questa linea, Di Grado ritiene che le definizioni date
da Debenedetti[32]
proprio a proposito di Bestie, siano
“utilmente dilatabili al mondo e alle oltranze dei Mimi siciliani, al caustico impasto di coltissima prosa d’arte e di
brusche impennate d’oscena ferocia”. Nota in Lanza lo stesso furore
espressionistico, ma più “rabbioso, impudente, impartecipe”, con cui Tozzi
aveva “violentato la compatta superficie della realtà esterna e della prosa
tradizionale per liberarne mute epifanie e mostri enigmatici”. Istituire questo
tipo di parentela aiuterebbe anche a liberare Lanza “dall’ipoteca rondista e
[...] affiliarlo a un’area molto più mossa e variegata [...]che dal frammento
vociano sconfina nell’estremismo strapaesano e nel realismo espressionistico”
[33].
Un
giudizio complessivo su tutta l’opera di Lanza non è agevole; tante sono le vie
percorse nella sua pur breve carriera letteraria: poesia, teatro, narrativa,
bozzetti pedagogici, quadretti mimici; e ad ogni genere corrisponde una
variazione più o meno sensibile di stile e di tono, anche laddove la materia
parrebbe la stessa. Basti un esempio: l’Almanacco
per il popolo siciliano e i Mimi
siciliani. Protagonista delle due opere lanziane è inequivocabilmente il popolo
contadino, con le sue difficoltà quotidiane, la vita dura dei campi, la
condizione isolante della lontana provincia siciliana, ma cambia il modo di
raccontare e affrontare la materia, in un modo così evidente da far giudicare,
da più parti, artisticamente schizofrenico l’autore. Si passa dalla dimensione
idilliaca, ottimistica, paternalistica, pedagogica dell’Almanacco a quella dell’anti-idillio, espressionistica, ironica,
deforme e bestiale dei Mimi. La
stessa schizofrenia si può, in realtà, trovare anche all’interno della stessa
opera, nell’unione, per esempio, di materia popolare e stile coltissimo, ma si
può allargare anche a scelte di altro genere, come quelle politiche o di vita
(l’adesione al socialismo e quella al fascismo; la materia blasfema e lo
spirito cristiano).
Ardengo Soffici, a un mese dalla
morte di Lanza, scrisse sul “Tevere” che era difficile in quel momento far
passare l’intensità di un’opera “tutta castità, semplice eleganza, verità e
naturalezza”[34] come
quella dello scrittore siciliano, perché il mondo delle lettere gli sembrava
troppo concentrato sulla scelta degli artifici o su espedienti di pessimo gusto
per poterla apprezzare. Mariano Lamartina estende quella definizione a tutta
l’opera lanziana, pur sottolineando che la relativa fortuna dei Mimi aveva contribuito a formare di
Lanza un’immagine di scrittore spregiudicato o spiritualmente vivace (Sciascia
lo aveva già definito beffardo, ironico e libertino). In realtà entrambe le
definizioni sembrano calzanti; c’è il Lanza serio, malinconico, coltissimo,
lirico; e quello giambico, irriverente, ironico. I Mimi, pur nella assoluta particolarità del loro genere,
rappresentano un campione ricco degli atteggiamenti mentali e letterari di
Francesco Lanza; una loro analisi, dunque, potrà fornire un quadro composito e
completo della figura dello scrittore.
I.3 I Mimi
siciliani
L’opera
più famosa di Lanza acquista forma concreta di libro nel 1928, per la casa
editrice Alpes di Milano, ma la sua storia inizia nel 1923 quando lo scrittore
siciliano volle far leggere alcuni suoi racconti ad Ardengo Soffici, che aveva
incontrato a Roma. Fu quindi Soffici ad apprezzare per primo quei brevi
racconti e a consigliarne la pubblicazione sulle pagine del “Corriere
italiano”; seguirono le uscite su “Galleria”, nel 1924, con il titolo di Mimi rustici siciliani, e su “La fiera
letteraria”, lungo tutto il 1926 e ’27 . Il titolo che Lanza aveva pensato per
quella raccolta di aneddoti era Storie di
Nino Scardino, dal nome del mezzadro di casa Lanza, come a simulare il
racconto di un narratore popolano. La materia, in effetti, all’inizio era
divisa in capitoli, ciascuno dedicato alle storie di un popolano: storie del
piazzese, del brontese, ecc...; erano, quindi, storie raccontate e sentite dal
paesano e sul paesano. Il narratore scomparve, però, per suggerimento di
Soffici, che avendo letto incuriosito i Mimiambi
di Eroda, da pochi anni scoperti e pubblicati, ravvisò nelle pagine di Lanza
vicinanze tematico-stilistiche con il testo greco e vi impose il titolo di Mimi siciliani[35].
Una nuova edizione si ebbe nel 1946, quando Aurelio Navarria raccolse i mimi ed
altri scritti dell’amico per il volume Mimi
e altre cose di cui curò l’edizione per la Sansoni di Firenze[36].
Un’edizione con commento si ebbe, poi, nel 1971, con la firma di Italo Calvino
per la Sellerio (ristampata nel 1984)[37].
I
Mimi sono una raccolta di storielle
popolari, molto brevi (a volte solo poche battute), di contenuto umoristico,
ironico, a volte greve ma, tuttavia, di stile raffinato, caratterizzate da
dialoghi rapidi e sapidi tra contadini della provincia siciliana; dialoghi che
di generazione in generazione e di bocca in bocca sono arrivati a noi, restando
“immutati, con un rilievo plastico dal tocco classico in cui puoi riconoscere
attualissimo il richiamo alla perfezione ellenica della Sicilia antica”[38].
Calvino scorge nella scrittura dei Mimi
due movimenti opposti, “quello lieve e attento di una prosa limpida ed
evocativa e quello astioso e tristo del lezzo paesano, del feroce dileggio”[39].
La particolarità di queste storielle, continua Calvino, sta nel fatto che “alla
comicità disinteressata della barzellette si sovrappone [...] la carica
d’aggressività delle contese di campanile”[40].
La materia popolare è trattata, però, con l’ironia benevola, anche se a tratti
graffiante, dell’autore, che fa sì che non scivoli mai nel popolaresco, così
come, nota Santangelo, la partecipazione sentimentale non scade mai nel
sentimentalismo compassionevole. La capacità di scrittura di Lanza e la sua
formazione culturale rendono possibile dare all’esperienza esistenziale,
quotidiana, quello spessore che evita alle sue pagine di essere solo “uno
scialbo rifacimento di una sorte che capita ogni giorno con tratti diversi a
tutti gli uomini”[41]
e le trasforma, invece, in fatto letterario. I Mimi sono l’esito dell’esperienza culturale e umana di Lanza
intorno agli anni venti, quando iniziò ad avventurarsi nei palazzi della
narrativa e del teatro: due tecniche di scrittura che ritroviamo felicemente
sposate nelle pagine dei mimi.
La
maggior parte dei mimi si può ricondurre ad un “potenziale nucleo scenico,
vivace, veloce”, tale, però, “perché istintivo e poco aggiogato agli espedienti
cui sono legate le opere scritte espressamente per il teatro”[42].
Nelle descrizioni e nei dialoghi dei mimi c’è un impasto originale e felice di
parlato popolare, lingua colta, indicazioni scenografiche, pittoriche, elementi
figurali ed icastici, ammantato della soave ironia dell’autore, che rende unica
l’opera. Sarah Zappulla Muscarà ricorda che già nelle prime prove Lanza visita
la realtà “con gli accenti del comico, con toni di distaccata irrisione che non
nascondono, tuttavia, i segni di una tragica conflittualità o di una segreta
sofferenza”, egli “ne occulta la cupezza per poi disvelarla [...] insistendo
sulle categorie parodiche della metamorfosi, dell’ambivalenza, del
rovesciamento”[43]. È,
comunque, il mondo comico, “ignorante e goffo, ma candido e vitale ad attivare
l’immaginario di scrittore”[44]
di Lanza. Egli gioca con la sua materia, anche quella più grottesca, e la piega
alla sua volontà, ora esaltandone i caratteri più duri ora abbigliandola di
poesia, con le trame dei suoi periodi colti e delicati. Qui si nota, più che
altrove, l’influenza rondesca. All’interno dei suoi frammenti, “dentro le
maglie serrate e il giro avvolgente, squisitamente letterario del periodare
rondesco”, egli crea, però, “scarti e lacerazioni”[45]
grazie all’intrusione di elementi destabilizzanti, quali l’inflessione
dialettale, il comportamento primitivo, bestiale, le battute a tinte forti, le
bestemmie ‘figurate’. Di Grado avanza l’ipotesi che, forse, neanche Soffici,
che impose a quei brevi racconti il titolo di Mimi, seppe rendersi conto fino in fondo “della loro irrimediabile
e insolente alterità, né delle oltranze e delle infrazioni”[46].
Il mimo, come genere letterario, può aver dato forse, a Lanza, come dice
Santangelo, “la possibilità di una celerità inventiva che si articola in
celerità di scrittura senza indugio”[47]:
e in effetti, come vedremo, non c’è il ricorso ad aggettivazioni che possono
diluire il discorso, rendendolo inessenziale. I caratteri della vita contadina
sono espressi “nella loro umana nudità, con un piglio di rozza e primitiva
naturalezza”[48]; i
contadini parlano con i vocaboli e i costrutti sintattici loro abituali. Lanza
mostra di conoscere, saper apprezzare ed usare il patrimonio della cultura
popolare; e in un periodo in cui altri sembravano battere lo stesso sentiero (
un esempio: “Il Selvaggio” di Maccari), egli presenta una “visione acerba e
severa”, che lo porta a scrivere i suoi mimi “in decisa opposizione a tutta la
letteratura corrente, regolarmente catalogata dai criticazzi”, come sottolinea
Sofia[49]
citando le parole che lo stesso Lanza usò per spiegare come furono concepiti i
suoi mimi, in una lettera all’amico Aurelio Navarria del 21 febbraio 1922. È il
metro, diverso, “intriso di sardonica violenza”[50],
che lo distingue tra tanti e che lo avvicina al modo di raccontare che ha la
gente del popolo. Rita Verdirame, pur occupandosi principalmente della
struttura linguistica del romanzo incompiuto postumo[51]
di Lanza, accenna al mondo e al parlato dei Mimi,
e sottolinea come “l’ottica ruralista, ben presente tra gli aristocratici
scrittori della Ronda ed emergente poi nella tendenza strapaesana del “Selvaggio”
di Maccari, assume in lui un’angolatura diversa. Lanza (era) impegnato nella
continuazione di una linea regionale dove confluisse la specificità culturale
della sua terra e si evidenziasse il bagaglio del sapere antropologico isolano,
allo scopo di rivivificare e mantenere feconda una tradizione”[52].
Non c’è in Lanza il tono accondiscendente, buonista, di tante pagine del tempo;
per citare ancora le parole della Verdirame, “l’intento apologetico risulta
stravolto e rovesciato in una lapidaria rappresentazione del mondo contadino
sotto il segno irriverente della lepidezza e dell’erotismo”[53].
Il linguaggio usato dall’autore è essenziale, nervoso, finemente inquinato di
termini ed espressioni dialettali, con un dettato pieno di anacoluti che vuol
ricalcare o rendere più credibile la provenienza diretta dalla bocca del
popolo. Il lettore viene introdotto al centro dell’azione con poche battute che
delineano già lo sviluppo scenico e che valgono a volte più di tante lunghe
descrizioni; altre volte accede al racconto in modo brutale, quasi come se
s’aprisse d’improvviso un sipario immaginario. “Nessun balzo, nessuna forma
inusitata messa lì per attirare l’attenzione del lettore, ma un procedimento
narrativo di largo richiamo che nulla concede all’astratto e all’ideologico,
ancorato com’è ad un quotidiano sfaccettato nelle sue immense forme”[54].
Una delle virtù letterarie di Lanza sta nel pescare dal quotidiano dei
contadini siciliani termini e costrutti dialettali per farli assurgere a
poesia, grazie a un’intonazione generale e sintattica che nulla più ha del
dialetto. Basile sottolinea, nelle sue pagine sui Mimi, l’animazione originale
e lo stile preciso, che a volte, dice, sa di studio, ma che comunque rivela
l’intelligenza dello scrittore nel trattare una materia “popolaresca,
azzardata, sorniona”[55].
Così anche la materia più pruriginosa sarà presentata al lettore in modo
semplice, naturale, con l’aiuto semmai di alcuni particolari stratagemmi
metaforici che, pur sottolineando, paradossalmente, non involgariscono il
testo. L’opinione di Basile è forse influenzata dalla convinzione che dietro i Mimi si nasconda una “pensosa lezione
morale”, che la cornice mimica serva solo a presentare in modo più leggero “il
costume della consunta società agraria siciliana”; la descrizione della vita
dei rustici nasconderebbe, secondo Basile, la “sottaciuta aspirazione” che sia
“civilmente redenta”[56].
Dove, dunque, Lanza aveva fallito con i bozzetti pedagogici dell’Almanacco, ora poteva riuscire con i
mimi, che veicolavano gli stessi messaggi in un linguaggio e in un tono
narrativo che poteva essere meglio compreso dai destinatari. Il senso
dell’operazione autoriale ed editoriale sarebbe: il contadino, analfabeta o
poco più, leggendo la serie infinita di consigli e raccomandazioni paternalistiche
può avvertire un senso di distanza, mentre leggendosi tra le pagine a volte
crude dei mimi può sentire più viva l’esigenza di migliorare il proprio stato,
per non riconoscersi più in quei ritratti. Il parere di Basile è accettato
anche da Corrado Sofia[57],
che vede nei Mimi un esperimento,
riuscito, per scuotere gli animi e le intelligenze del popolo, attraverso la
comicità e la satira. Lanza aggiunse, secondo Sofia, una “dose di stricnina”
all’impasto che aveva già sperimentato per l’Almanacco, sperando così di ottenere una cura per l’ignoranza più
efficace rispetto alle tante umanistiche descrizioni. Lontano da queste
posizioni è, invece, Salvatore Rossi, il quale ammette che sarebbe facile e
sicuro attribuire al Lanza uomo un’aspirazione a redimere il popolo, così come
descritta da altri, ma non certo al Lanza scrittore dei Mimi. Qui l’atmosfera sembra lontana da ogni volontà di trasmettere
messaggi, se non quello di far ricorso al ludus per vivere e interpretare la
vita; a questo servono quei pregevoli giochi verbali di fantasia che intarsiano
il testo, e che non sono, quindi, più soltanto testimonianza dell’arguzia
siciliana, ma invito al lettore.
Il
suo percorso narrativo è, come già si è detto, così vario e a volte
contraddittorio che spesso la critica si è trovata in difficoltà nel tracciarne
un ritratto. La prosa dei Mimi, in
particolare, ha scatenato una gara alla ricerca dei modelli narrativi di
riferimento. C’è chi vi sente almeno “l’eco di modulazioni tipicamente
verghiane”, pur ammettendo la visibile ricerca di un modello narrativo tutto
suo[58].
Giuseppe Cottone fa qualche passo indietro fino a vedere più affinità con i Dialoghi delle cortigiane di Luciano,
anche per la testimoniata familiarità di Lanza con l’autore greco. Quei
dialoghi, a parere di Cottone, “oltre alla vivacità e procacità, ci danno con
la loro brevità il senso immediato di scene tolte dalla vita intima ed anzi
addirittura sorprese sul fatto”[59].
I Mimi “anche nel loro tono
popolaresco sono dentro lo spirito raffinato della cultura dell’autore, come i Dialoghi di Luciano sono dentro lo
spirito raffinato della letteratura comica menandrea”[60].
Se di realismo bisogna parlare a proposito dei mimi, bisognerà rintracciarlo
nelle atmosfere in cui si svolgono i fatti e si muovono i personaggi, piuttosto
che in essi stessi; il mondo descritto era quello che Lanza ben conosceva, le
campagne, i paesini, i borghi con i loro rituali, le ristrettezze, i luoghi
comuni. La vena lungo cui scorrevano la sua foga creativa e la sua ispirazione era,
come ribadiva in una sua lettera, folkloristica, popolaresca, sorniona; si
diceva attratto da un umorismo azzardato e denso. Zago, nel tentativo di meglio
comprendere l’attività letteraria di Lanza e la genesi dei Mimi, ritiene si debba considerare la situazione dei ceti medi
intellettuali usciti dall’esperienza devastante della guerra, con
l’irrequietezza e il disagio sociale che spesso si ritrova anche nella
biografia lanziana. Partendo, dunque, da questa condizione ‘originaria’ di
disagio si noterà meglio “l’intenzionalità mitopoietica, piuttosto che
realistica, dell’idea di Sicilia elaborata da Lanza...la cifra decadente o
meglio novecentesca del suo primitivismo e del suo classicismo”[61].
Zago rintraccia, ancora, “nell’epica capovolta e beffarda, sboccata e plebea”
dei Mimi “l’ambizione di risolvere il
dissidio con la realtà in favola, in idillio e in allegoria”[62],
usando le stesse parole che Lanza usò per descrivere la poesia del Meli. La
ricerca di modelli più o meno evidenti non deve, però, far dimenticare
l’assoluta originalità della scrittura di Lanza, che, soprattutto nei Mimi, sa giocare con una materia
fortemente regionalistica, paesana, generando un sorprendente ed inedito corto
circuito, grazie all’uso degli artifici retorici della cosiddetta prosa d’arte,
ed arrivando “ad esiti espressionistici degni del Tozzi di Bestie”[63].
Anche Leonardo Sciascia si è cimentato nella ricerca di modelli plausibili. In
un suo articolo del 1968, raccolto insieme ad altri nel volume “La corda pazza”
e intitolato “Note pirandelliane”[64],
Sciascia narra un episodio che appartiene al vissuto artistico dei due autori
siciliani. Lanza inviò due brevi racconti, “Il buco” e “All’ombra”, tra quelli
che intorno al 1921 andava scrivendo, a Pirandello per averne un parere. Noi non
conosciamo il risultato della lettura di quelle storie ma già i titoli, secondo
Sciascia, hanno assonanze pirandelliane da Novelle
per un anno, e quindi dovevano essere passibili di buona accoglienza da
parte dell’agrigentino. L’assonanza è più evidente in particolare ‘nel
nocciolo’ di certe novelle, quelle che diventarono o potevano diventare teatro;
cita, ad esempio, “La verità” o “La patente”, e tutte quelle novelle in cui il
nocciolo si può ridurre a poche battute, quindi alle dimensioni del mimo. I due
scrittori condividevano, poi, una sorte per certi versi comune: la scomoda
posizione di non essere compresi nei vari cataloghi chiusi dei critici
letterari, dato che per entrambi sembrava non esistere uno schema adatto a
contenerli e rappresentarli. L’episodio narrato non esaurisce, però, la ricerca
di possibili precedenti o riferimenti letterari. Sciascia vede una parentela,
in quanto diretta emanazione della tradizione orale del popolo siciliano, con
un’opera di autore anonimo del Settecento pubblicato nel 1885 da Pitrè, che ne
aveva ritrovato il manoscritto alla Biblioteca Nazionale di Palermo. Il titolo
completo dell’opera è Avvenimenti faceti
per mantenere in amenità innocente le oneste recreazioni raccolte in diverse
città e terre di questo Regno, titolo che potremmo attribuire con i dovuti
aggiustamenti anche ai Mimi siciliani,
i quali altro non sono che fatterelli, avvenimenti faceti appunto, che
potrebbero provenire dalla diretta voce del popolo. In quest’ottica si potrebbe
meglio apprezzare una genesi comune ai mimi e alle novelle pirandelliane. Alla
base di entrambi c’è un avvenimento faceto di tradizione o cronaca locale che
funge da spunto; poi, però, Pirandello ne svela il lato doloroso e assurdo,
Lanza, invece, il ridicolo e l’assurdo. Tornando al manoscritto, Sciascia
chiarisce che può rappresentare un precedente immediato per noi, ma non lo fu
per Lanza. La materia di base delle due opere era, per la maggior parte,
tradizionale, non solo in Sicilia, ma in tutta Italia, Spagna e Francia; si trattava
di una regionalità divenuta universale: una sequenza di fatterelli, aneddoti,
facezie che possono essere avvenuti ovunque o in nessun luogo, ma che passando
di bocca in bocca e di paese in paese, acquistano volta per volta colore
locale. Tutto ciò non serve a suggerire che quest’opera o altre possano essere
servite a Lanza come fonte diretta; in effetti, poco importa se quelle
storielle le abbia ricreate o inventate del tutto, poiché nel momento stesso in
cui vi diede forma letteraria e le localizzò, colorandole con i toni delle
campagne riarse dell’ennese, le rese uniche. L’autore degli Avvenimenti faceti, peraltro, conserva
nel suo linguaggio narrativo le forme del dialetto, senza preoccuparsi, però,
di stile o lingua e questo non accade mai nel caso di Lanza, che cura i suoi
testi da ‘malato di letteratura’ qual era.
È
il caso di accennare che la ricerca di riferimenti letterari è stata almeno in
un caso portatrice di un duplice effetto, positivo e negativo. Ci si riferisce
all’accostamento suggerito, o imposto, da Soffici con i Mimiambi di Eroda,
che ha aiutato il libro lanziano ad avere una maggiore e più evidente
distribuzione, ma ha portato, d’altro canto, a molti fraintendimenti, nella
ricerca a tutti i costi di somiglianze e derivazioni, tutte da verificare: per
questi motivi vi sarà dedicato uno spazio maggiore, nei capitoli successivi.
Protagonisti
di queste storie sono, come già detto, i contadini e i paesani dei piccoli
centri siciliani (raramente si chiamano in causa i cittadini e solo in un paio
di storielle i ‘cugini’ calabresi). Essi sembrano non possedere nomi propri e
vengono indicati con la generica definizione del paese d’origine. Questo
particolare farebbe pensare, ad una prima lettura, che possa esserci una
corrispondenza facile tra il paese e il vizio o l’abitudine rappresentata, in
realtà proprio l’impersonalità dell’indicazione data dal toponimico fa pensare
piuttosto che quelle scelte fossero del tutto casuali o comunque dettate da
necessità letterarie. Calvino nota, nella sua introduzione ai Mimi del 1971, che anche a chi legge per
la prima volta quelle pagine, “avulso da tutti i contesti”[65],
è chiaro che quella geografia è solo apparentemente reale; in realtà Lanza ha
dilatato in tanti paesi quelle caratteristiche che in ogni cultura popolare e
provinciale vengono attribuite ad un generico paese degli sciocchi. Inutile,
quindi, cercare di rintracciarne indicazioni etno-geografiche anche
lontanamente attendibili. Lanza, dunque, mette
in scena la stupidità, mantenendola però a livello aneddotico, non cercando il
dramma, che sarebbe scaturito dall’incontro-contrasto con l’intelligenza.
Questa fu, probabilmente, una scelta dell’autore, il quale, di certo, aveva a
disposizione entrambe le strade offerte dalla tradizione popolare. Se tra
astuzia e sciocchezza scelse quest’ultima lo fece, come sottolinea Rossi, per
un senso profondo del ritmo narrativo, che lo guidava per i sentieri che meglio
corrispondevano alla sua prosa limpida e mossa. I personaggi sono, così,
tracciati con una tecnica quasi pittorica, con rapide pennellate
espressioniste, “tra la sbalordaggine e lo sbalordimento”[66].
Leggiamo
del cervello fine del contadino siciliano, dell’astuzia e malizia della donna, del compare pronto ad
approfittare di ogni attimo di distrazione, di chi sbeffeggia e di chi accoglie
la beffa: insomma di un mondo fatto di gente che ha mantenuto nel tempo i
caratteri intatti di una civiltà ancora lontana dal peccato originale o che ne
ignora l’esistenza.
Ogni
storiella fa perno su un protagonista, che, seguendo Calvino, potremmo definire
comico, ossia colui del quale si ride, e che è indicato da un toponimico: il
piazzese, il carrapipano, ecc. Proprio sulla presenza di quell’articolo
determinativo gravita, secondo Calvino, tutta la violenza denigratoria,
“strumento di una interminabile faida dei poveri”[67].
Si può immaginare, infatti, che la vittima di turno abbia la sua rivalsa
immediata raccontando una storiella altrettanto denigratoria nei confronti del
confinante, entrando così in un circolo vizioso, che è inteso a ristabilire un
equilibrio, ma “a un grado sempre più basso”. Oggetto dello scherno, però, come
evidenzia ancora Calvino, non è mai una colpa o un peccato ‘attivo’, quanto
piuttosto una ‘mancanza’. Lanza, quindi, non avrebbe intenzioni moralistiche,
non gli preme sottolineare come ad ogni colpa corrisponda un castigo; vuole
solo esporre o proporre al divertimento dei suoi lettori delle piccole
mancanze, che possono suscitare il riso. In quest’ottica, allora, si dovrà
leggere la stoltezza di certi suoi protagonisti come mancanza d’ingegno, le
corna come mancanza d’onore o di valore sessuale da parte del malcapitato, la
lussuria come mancanza di pudore (quasi sempre riferito alla donna) e la
blasfemia (o ignoranza sacrilega, come la chiama Calvino) come mancanza di
civiltà religiosa.
Le ‘mancanze’ sopra elencate costituiscono solo una parte delle tematiche
affrontate nei 106 mimi; a volte un mimo ci offre spunti per capire la visione
da parte dell’autore di una sola tematica, più spesso i temi si intrecciano
sullo sfondo appena visibile della natura. Si leggerà di natura, con i paesaggi
sfumati e un campionario zoologico in evoluzione; di sesso, corna e triangoli
amorosi; di religione rivista e corretta alla luce del primitivismo dei
protagonisti; dei compaesani di Lanza e dei più vicini avversari nelle contese
di paese, i piazzesi; di ladri e poveri; di morte; si leggeranno, infine, mimi
molto brevi, composti di qualche battuta, quasi da barzelletta e, sul versante
opposto, pagine venate di sottile e lirica malinconia.
Il
rapporto con la natura nei Mimi siciliani
è fondamentale e fondante, perché è nella natura che vivono immersi i
protagonisti. Se si guarda a tanta parte dei giudizi critici precedentemente
citati, essa dovrebbe, quindi, avere spazio e risalto unici all’interno
dell’economia dell’opera. E così è, ma secondo modi e atteggiamenti che a volte
sembrano suggerire il contrario. Calvino, nella sua introduzione ai Mimi del 1971, definisce quel rapporto
“all’insegna della sottrazione”; sottrazione di aggettivazioni, di descrizioni,
di sottolineature. Il paesaggio, più di tutti, non è quasi mai descritto,
semmai evocato, e in questa evocazione sta la misura della grandezza di Lanza
prosatore. Egli riesce con pochi elementi, quasi dei suggerimenti scenici, a
tracciare quadri di grande atmosfera ed efficacia, tanto da far sentire e
vedere la natura anche quando essa non è ‘sulla scena’. Il dettato estremo e
paradossale che caratterizza buona parte dei mimi investe anche la natura, o
meglio la percezione che di essa hanno i protagonisti dei mimi. Basta una luce
di traverso o il buio pesto, un paesaggio innevato o arso dal sole e la
fantasia linguistica dell’autore per far sì, ad esempio, che un’upupa diventi
pernice:
Una volta che il raddusano stava
con lo schioppo fra le gambe aspettando le mosche, vide volarsi incontro una
pernice.
Come prima
gli venne lasciò partire il colpo, e quella cadde; ma corso a prenderla, invece
di una pernice era un’upupa.
Andato a
casa, se la mangiò come pernice; e dopo, tutto lieto del bel colpo, lo contava
in piazza.
-
Lo sapete? Ho ammazzato una pernice ch’era anche
un’upupa.
Il
raddusano non rappresenta certo un modello per tutti i cacciatori che consumano
le scarpe per andare alla ricerca di una preda; lui aspetta, in un ozio che a
volte risulta produttivo, e, infatti, ecco venirgli incontro il pasto, che sia
upupa o pernice a quel punto poco importa.
Il
trasformismo ricorre ancora nelle pagine di Lanza:
Una volta
il barrafranchese se n’era ito a caccia, col trombone alla sgherra; e dopo
lungo girare per monti e per valli capitò sotto una ficaia mora, vasta e
frondosa; e c’era in cima nel folto un fico come una melanzana.
Al muovere
delle foglie pareva che quello spiccasse il volo come una merla, e quindi
ristava; e poi daccapo, sicché si vedeva e svedeva, senza mai si svelasse del
tutto.
Col
batticuore, il barrafranchese spianò l’arma; ma non essendone mai certo, prima
gridò:
-
O tu, sei un fico
o se’ merla, che tiro o non tiro?
E quello
zitto.
E lui, più
forte:
-
O tu, ti dico, sei un fico o se’ merla, che tiro o non tiro?
E quello
zitto.
Allora il
barrafranchese chiuse gli occhi, e premendo il grilletto gridò:
-
O fico o merla, tirritùmpete ‘n terra!
E della
trombonata rintronò la valle.
Il rapporto con la natura del paesano e del contadino, che pur ne è
circondato quotidianamente, è all’insegna della confusione, dell’incerto,
dell’ambiguità. Si è visto un’upupa diventare pernice all’occorrenza, per non
dover affrontare la fatica della ricerca di una preda più appetibile; un fico
sembrar merla a causa del sole e della frondosità della pianta; e ci sono anche
civette che appaiono pasti miracolosi ai calabresi persi in pieno inverno nel
bosco. Ma la bestia con cui il villico sembra avere un rapporto, diciamo così,
più diretto, quasi da pari a pari, è l’asino. Animale per tradizione stupido e
testardo, si rifiuta di obbedire agli ordini dell’aidonese, il quale non si fa
certo pregare e lo sfida a testate finché all’asino non resta che dichiararsi
vinto e il villico può esclamare: “Ah, minchione! Tu puoi vincermi benissimo
per giudizio, ma in quanto a testa non me la fai: l’ ho più dura della tua”. Ed
è sempre l’asino a mostrarsi inaffidabile e a diventare traditore anche davanti
a patti per lui favorevoli; ne sa qualcosa il barrafranchese che chiede il suo
aiuto per catturare dei falchetti, promettendo in cambio una parte del bottino,
ma quello cade giù dal dirupo: “Ah, traditore [...] e che hai guadagnato non
mantenendo il patto? Né io né tu abbiamo i falchetti”. Altri sono i
rappresentanti del mondo animale che mancano di rispetto al villico: i granchi
si ‘slegano’ per sfuggire al barrafranchese che con tanta cura li aveva legati
ad un filo d’erba; il gallo non canta e fa perdere ai gibbisoti a “chi il lavoro
chi l’ozio”; la lepre distrae dagli obblighi coniugali il caterinaro,
rovinandogli i cavoli, e così via.
Gli
episodi divertenti o assurdi fanno compagnia, però, a quelli ammantati di sorda
ferocia o, comunque, caratterizzati da un rapporto degradato, “brutalmente
rapace e sordidamente possessivo” con la natura, lasciandoci le immagini di un
“universo contadino anti-bucolico [...] in via di avanzata decomposizione”[68].
Lo scrittore si era nutrito della natura isolana, ma la foga delle sensazioni
si era tradotta in pagine essenziali, evitando le descrizioni romantiche ed
ornate del paesaggio. Si leggano i mimi che hanno per protagonista la luna,
ispiratrice in tanti altri scrittori di pagine elegantemente nostalgiche e
sognanti. Due mazzarinesi “imbriachi fino alle nasche” arrivano a scambiarla
per il sole e il barrafranchese alla fine uccide l’asino che gli aveva
sottratto la luna, quella luna “valorosa, che luceva come giorno chiaro, e si
specchiava tutta in fondo all’acqua, che pareva un timballo d’argento”. L’asino
continua a bere l’acqua dal pozzo in cui la luna si specchiava, e, al giungere
di una nuvola che la copre, il contadino urla:
- Vomita la
luna che mi bisogna, o t’ammazzo.
Tante
gliene diede che l’ammazzò davvero; e mentre l’asino stirava le cuoia, la
nuvola si tolse lesta d’innanzi alla luna, e quella subito ritornò in fondo
all’acqua, bella lucente; e lui tutto soddisfatto:
- Ah, l’
hai intesa ora la ragione? Ben ti stia, che sei morto come un ciuco che sei. Di
te, io n’ ho quanti ne voglio alla fiera, ma la luna era una, e se non la
vomitavi, i’ restavo al buio ora che n’ ho di bisogno.
L’uso di metafore alimentari e la
violenza interrompono bruscamente la descrizione nobile per riportare tutto
alla cosmologia degradata e ‘commestibile’ di cui parla Di Grado. Le metafore,
nella descrizione di un paesaggio, aiutano anche a rendere più visibile un
particolare: nel mimo sul pizzo di Pollina, “che è davanti come un cetriolo” e
che faceva ritardare il sorgere del sole, gli abitanti cercano un rimedio,
volendo “lasciarlo intatto per delizia dei luoghi”, e “chi diceva di buttarlo
giù con picchi e con pale, chi di tagliarlo con uno spago come una ricotta, chi
di rompergli il capo come a una nacchera”; alla fine decisero di tirarlo via
con una fune “e sono ancora là che tirano”. O si veda anche il mimo seguente:
Il
catanese, andatosene la mattina per pescare, trovò che al mare c’era la nebbia;
e non sapeva che farsi.
-
Mamma mia - andava dicendo - che c’è la nebbia, e non so dove buttare le
reti, e perdo il guadagno.
E la
moglie:
-
Sentite che facciamo marito mio; con lo staccio
buttiamola di là alla costa, che se ne vada alla piana.
E così
fecero tutt’e due con lo staccio come fosse farina, e quando la nebbia se ne fu
andata, dicevano soddisfatti:
-
Lo avete visto, che se non era per lo staccio sarebbe
ancora qua?
Non
mancano, tuttavia, mimi dove la descrizione nostalgica o amorevole dei luoghi
prende il posto delle assurdità. Si noti nel mimo che segue, intitolato
“L’Angelo di Dio”, la contemplazione rapita di una natura amica e benevola e
quasi ‘divinizzata’. Un barrafranchese va a vedere come cresce il suo campo,
che “già spigava, più alto d’un uomo, e a quel venticello faceva le onde come
il mare, fitto e lucente”. Parla al campo, sicuro che quell’anno gli renderà
molto, e sente una ‘risposta’:
Vuoi vedere, così bello com’è che quest’anno
va più valoroso che mai, e mi fa sei salme di frumento più dell’oro?
Nel mentre,
il chiù che s’era assettato sull’olmo, aprì il becco e gli rispose:
-
Più!
-
Per Sant’Alessandro - gridò lui con gioia - questo è
l’Angelo di Dio che mi risponde, e dice che m’ha da fare di più. E quanto
allora, otto salme?
-
Più, più! - rispose quello.
-
E bravo l’Angelo di Dio! - diceva lui - E quanto
allora, che mi conforta: dieci?
-
Più!
-
Dodici?
-
Più!
E così
restò tutta la notte, lui a crescere e l’altro a fare più più.
Nelle
rare descrizioni di paesaggi spicca quella del mimo “L’augello crudo”, che pur
si conclude in modo violento, con il comportamento brutale e istintivo
dell’uomo, ma per una volta quasi giustificato dalle condizioni della natura
che lo ospita:
Nel più
crudo verno, due calabresi, venuti in Sicilia per lavorare con l’accetta, si
smarrirono in un bosco. Il freddo era grande e la neve copriva tutto dovunque;
ed essi meschini vagavano qua e là senza rifugio e conforto, e saettati dalla
fame, che non avean nulla con sé. [...]
Guardarono
che c’era un olmo con dei rami secchicci, e il primo vi salì su e con l’accetta
li faceva cadere; e l’altro intanto accendeva un focherello battendo l’acciarino.
In quella,
con istrepito una civetta volò e venne a posarsi in cima all’olmo ov’era il
calabrese.
-
Ah, compagnello – gridò l’altro con gioia – sali tosto
alla cima a prendere l’augello. [...]
Il
calabrese lasciò andare l’accetta, e di gran lena cominciò a salire; ma come
arrivò alla cima la civetta aprì l’ali e se ne volò via; e lui dietro per
prenderla; e arrivò a terra freddo di colpo.
Il
compagno, non sentendolo più fiatare, andò a smuoverlo con un piede, e vistagli
la bocca piena di sangue:
-
Ah, malnato! – esclamò. – Solo mangiasti l’augello
crudo per non darne a me compagnello, e il sangue l’hai ancora alla bocca. Ma
se vuoi fuoco, prima sputa la mia parte.
E poiché
quello non rispondeva nulla, se ne andò solo dove lo portarono i piedi.
Ancora
più rappresentativo della parte lirica ed evocativa della prosa lanziana è un
altro mimo, “Il prizzitano”, che descrive l’avventura forzata dell’emigrazione
di tanti siciliani e delle loro condizioni:
Il
prizzitano, non sapendo come sbarcare il lunario a casa sua, se n’andò fuori
via, di là dal mare; ma vedendo ch’era peggio di prima, pensò di tornare, e per
pietà s’ebbe un posto sur un naviglio.
Il viaggio
era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto all’acqua e al vento intirizziva
come una foglia. Or finalmente una notte che il freddo era più crudo,
avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere.
-
Ah – esclamò egli allora, stendendo le mani di là per
scaldarsi – ora sì che a questo fuoco mi sento ricreare!
La
natura in Lanza non è, però, solo cosmo, ossia qualcosa di esterno all’uomo, ma
è una parte dell’uomo. Questo è il parere, ampiamente condiviso, di Italo
Calvino, che in questo modo introduce nel suo commento ai Mimi la parte dedicata a quelli di contenuto erotico. In questi
mimi, che saranno trattati più avanti, è evidente una differenza essenziale
rispetto a quelli che vedono protagonista la natura: le descrizioni sono
accurate e divertite, anche quando si tratta degli organi sessuali. La natura,
intesa come flora e fauna, interviene con autorità per fornire metafore e
similitudini alla fantasia verbale dell’autore.
La componente erotica
caratterizza tanta parte della raccolta di mimi. Alcuni critici, tra essi
Salvatore Rossi, considerano questi come la parte meno interessante, perché l’
“irriverente, beffardo, ironico e libertino” che Sciascia aveva indicato come
caratterizzanti il Lanza dei mimi erotici, si limita al livello lessicale e
rende quei mimi tra i più freddi o, comunque, i meno interessanti.
Interessante è, invece, il modo in cui quella materia è trattata da
Lanza, che avrebbe potuto approfittarne per comporre mimi superficiali e
distratti dal punto di vista stilistico, ma che, invece, si applica anche nella
scelta dei vocaboli, delle metafore, delle similitudini giungendo ad esiti
espressionistici notevoli.
Già
Calvino, si è detto, nell’affrontare questa parte, si è riallacciato ai mimi
aventi per protagonista la natura, e non a caso. Il sesso è raccontato in modo
semplice e naturale, senza nasconderlo dietro i veli peccaminosi voluti dalla
religione. Dietro quei racconti c’è l’uomo “liberato dal peso del quotidiano e
immerso nel trionfo di una bonarietà istintiva come unica valenza della gioia
del vivere.”[69]
Esemplare il mimo “Le gambe dei lercaresi”:
I
lercaresi, essendo in festa, se ne andarono in campagna a prendersi spasso; e
buttatisi a frotta su di un prato, mangiarono, bevvero e si sdraiarono alla
rinfusa come loro meglio piacque.
Ma al punto
d’alzarsi, al vedere tutte quelle gambe mischiate, di maschi e femmine, ognuno
nella confusione non conosceva più le proprie, e facevano a gara:
- O quali
sono le mie? e le tue? e cotesta di chi è? Ahi, che a me ne manca una!
E sono
ancora là che se le cercano.
C’è,
poi, una sorta di animalizzazione del comportamento umano, intesa come
manifestazione di puro istinto, e di vegetalizzazione nell’onomastica sessuale,
che ci riporta al mondo primordiale, libero dal peccato originale o privo della
coscienza di esso, di quei villici. Bastino pochi esempi: c’è la moglie del
calascibettese che ha “il petto di faraona”, o la Maddalena “bella e pettuta
come una colomba”, e a seguire tutti i termini per indicare il sesso femminile
e quello maschile, che viene anche coltivato in campi benedetti addirittura da
S. Pietro.
Un giorno
trovandosi San Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo
lo andava seminando:
- O che semini? – gli domandò.
E quello:
- Minchie, per chi non ne ha.
- E minchie
sieno – disse San Pietro, facendoci sopra la benedizione.
E alla
stagione infatti il campo produsse in abbondanza grandi minchie e rigogliose; e
fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non
bastava più.
Lanza, come riferisce Corrado Sofia, nel rileggere certe pagine dei suoi
mimi, sembrava preoccupato di aver troppo insistito sull’argomento; sfumare i
termini o le situazioni raccontate avrebbe fatto perdere, però, gran parte
dell’‘effetto reale’ che quelle storie popolari, per origine e tema,
contenevano.
Al
centro di molte storie c’è il triangolo formato dal marito, la moglie e il
compare e tra i tre il perdente è sempre il marito, in un alternarsi di tresche
e tradimenti. In questi mimi, però, non avviene mai quello che ci si aspetta.
La scoperta del tradimento, delle famigerate corna, non sfocia mai in tragedia,
ma sfuma in riso; la gelosia, quando insorge, è timida e diventa subito
occasione di chiarimenti liberatori e di gestualità esilaranti. Si veda, ad
esempio, il mimo “Il mistrettese”:
Una volta
che il mistrettese era tornato per la vicenda, bisticciò con la vicina; e
quella, con le mani sui fianchi, si mise a sbraitargli contro ch’era becco e
ribecco e che sulla sua casa, mentre egli pasceva le pecore, ci spuntavano
corna fitte più della gramigna.
Il
mistrettese corse a lagnarsene con la moglie, che quello non era il modo e la
maniera:
-
Lo sentite, moglie mia, come dice la vicina, ch’io son
becco e ribecco e che sulla mia casa, mentre conduco le pecore, ci spuntano
corna fitte più della gramigna?
E la
moglie: - Ah, vi ha detto così, marito mio? Aspettate che ci penso io.
E fattasi
sulla porta, si mise a sbraitare contro la vicina, anche lei con le mani sui
fianchi:
-
Che importa a voi se mio marito è becco e ribecco? Se
egli lo è, vuol dire che a me piace così. Forse le corna gliele piantate voi
sulla fronte? S’io l’adorno, certo è che gli stan bene. Sì, becco ei c’è stato,
c’è e ci sarà, e voi non vi ci dovete immischiare!
E
voltandosi al marito:
-
Siete contento, marito mio? Avete inteso quante gliene
ho dette?
Spesso a riscuotere dal torpore il marito cornificato non è tanto la
scoperta o la confessione del tradimento, quanto piuttosto la preoccupazione
che di quell’evento non resti traccia visibile: quella sì sarebbe la vera
vergogna! Ecco allora la capaciota che vuol verificare se ciò che le dice il
marito è vero:
Il
capacioto diceva sempre alla moglie:
-
Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in
fronte come un becco, e la vergogna è vostra.
Quella
[...] per sospetto che non fosse una burla e per la curiosità insieme, volle
tuttavia provare, e ogni volta gli guardava zitta la fronte.
Ma prova e
riprova, cotesta gli restava più liscia di prima; e gli fece stizzita:
-
O che mi contavate dunque di corna e non corna, marito
mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e ancora non vi spunta manco il
bozzo.
A volte, invece, è l’ingenuo marito a cercare le prove del misfatto, per
verificare se ciò che si dice in giro, non sul conto della moglie ma sulla
“stampa” lasciata dal compare, corrisponde a vero:
Al
mazzarinese dissero che sua moglie se la faceva col compare, e che quello ogni
volta ci lasciava la stampa.
Infuriato,
corse a casa minacciando lampi e tuoni, e alla moglie [...] domandò s’era vero
che ci lasciava ogni volta la stampa.
E quella,
facendosi la croce:
- La
stampa, marito mio?o che vi pare che egli sia un gonzo? Se non ci credete,
possiamo fare la prova alla vostra presenza.
Mandò a
chiamare il compare e gli si mise sotto; e il mazzarinese intanto aspettava con
tanto d’occhi aperti per non lasciarsi imbrogliare; [...] vedendo che tutto era
meglio di prima, tornò lieto e sereno:
- O che mi
andavano dunque contando che ci lasciava ogni volta la stampa, se qua non c’è
niente e anzi così si coltiva senza che io mi prenda fastidio?
Re
Guglielmo in persona mette, invece, lo scompiglio in casa del troinese,
emanando un bando per cui tutti i cornuti devono indossare il cappuccio a
pizzo. Niente di più visibile e, così, tornato a casa, il pover’uomo chiede
conferme alla moglie, che ben lieta gli assicura la sua fedeltà, dopo aver
ampiamente inveito contro il re, ma alla fine: “Sentite, marito mio, per il sì
e per il no mettetevelo anche voi il cappuccio a pizzo, e così leviamo
l’occasione.”
È
curioso il fatto che, parlando di corna, il cornuto è sempre indicato con il
nome del paese d’origine, mentre il cornificatore mai. Egli non dà il titolo al
mimo, dunque, ma, anche dove non specificato, è da intendersi come appartenente
al paese rivale. Il titolo, se le intenzioni dell’autore sono chiare come
sembrano, deve rappresentare chi si fa interprete di una ‘mancanza’, quindi
colui al quale manca la virilità o l’onore, seguendo i suggerimenti di Calvino;
è chiaro, quindi, che il protagonista, seppur involontario, è il cornuto.
Continuando questa linea di ragionamento, appare chiaro che l’indicazione del
nome geografico non rappresenta certezza di attribuzione di un dato
caratteriale o di comportamento. Se davvero, ad esempio, tutti i mazzarinesi
sono ingenui e cornuti, allora dovrebbe esserlo anche il compare, che si intende
di solito essere compaesano del cornuto. Così non è, come si evince dalla
lettura, e ancora una volta l’indicazione toponimica non aiuta a disegnare
un’ideale mappa dei vizi e dei caratteri.
Anche
al di fuori del triangolo amoroso poco prima citato, la donna resta
protagonista del circuito erotico, come “soggetto attivo e accorta regista”[70].
Di Grado non sa se attribuire ciò ad una superiore intelligenza e mentalità
moderna di Lanza o semmai ad una sorta di esorcismo della paura ancestrale
della donna. Conclude che probabilmente è l’una e l’altra, così che questa
possa aggiungersi alle altre contraddizioni che segnano la vita e l’opera di
Lanza. Resta, nonostante tutto, una patina maschilista su molti mimi, nel
descrivere, ad esempio, certi comportamenti violenti come naturali o, tutto
sommato, ben accetti dalla donna. Si vedano episodi come quelli del mimo “Il
cesarottano”, in cui il marito tornando dal lavoro nei campi assale la moglie spinto dal desiderio: “
[...] buttata la moglie sul letto partì infuriato come un toro. Quella si
spaurì, e ci mise la mano davanti a difendersi; e gli faceva: - Piano e col
modo, marito mio, che così mi sbudellate! E lui tutto focoso: - Levatevi la
mano vi dico, che ve la buco!” E ancora il mimo del licatese, stupratore di garbo, come lo definisce
Calvino:
Un dì il
licatese, colta a tradimento la vicina, la buttò sul letto e partì per il fatto
suo.
Quella se
la prese a rispetto, e gli andava facendo:
-
O che malcreanza è questa con mia signoria? Non lo
sapete che alla porta chiusa si bussa e alla casa d’altri si domanda permesso?
E lui:
- O non vedete che per entrarci mi sberretto?
C’è,
poi, il mimo “Il mezzo pane” che mette in scena il microcosmo conflittuale di
un matrimonio, in cui la privazione e l’incomunicabilità vanno di pari passo, e
dove, però, neanche la violenza fa virare i toni verso la tragedia, ma c’è
sempre la risoluzione in riso:
Il
villarosano quando vedeva il lavoro gli sparava di lontano; e la moglie
mangiava fette di fame, [...]
Quella,
meschina, cercava di raddrizzarlo; ma era tempo perso, che se la spassava
invece tutto il giorno alla taverna, coi compagni dell’arte sua.
Una sera
fra l’altre, tornò a casa col vino alle nasche; e come la moglie cominciava la
solita storia, [...] ei si tolse la cinghia, e quella zitta per non ricevere il
companatico.
Andati a
letto, il villarosano se la sentì venire, e partì per il fatto suo; ma la
moglie, [...] lo respingeva [...]:
-
Levatevi di qua, malcristiano che siete! Non mi date
pane, e poi vi frulla cotesto?
E lui:
- O non lo sapete che questo è mezzo pane,
locca che siete?
O ancora si vedano quei mimi in cui la donna è
descritta, negativamente, come lussuriosa: peccato che si può perdonare solo ad
un uomo. Ritorna utile, a questo proposito, ricordare il parere di S. Rossi
sulla definizione di “libertino”, espressa da Sciascia a proposito di Lanza.
Rossi spiega che, confrontando ciò che si sa sulla biografia dello scrittore
con ciò che traspare dalle pagine dei suoi mimi, appare evidente che Lanza non
dà mai una rappresentazione della donna totalmente reale; è, piuttosto, legato
ai due miti dell’immaginario maschile, la donna-angelo e quella assatanata,
e questo rivelerebbe la paura, nel fondo, della donna reale. L’appellativo di
libertino, dunque, si potrà attribuire a Lanza, sempre secondo Rossi, solo
nella misura in cui si ammetta che in ogni Casanova c’è l’oscura paura
dell’impotenza. Quest’ultimo tema, in effetti, fa la sua comparsa tra le pagine
dei mimi, nell’episodio intitolato “Lu ma”: un padre dà in sposa la figlia a
quello che tutti dicono un buon partito, se non fosse per “lu ma”, ossia
l’impotenza. Grandi pianti e disperazione fino all’epilogo chiarificatore e
positivo. Questo mimo ha fatto compiere a Sciascia un parallelo, seppur cauto,
con il Brancati del Bell’Antonio. Sono tanti, dice Sciascia, i mimi in
cui si agita il gallismo, e, chissà, forse fu proprio Lanza a suggerire a
Brancati certe atmosfere e malinconie erotiche. La differenza, sostanziale, è
che ciò che in Brancati porta il protagonista, la sua famiglia, il suo mondo a
precipitare fino all’annientamento, in Lanza si risolve in balli e riso.
Alcuni
mimi non devono, però, ingannare, perché resta il sospetto che dietro e
nonostante certi di essi, ci sia la percezione nell’autore e, forse, anche in
tutti coloro che quelle storielle raccontavano prima di lui, che sia sempre e
comunque la donna a tenere le redini nel gioco erotico, che sia essa maliziosa
e astuta o ingenua e istintiva. C’è in questi mimi un mondo “tra stoltezza e
finezza d’ingegno, tra dabbenaggine disarmante e accorata malizia, che fa di
tutto per portare alla ribalta una situazione carica di sottintesi e di rimandi
a cui la falsa ingenuità dà un sicuro taglio caratterizzante.”[71]
La
nicosiana, che è che non è, se la fece col compare; e tutte intorno a
domandarle:
-
O come fu, comare? Insegnatelo a noi, che non siamo
pratiche.
E quella:
-
Lo volete sapere?Venne il compare e si mise a
toccarmi, e io lo lasciai fare dicendo: - vediamo che vuol fare il compare.
[...] Poi mi montò addosso, e fece quel che giusto gli parve; e quando finì io
finalmente ne fui accorta, e gli domandai spaventata: - O che avete fatto
compare?- E lui: - E che ne so io? Ho voluto sentire come eravate di sapore; e
siete più dolce della pasta di casa, e me ne congratulo con vostro marito.
All’ingenuità
recitata con naturalezza dalle comari “non pratiche”, fa seguito come
conseguenza logica quella della nicosiana, che, pur sposata, non si avvede subito di quanto accade, e anche quella
del compare, più spregiudicata, perché all’atto ‘inconsapevole’ fa comunque
seguire i complimenti per la donna e per il marito. Si legga anche la giovane
malizia della villarosana, in una storiella che ancora oggi, riveduta e
corretta, si racconta:
La figlia
della villarosana, essendo nel fiore, non ci stava più ferma sulla seggiola e i
suoi occhi addosso agli uomini erano come una nassa di pesci.
Or quando
veniva in casa il vicino, la madre, che anche lei c’era passata, le
raccomandava:
-
Figlia mia, non ti far toccare dal vicino; e se ti tocca,
dillo a me.
Quella
andava a sederglisi accanto, e pungendolo gli faceva:
-
Vicino mio, toccatemi toccatemi, che mia ma’ non
vuole, e io ne muoio dalla voglia.
E come
quello la toccava, si metteva a gridare:
-
Mamma, il vicino mi tocca!(toccatemi, vicino,
toccatemi, che mi piace e l’ho detto alla ma’).
L’ingenuità non è solo donna, ma appartiene anche all’universo maschile,
anche se in questo caso si può più opportunamente parlare di dabbenaggine. C’è
una schiera di mariti creduloni, che, a volte, si credono anche furbi,
mettendosi così ancora più in ridicolo: come il calascibettese, che diceva alla
moglie di non potersi certo accorgere se lo tradiva alle sue spalle, ma di
essere troppo furbo per non accorgersi di un suo tradimento sotto gli occhi:
Ma
una volta ch’erano in campagna col compare, come [...] montò sulla mula, la
donna si buttò a terra, e torcendosi andava gridando che prendeva aria da tutti
quei buchi e se non glieli tappavano con arte sarebbe certo morta.
Il marito non poteva certo scomodarsi a scendere dalla mula e dà ordine
al compare di ovviare al problema, che ben felice assolve il suo compito,
rendendo felice anche il calascibettese che così non si era ‘scomodato’. C’è,
poi, chi, tornando a casa dopo assenze lunghe anni, trova la famiglia aumentata
e accetta di buon grado le spiegazioni che la moglie gli fornisce:
-
Te’, te’ – faceva meravigliato- e chi ve l’ha fatto cotesto,
che l’ha come suo pa’?
-
Voi, marito mio, che partendo mi lasciaste la buona volontà,
e l’assommai a memoria.
-
E brava la buona volontà! E cotesta che vi succhia la poppa,
[...]?
-
Le vostre brache, marito mio, che lasciaste appese al chiodo.
Io me le misi pensandovi, e a’ nove mesi schizzò fuori come la vedete.
E
lui: - E brave le mie brache, che san fare prodezze, più che ci fossi io dentro
col necessario.
C’è, poi, l’aidonese, che, dopo aver chiesto il permesso alla
vicina, “l’assaltò”, ma, “essendo di
primo volo e spratico, ora andava di qua ora di là, senza mai trovare la via
giusta”. La vicina lo accusa di non essere all’altezza, ma lui respinge
l’accusa: “O che ve ne mancava largo di pancia, che giusto l’avete in questo
malpasso?” L’ inesperienza diventa, invece, gioco di seduzione per il riesano,
che, sposatosi con una giovane ragazza, mostra di apprezzare anche la suocera e
si finge inesperto per ricevere lezioni private da quest’ultima. Fin
qui, ingenui, sprovveduti, ma pronti e disposti all’azione; lo stesso non può
dirsi del castrjannese, che ricopre il ruolo sempreverde del siciliano pigro e
indolente, il quale ai preparativi del suo matrimonio fatti dal padre, e
perfino alle preparatorie ed insistenti metafore sessuali, risponde: “O che
devo esserci anch’i’?”
Le situazioni più ricorrenti sono, però, quelle che vedono coinvolti nel
circuito erotico marito, moglie e compare. La moglie è sempre “equidistante tra
marito e compare, due satelliti che le ruotano attorno ma non si scontrano mai,
anzi spesso si allineano su un’inconsueta rotta di collaborazione”[72].
Il burgitano, ad esempio, dovendosi allontanare da casa, teme per la moglie,
che così resta sola nel cuore della notte; per fortuna c’è il compare che farà
compagnia alla donna al posto suo, “che nel letto c’è buio e non (sa) che le
può accadere.” A volte sono necessità contingenti a spingere i due satelliti a collaborare,
come nel caso del caterinaro, i cui campi erano rovinati da una lepre, e che
chiede il cambio al compare per soddisfare la moglie “se no le cascano i
capelli”, mentre lui corre a catturare l’indesiderato ospite. C’è, poi, una
parte dei mimi dedicata al concepimento ‘in tandem’, dove l’uno completa il
lavoro dell’altro per raggiungere un risultato perfetto. Si legga ad esempio il
mimo intitolato “I piedini”, dove troviamo la sanfilippana incinta del marito e
disiata dal compare:
[...]
Or
avvenne che lasciandola incinta il marito partì; e il compare, trovatala un
giorno sola, si mise a guardarla tutto trasecolato, [...]
-
O che ho compare mio, che mi guardate così?
[...]
-
Non v’accorgete, comare mia, che vostro marito ha dimenticato
di fare i piedini al ranocchio che ci avete dentro?
[...]
-
Qua ci vuole uno pratico[...]che gli aggiunga i piedini dove
ci vogliono [...]
A’
nove mesi, la sanfilippana schizzò fuori un figliolo tutto lustro e guizzante
come un’anguilla di fiume, e la prima cosa che fece spingeva qua e là coi
piedini carnosi come salsiccie.
Il
marito, ch’era tornato, se ne andava in sollucchero [...]:
-
Guardate che bei piedini ha il mio figliolo [...]
E
la moglie:
-
Sì, marito mio, come se vostra fosse la prodezza!Voi
dimenticaste di farglieli, e se non era per il compare che glieli aggiungesse a
tempo debito, ora non farebbe così.
E
il marito, guardandoglieli bene da ogni parte:
-
E bravo davvero il compare, che l’attaccatura neppure si
vede!
Anche il palagonese sarà costretto a farsi aiutare dal compare per
mettere al mondo un bel figlio, così bello “che non era cosa da uno.” Il
mistrettese, invece, si ritrova in casa
mobili nuovi, la moglie adornata di gioielli e un figliolino, tutte cose
che non ha fatto lui ma il compare, e, dopo un’ iniziale delusione per non aver
più niente da fare, ringrazia il compare che gli ha fatto un figlio “tutto
somigliante al pa’, per non far perdere la stirpe.”
C’è, poi, una sezione, seppur non vasta, in cui a far da padrone sono i
toni boccacceschi e, a volte, francamente osceni. Tutti, però, assumono
connotazioni irrealmente grottesche che li fanno virare verso l’assurdo,
annullando così l’effetto potenzialmente volgare.
In tutti i mimi, in effetti, “attraverso l’ironia egli trascende nella
metafisica dell’assurdo e ne fa il percorso di una nuova poetica della
narrazione. Tutta la mimografia lanziana è, in fondo, irreale e metafisica”[73];
già nel primo mimo c’è “il grottesco e l’assurdo proposto con naturalezza a chi
legge e ricondotto ad un’anima arguta siciliana che ride di tutto e di tutti
senza prestare grande fede alla verità relativa che si atteggia in vario modo”[74]:
Il
brontese maritava la figliola, ch’era lunga e dritta come una pala di forno. Ma
arrivati alla chiesa, la zita non poteva passare, che la porta era bassa; e non
sapevan come fare [...]
-
Largo, signori miei! – gridò il brontese – che prima deve
passare la figlia! – e lui stesso la spingeva perché passasse, ma le restava
tutta la testa di fuori, lunga e stecchita come avesse inghiottito uno spiedo.
Allora,
chi voleva buttare giù il cornicione, chi sbassare lo scalino, chi tagliare la
testa alla zita e riappiccicargliela dentro; ma non facevano nulla.
In
quella, si trovò a passare l’adernese [...]
L’adernese
alzò il braccio e lasciò cadere come venne una manata sul collo alla zita:
quella calò la testa e passò.
-
Bravo l’adernese! – gridarono tutti – che ha fatto passare la
lunga senza tagliargli la testa.
Ogni mimo è ammantato di ironia e assurdo, ed è un atteggiamento, questo,
che porta a sdrammatizzare o a spogliare dal sacro anche tematiche di area
religiosa. Il sesso è vissuto e raccontato in modo tale che non disdice, ad
esempio, paragonare un seno prorompente ad un altare maggiore (il mimo della
caropipana). In senso più lato, si può citare il mimo intitolato “Il diavolo
del calascibettese”, dove le credenze religiose sforano nella superstizione, e
tutto va a sfavore del solito marito cornuto. Protagonista è il villarosano,
che, lavorando a stretto contatto col calascibettese e la moglie, cerca un modo
per sedurre quest’ultima, gabbando l’attenta guardia che fa il marito:
Passa
ora passa poi, capitò che il calascibettese mostrasse grande spavento del
diavolo che talvolta gli appariva con le corna di becco sulla testa, il viso
affumicato e muggendo come un toro.
Una
notte dunque ch’era buio fitto, il villarosano si aggiustò sulla fronte un gran
paio di corna di becco attorcigliate e ricamate, si affumicò il viso con la
filiggine della padella e muggendo come un toro s’infilò sotto le coperte di
quelli e saltò addosso alla donna [...]
Il
calascibettese atterrito si mise a gridare che fosse; e la moglie di rimando:
-
È il diavolo, marito mio; afferratelo, che ha le corna!
Il calascibettese ubbidisce tremando e sfila le corna al diavolo; se ne
vanta il giorno dopo, imitando il diavolo, e la moglie: “O come vi stanno bene
le corna, marito mio.”
I.3.3 Sacro e
profano
Ci sono alcune storie di area, per così dire, religiosa, che, per il modo
in cui sono narrate, hanno fatto dire a Calvino che si tratti di una sorta di
anti-Vangelo. Con questa definizione Calvino non intendeva riferirsi alla
blasfemia, palese o no, di certe scene, ma al fatto che troppo lontana è la
mentalità del contadino siciliano, troppo avvezzo alle ristrettezze, da quella
cristiana che trasforma la mancanza da disvalore in valore. È chiaro, dice
Calvino, all’ormai disilluso contadino siciliano che gli ultimi non saranno mai
i primi. Solo il piazzese sembra immune da tale rassegnazione, tanto che appena
creato, rivendica un posto più importante e chiede al suo Creatore di farsi da
parte. È questa “una riedizione mimata del racconto della Creazione, [...]
deteriorata dal tempo”[75];
un tempo ad Adamo era servito più tempo per diventare tracotante e sventato,
ora il piazzese dà il meglio di sé appena creato:
Una
volta Gesù, trovandosi a passare di qua, fece d’un ciottolo i castrjannesi e
d’uno zipolo i caropipani; e arrivato dove fu Piazza, prese uno stronzino
d’asino ch’era a terra e lo buttò in aria, dicendogli:
Stonzino
stronzicolo
Parla
piazzesicolo.
Cadde
lo stronzino e rotolò quanto gli parve; e fermatosi finalmente ne sorse su un
piazzese come un piazzese che era. Si sgranchì, si fregò gli occhi coi pugni, e
sputando a terra, gridò al Cristo:
-
Ahbo’, che fai tu costì? Lèvati di qua, che sei nel mio.
E
Cristo dovette passare al largo.
Come si evince dalla lettura di questo mimo, c’è il gusto di parafrasare
racconti d’area religiosa, in cui non c’è nessuna tensione tra umano e divino:
c’è San Pietro che benedice campi dove si coltivano membri maschili; l’assarese
che offre simboli fallici alla statua di Santa Petronilla per avere una grazia,
solo per fare qualche esempio. Quanto alla componente “ferocemente blasfema”,
vera o presunta, Di Grado crede che non si tratti, da parte dei contadini, di un
intento cosciente di opporsi ad un “pensoso e strutturato universo cristiano”[76];
che essi incarnino il Cristo in croce durante le sacre rappresentazioni o
maneggino oggetti sacri, hanno sempre un atteggiamento quasi indifferente, o
stupito, o diffidente, ma mai di aggressione cosciente del simbolo.
È relativamente nutrita la serie di racconti popolari relativi alle sacre
rappresentazioni in uso durante le feste pasquali in Sicilia. In alcuni, il
figurante che impersona il Cristo in croce viene sconvolto e distolto dal suo
ruolo dalle grazie esposte delle Maddalene di turno. Succede al Cristo di
Mezzoiuso e a quello di Santa Caterina.
A
Santa Caterina, il venerdì santo, fecero la Passione: e spogliato il Cristo lo
misero in croce, con ai fianchi una fascia di carta velina, per nascondergli le
vergogne.
Come
calò l’ora, vennero le Marie e a pie’ della croce cominciarono a piangere a
gran voce; e il corrotto era assai. Specialmente la Maddalena, ch’era bella e
pettuta come una colomba, si faceva tenere; con le trecce disciolte e il petto
aperto che c’era l’abbondanza, e se lo stracciava per il dolore.
Ma
il Cristo, che di lassù gli veniva a tiro, a ogni occhiata a quella grazia di
Dio, sentiva stridere e gonfiarsi la carta velina, e la bozza si vedeva di
fuori; e non sapeva come fare.
Finalmente,
non potendone più, per paura di guasto, le gridò di lassù:
-
Mariagrà nasconditi le mamme, se no la carta velina si
straccia!
Non c’è blasfemia in queste immagini, perché, come si è visto nel
paragrafo precedente, il sesso è sempre e comunque un dolce gioco d’istinto,
non c’è peccato per cui chiedere perdono. Il Paradiso terrestre, come ricorda
Lamartina, non fu perso certo per peccati di questo genere, ma per la
presunzione, la tracotanza dell’uomo.
Ci sono, poi, alcuni racconti tessuti sulla “esaltazione di riti
materiali e corporei dissacratori anche del divino”[77],
come capita al Cristo di Mineo o di Petralia; ma anche qui, nessun intento
offensivo o attacco al divino, semmai la sottolineatura del ridicolo che sorge
naturale per l’evidente differenza tra l’originale e la copia. È sempre l’umano
ad essere al centro del dileggio, non il divino; il rappresentante e non il
rappresentato; il riso “erompe dalla scoperta sperequazione tra il divino e
l’umano, tra Cristo vero e fittizio”[78].
I contadini dei mimi vivono la religione e i suoi simboli come se, a
volte, ne ignorassero il senso o lo scopo, o comunque, rinominandoli, dandone
nuove letture e avvicinandoli al loro quotidiano. Esemplari due mimi: “Il
diocotto” e “Il Cristo del castrjannese”. Nel primo, il solito piazzese questa
volta si ammala e la moglie gli consiglia di raccomandarsi a Cristo per
chiedere la guarigione. Quando questa non arriva, chiede l’intervento di un
dottore, perché, dice, “Cristo e San Luca son di legno e non m’hanno udito!
Voglio invece il medico che è vivo e mi sente”. Il dottore a sorpresa, però,
gli prescrive un diocotto.
[...]
la moglie trasse dalla parete, dove c’era da vent’anni, un crocifisso tutto
affumicato e scacato dalle mosche, e lo ficcò nella pentola, facendolo bollire
fino a notte; intanto il piazzese, girandosi su l’un fianco e sull’altro,
andava gemendo:
-
Se Cristo crudo non mi fece nulla, che volete che mi faccia cotto?
E
quella:
-
´Gnornò, marito mio; se il dottore ve l’ha comandato vuol dire che cotto
s’ammollisce, e vi sana. Non lo sapete che Cristo ha la testa dura?
[...]
La
mattina, svegliandosi, egli si sentì sano e sanato, e non voleva crederci;
[...] lo narrava per maraviglia:
-
Avete inteso com’è Cristo, che per fare miracoli ha da esser cotto?
Il castrjannese, invece, deve sposarsi, ma deve prima far la comunione.
Il modo in cui gli viene comunicato crea, però, l’equivoco che dà corpo al
mimo: “Andate in chiesa a inghiottirvi il Cristo”.
Lui
se ne andò in chiesa e si confessò tutto, dalla testa ai piedi; e per scontare
la penitenza andò a inginocchiarsi davanti all’altare maggiore.
Là
c’era ancora il Cristo risorto, alto come un saracino, con la piaga rossa nel
costato, una gamba qua e una là, una mano in alto con tre dita aperte e
nell’altra la canna con la bandiera.
A
vederlo così, il castrjannese restò come un castrjannese che era, e guardava a
bocca aperta spaventato.
-
Mamma mia[...]e tutto quello mi devo ingollare?[...]
E
andatosene dal prete, lo mise al muro e glielo disse tondo:
-
Sentite, non dico il Cristo con le gambe e le braccia com’è;
ma la canna no e no la pezza, che certo mi restano qua e mi strozzano!
Colpisce che il rapporto tra l’uomo lanziano e il divino non sia quello
distante e regolato di altra parte della società; quei contadini parlano a Dio
come ad un pari e vi riflettono mancanze e vizi che sono loro. La memoria
riporta all’Olimpo greco, segno che tra tutte le dominazioni che la Sicilia ha
vissuto, quella greca ha messo radici più profonde.
I contadini, seppur ignari di certi rituali o significati simbolici,
sentono, comunque, forte il fascino del miracolo. Anche in questo caso, però,
l’azione è al livello del quotidiano più immediato o si spinge sino
all’assurdo, assunto come vero perché iscritto, appunto, nel capitolo miracoli
divini. Nel mimo “Le canne di Sant’Alessandro”, il sagrestano, sfinito dai
ladri che ogni notte rubavano dal canneto vicino la chiesa, chiede allo stesso
santo di far la guardia: “Sant’Alessandro mio, le canne sono vostre, e voi
guardatevele. Fate vedere a S. Rocco di Butera che valete più di lui.” I ladri
agiscono di nuovo, ma lasciano cadere delle canne rilegate in fasci. Il giorno
dopo il sagrestano, dopo un primo momento di delusione: “S. Rocco di Butera è
miracoloso, ma Sant’Alessandro di Barrafranca non è minchione, e all’occorrenza
non si fa gabbare. Gli rubano le canne, ma gliele fece lasciare infasciate come
gli servivano.” Qualche volta il miracolo si spinge oltre i confini del reale e
l’eccezionalità di un evento scatena il tifo tra i devoti di due santi, e la
fede si mescola con la superstizione. Accade a Modica, dove un malato deve
sottoporsi ad esami medici, ma le sue urine vengono scambiate con quelle della
moglie gravida, con risultati immaginabili:
La
meraviglia fu grande, e tutti gridavano al miracolo essendo la prima che un
uomo facesse un figlio; e certo doveva passare la cometa.
-
Volete vedere – dicevano i modicani di basso – che è stato
San Pietro a far la gagliardezza?
E
quelli di Modica alta:
-
´Gnornò, che è stato San Giorgio.
È
stato San Giorgio, è stato San Pietro: vennero come al solito ai fatti, e ci
furon teste rotte e occhi ammaccati.
Le priorità e le necessità quotidiane investono anche la fede e i
miracoli sono anche legati alla natura, al cibo, come nel caso del buterese,
che, dopo aver mangiato un moggio di lumachelle, vede il moggio
ancora pieno (poco importa se i gusci sono vuoti) e attribuisce il miracolo a
San Rocco. Gli assaresi, invece, leggono segni divini in una distrazione del paratore.
C’è il Cristo risorto da acconciare, ma il paratore ha sete, svuota il
fiasco del vino e lo appende alle tre dita aperte del Cristo; aperta la tenda,
i fedeli in coro: “Viva il Cristo! [...] Lo vedete che dice? Che il vino
uguanno ha da andare a tre soldi.” I miracoli, però, li fa solo il Cristo di
buon legno: così la pensa il nicosiano.
Il
nicosiano aveva nella vigna un pero che non fiori faceva né frutti, essendo di
mala stirpe e duro di linfa [...] sicché pensò di tagliarlo. [...]
Or
dovendosi fare un Cristo alla chiesa, glielo vennero a chiedere; e volentieri
lo donò, che servisse a così nobile cosa.
[...]
Accadde
che al nicosiano si ammalò il figliolo; e corso subito a’ piedi del Cristo lo
pregava [...]:
-
Cristo mio – gli faceva – ricordati che io ti piantai e ti
zappai, e io ti tagliai con le mie mani; e se non era per me, non Cristo ora
saresti ma pero come tanti a Nicosia [...]
[...]
e quello stava là giorno e notte con le mani giunte che gli facesse la grazia;
finché una volta non vennero a dirgli che il malato invece di guarire era morto
-
Ahi! [...] pero non facesti mai pere, e Cristo manco fai
miracoli.
Il caltagironese, per ingraziarsi San Giacomo, alle preghiere aggiunge
delle offerte in natura, dei fichi, e resta sorpreso, ma non troppo, del fatto
che il santo, o meglio la sua statua, rifiuta alcuni frutti e ne accetta altri,
proprio come farebbe lui.
[...]
prese un fico dei più duri e lo buttò in faccia al santo, per ingraziarselo:
-
Tenete qua, San Jacopitto glorioso: mangiate anche voi.
Ma
quello, come gli giunse sulla faccia, lo ributtò e:
-
Bravo, San Jacopitto – gridò il caltagironese ammirato – i
duri non vi piacciono, e volete i fatti, come me che ho la bocca.
Ne
prese uno dei più fatti e glielo buttò, e come gli giunse, vi restò
appiccicato; [...]
E
quando non ne ebbe più, lo contava fuori per maraviglia:
- Lo sapete San Jacopitto? I fatti se li
mangia, e i duri li ributta.
Se sulla blasfemia di certe scene si possono avanzare dubbi, non si può
negare, invece, una certa avversione verso i rappresentanti in terra di Dio.
Monaci e priori sono scelti come bersaglio, per mostrare che la moralità e lo
spirito cristiano non sempre risiedono in figure che dovrebbero fare da
esempio.
Il
monaco di Santo Nicola, dopo che s’era ingollato un gallinaccio intero e un
barile di vino, si mise sul piazzale dinanzi la chiesa, e sbuffava e ruttava, e
tutto sbracato andava su e giù affannatamente.
Gli
si avvicinò un poverello, e gli stese la mano:
-
Per carità, Vostra Reverenza, mi date un soldo per un panino,
che muoio di fame?
Il
monaco lo allontanò con tutt’e due le mani:
- Vattene, figlio, vattene! Non vedi che per
mangiare io sto morendo?
Nonostante il cinismo della scena, il moto di riso scatta lo stesso,
nell’immaginare quella figura che stona con l’abito che indossa e nel leggere
l’esortazione preoccupata del finale. Alle intemperanze alimentari si
aggiungono quelle sessuali, come nel caso del priore di San Mauro:
Il
priore di San Mauro, gli piaceva l’erbetta delle valli; e quando poteva
arrivarci, bizzoche e praticanti, ci si buttava di lena, senza domandar licenza
ai superiori.
Una
volta gli capitò tra mano una bizzoca di pel novello, che Mariagrazia era di
nome e di fatto; e assestò il battaglio alla campana.
Una
sera ch’era a cavallo pei fatti suoi, alla chiesa suonò l’Avemaria. Disceso, si
fece lesto il segno della croce, e incominciò:
-
Ave, Mariagrazia prena [...]
E
quella, tastandosi la pancia:
-
Se è, vostra la prodezza, Angelo Gabriele; e vedetevela voi con lo Spirito
Santo!
Le preoccupazioni dei contadini, però, sono anche altre. La paura della
morte fa capolino in un mimo, accompagnandosi però allo stesso spirito
dissacratore degli altri racconti.
Lo
sciclitano, ch’era santocchio, per esser più sicuro voleva sapere l’ora e il
modo della sua morte; e ogni giorno in chiesa lo domandava a gran voce al
Cristo, ch’era sull’altare [...]
Ma il
Cristo appiccicato alla croce non moveva le labbra di sopra la barba; e quello:
-
Cristo mio, o che siete sordo che non sentite? E se
non lo sapete voi, o che Cristo siete, d’un soldo?
Tanto lo
disse e così forte, che il sagrestano[...]l’udì; e venutogli in uggia, una
volta si mise sull’altare dietro la croce, e [...] gli gridò irato di lassù,
facendo lui il Cristo:
-
Lo vuoi sapere com’hai da morire? Appeso come un porco
all’uncino.
-
E tu per cotesta linguaccia sei costà in croce.
In
questi mimi c’è una galleria di tipi che “appartengono ad un mondo che porta la
sua richiesta sino all’assurdità e si iscrive in un tragico momento ove
l’eterno e il divino perdono di significato, incalzati come sono da situazioni
contingenti che accampano i loro diritti escludendo qualsiasi altra soluzione”[79].
Esemplare il mimo “La pappa”:
Proprio
che scodellava, e il figlio aspettava col cucchiaio in mano e la bocca pronta,
portarono alla piazzese la nuova che le era morto il marito come un piazzese
che era.
Quella
lasciò subito il mestolo e si mise a gettare le voci:
-
Ahbo’, marito mio! E giusto ora dovevate morire che
stavo scodellando? E ve ne mancava di tempo? [...] E ora che vi devo piangere,
la minestra mi si raffredda e si sciupa, e non so come fare.
E il
figlio, tirandola per la manica:
- O ma’, prima mangiamo la pappa e poi
piangiamo il pa’, che il tempo c’è.
Si
rivela un sentimento “che s’impiglia nello spessore degli interessi quotidiani
ove i sentimenti stessi si annullano”[80].
In almeno un caso, però, i sentimenti forti varcano le soglie del tempo,
rimanendo intatti. Nel mimo “La figliolina”, due futuri sposi si immaginano e
si raccontano il loro futuro insieme: loro due insieme “come due dita nel
miele”, la casa, il campo, la figlia bella e sana; un pensiero angosciante però
li assilla: “Ma se ci muore con le vajolore?” Si immedesimano a tal punto in
questa prospettiva, che a nulla vale ricordare che stanno piangendo e disperandosi
per una figlia che deve ancora nascere. Un compaesano loro, un pietraperzese,
sembra invece insensibile alla morte, questa sì reale, del padre:
Al
pietraperzese era morto il pa’; e tutti lo piangevano a gran voce. Lo
vestirono, lo misero nel cataletto, e diedero al pierzese da tenere la candela;
e lui guardava con la bocca aperta e gli occhi asciutti, senza ài né bai.
Uno lo tiro
per la manica:
-
Perché non piangi? Non vedi ch’è morto tuo pa’?
E lui:
- O come posso piangere, che ho la candela in
mano?
Il
dolore per la perdita è sovrastato nella mente semplice del paesano
dall’importanza e dalla difficoltà del compito assegnatogli.
I.3.4 Poveri e poveri
I protagonisti dei Mimi sono tutti dei
“capitalisti del nulla”, come li definisce Di Grado. La povertà era, anche ai
tempi di Lanza, una condizione per nulla eccezionale, specialmente nelle zone
più interne delle campagne siciliane. L’eccezionalità la crea, però, Lanza con
le sue prose. Le necessità quotidiane, gli stratagemmi o i sacrifici per
sbarcare il lunario sono raccontati con ironia e divertimento, misti a
tenerezza in alcuni casi. Nel mimo “Il grembiule della pierzese” non si può non
provare un moto di tenerezza per la protagonista:
La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce n’erano una
sull’altra da non contarsi più, e a cento colori; sicché divenuto spesso del
doppio pareva invece la pannicciata dell’asino.
Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non poteva vederglielo
più in mano per rattopparselo, che non le bastavano mai pezze e le si sfaldava
da ogni parte; e come venne la fiera gliene comprò uno nuovo.
Quella a vederlo non sapeva quanto lodarlo che era a fiorami; e intanto
faceva:
-
Che belle toppe si possono
tagliare di qua per il mio grembiule sciupato, e così posso mettermelo anche
per la festa.
E dato di mano alle forbici si mise a tagliare di là le toppe per quello
vecchio; e a lavoro finito, lo mostrava tutta contenta al marito:
-
Guardate, marito mio, com’è
ora rappezzato il mio grembiule, che pare nuovo nuovo.
Chi è abituato a vivere in ristrettezze non è più
avvezzo al nuovo; nel grembiule nuovo di zecca la pierzese, che aveva il suo da
anni, non riesce più a vedere l’insieme, ma le parti, le toppe per quello
vecchio. Il vallolmese, invece, subisce il fascino del nuovo a tal punto da non
riconoscere il vero valore delle cose: perde le mule, sua vera ricchezza, ma si
dispera molto di più per la perdita dei capestri nuovi e lucenti appena
acquistati.
Il racconto delle difficoltà quotidiane diventa
ancora più ironico nel caso dei tre calabresi, che “non sapendo come sbarcare
la vita in Calabria, pensarono di portare un carico di cipolle in Sicilia”, un
po’ come dire: c’è sempre chi sta peggio di noi. Dalla barca cade una cipolla;
è solo una, ma tanto basta a spingere uno dei tre a buttarsi in acqua per
recuperarla. Non vedendolo ritornare i compagni pensano al ‘peggio’: l’altro ha
fatto il furbo e “s’è presa la cipolla ch’era di tutti e tre”; così si tuffa il
secondo, non ritorna e l’ultimo rimasto pensa di essere lui il vero gabbato e
si tuffa. “E fu così che tre calabresi si persero per una cipolla”, conclude
Lanza.
Se i poveri conducono una vita piena di disagi,
neanche i ladri hanno vita facile. In una società di soli poveri è difficile
perfino rubare:
Il calabrese, gli rubarono ciò che non aveva, e afferrato uno schioppo
inseguiva il malcapitato; e gli andava gridando dietro:
- O tu, se corri ti sparo, se ti fermi t’ accoltello, se ti butti nel
pozzo ti perdono.
La ‘mancanza’ indicata da Calvino come il filo conduttore dei mimi,
diventa vera e propria privazione in queste storie, cosicché i protagonisti
cercano di risparmiare e accumulare più che possono:
Il
mazzarinese teneva in un canto un sacco col muso legato fitto. Ogni tanto
l’apriva con cura, appena il tempo di fiatarci dentro e lo richiudeva in furia,
più fitto di prima:
-
O che fate? – gli domandarono una volta.
E lui:
- Metto in serbo il fiato per quando mi manca.
Il
più interessante di questa serie è il mimo del licodiano:
Tant’era
ladro il licodiano che, non avendo a chi rubare, rubava a se stesso, e a chi
non aveva nulla rubava la vista degli occhi, mettendoglisi avanti.
Or
pentitosi della sua vita, andò a confessarsi; e compunto e contrito snocciolava
tutte le sue prodezze, che non finivano più.
Arrivati
alla fine, il prete alzò la mano per assolverlo, e in quella lui, che gliela
adocchiava sin dal principio, gli tolse lesto la stola di dosso, e se la ficcò
in tasca.
E prima
d’andarsene:
-
O della stola non m’assolvete?
Questo
mimo è “l’assolutizzazione metafisica di una rapacità fine a sé, affrancata
dalle misure e dagli obiettivi contingenti”[81].
In
generale ha visto bene Calvino: il povero si consola deridendo il pezzente, da
cui prende le distanze naturalmente, e questo gli basta. Non troviamo nelle
pagine di Lanza lotte tra ricco e povero o tra potere e popolo; piuttosto i
protagonisti lottano, per così dire, contro se stessi. La distanza tra i due
mondi è tale da non consentire neanche fantasie di lotte, così i contadini
trovano sfogo e conforto nel deridere i loro simili, che vivono ad un gradino
sociale ancora più basso. Il potere, laddove viene citato, è rappresentato in
tono con il resto dei mimi, coprendolo di ridicolo, ma, forse, con un di più di
sarcasmo più che leggiadra ironia. In un solo caso fa la sua comparsa come
coprotagonista il re, che dibatte sulla grazia da concedere al barrafranchese
in un mimo, a dir la verità, poco incisivo. Di sempiterna attualità, invece, il
mimo sui tredici sindaci di S. Cataldo, specchio della politica che si fa solo
sulle poltrone.
A San
Cataldo dovevano fare il sindaco. Misero la bandiera al balcone, e la sera i
tredici consiglieri si radunarono al municipio. Ma, giunti al fatto, non
potevano mettersi d’accordo. [...]
Tutt’e
tredici, ognuno diceva la sua, perché così e così il popolo voleva un sindaco e
non un càntaro con la sciarpa. Consumarono tutta la saliva che avevano in
bocca, e a mezzanotte non avevano ancora concluso nulla. Finalmente la folla,
che assisteva pigiandosi come le sardelle in un barile, stanca gridò:
-
Votazione, votazione!
I tredici
si sedettero; e sputacchiando e spurgandosi per darsi dignità, ognuno scriveva
il proprio nome nella polizza, e con sussiego andava a deporla nell’urna,
dicendo verso la folla, con una mano sul petto:
-
Questo lo faccio per il bene del popolo.
E quelli
battevan le mani.
Così a
scrutinio finito, i sancataldesi si ebbero tredici sindaci.
Lanza scriveva questi mimi negli anni venti, ma potrebbe averli scritti
oggi, raccontando di discese in campo per amore verso la cosa pubblica e di
elettori ancora ingenuamente fiduciosi nelle dichiarazioni d’intenti.
Se la povertà dei contadini è materiale, questa, ben più grave, è morale,
e Lanza, pur non emettendo giudizi morali, la condanna dalle righe della sua
prosa.
I.3.5 Il caropipano e il piazzese
Un paese e un paesano, vale l’altro, si è detto, nella geografia elastica
di Lanza. Tranne, forse, in un caso: quello del piazzese. Gli altri
protagonisti, infatti, si dividono variamente vizi e stravizi, senza
caratteristiche fisse, non così il piazzese, che a partire da un suo
intercalare ( “Ahbo’!”) ha un carattere inconfondibile, quasi una natura
diversa. Lo spregio, nota pure Calvino ch'era lontano dal conoscere la mai
sopita antipatia tra caropipani e piazzesi, sembra più acceso che in altri
casi, e conduce Lanza al “delirio verbale espressionista”, già citato nel mimo
della creazione del piazzese. Dio crea gli altri paesani da pietre o altro, e
il piazzese da uno stronzino d’asino: “Stronzino stronzicolo parla piazzesicolo”.
La natura particolare dei mimi dedicati al piazzese è tale che, caso
quasi unico nei mimi, l’autore non sente la necessità di specificare molto nel
titolo; “il piazzese” basta ad indicare che quella storia sarà diversa dalle
altre, a prescindere dal tema. Sono sei i mimi intitolati semplicemente “Il
piazzese”; alcuni esempi:
Tant’era
valente il piazzese che non mangiava per non portarsi il pane alla bocca, e
piuttosto che adoperare le mani preferiva lasciarsi morire di fame.
Si
buttò dunque sotto una ficaia carica di frutti maturi, e aspettava con la bocca
aperta che gli cascassero dentro, senza mai avanzare il braccio o piegare il
collo per prendere quelli d’intorno.
Passa
ora passa poi, uno finalmente gli cascò in bocca, ma per non muovere i denti e
ingozzarselo neppure lo toccò, e rimase così, finché non morì come un piazzese
che era.
La sua appartenenza a una razza a sé stante viene chiarita in un altro
brevissimo mimo:
Andandosene
a Piazza un tale, incontrò il piazzese.
-
O voi – gli fece – siete cristiano?[82]
E
quello:
- 'Gnornò: piazzese.
Sembra cittadino di un mondo cui non è dato il lume della ragione. Si
legga il mimo “La trippa”, dove il piazzese compra della trippa e si fa
scrivere su un bigliettino dal macellaio il modo in cui cucinarla, così lui non
ci pensa e a casa se lo fa leggere “da chi ci vede”:
Il
macellaio così fece; e lui se ne andò per la sua strada, la dritta avanti col
bigliettino e la manca dietro con la trippa.
[...]
Andando
così, un cane sentì l’odore della trippa e si mise a seguirlo passo passo,
annusando: finché a un punto con una boccata non gliela strappò di mano, e via
come una lepre.
Il
piazzese si volse a guardarlo senza scomporsi, con la manca dov’era; e levando
in aria la dritta col bigliettino, gli gridò dietro:
-
Ahbo’, baggiano, corri quanto vuoi!La trippa l’hai tu, ma il
bigliettino è qua, e non sai come farla.
Il piazzese conosce solo se stesso e il suo mondo, sembra smarrirsi non
appena se ne allontana; a due mazzarinesi “‘mbriachi fino alle nasche come
scimmie”, che dibattevano se la ruota raggiante nel cielo fosse la luna o il
sole, risponde: “Ahbo’ io forestiero sono!”
Il contraltare al piazzese è il caropipano, il compaesano dell’autore,
che, pur coltivando un rapporto d’amore-odio con la sua ‘trappola’, mantiene
una sorta di istinto di protezione nei suoi confronti. I caropipani, infatti,
non sono mai descritti come soggetti passivi, cioè sciocchi per mancanza
d’intelletto o cornuti per mancanza d’onore, ma sono sempre attivi: ladri,
furbi e cornificatori. Due i mimi in cui si incontrano caropipani e piazzesi,
ed è sempre quest’ultimo a fare la figura peggiore.
Una
volta, andando il caropipano a Piazza incontrò alla Bellia il piazzese, che a
cavalcioni di un grosso ramo di pioppo dava giù botte da orbo con l’accetta per
tagliarlo.
-
O che fate? – gli domandò.
E
quello:
-
Non vedete che fo? Taglio il ramo che mi serve.
-
O come? E se casca quello, non cascate anche voi?
-
Cascate voi invece – fece l’altro stizzito – che siete
cristiano, e non io che sono piazzese.
Ma
non aveva dati altri due colpi che il ramo crollò e lui insieme, che restò a
terra come il piazzese che era.
L’altro mimo, intitolato “La croce”, è una variazione del triangolo
erotico presente in tanti mimi. Il caropipano va a trovare compare e comare a
Piazza, ma un forte temporale gli impedisce di tornare a casa; il compare gli
propone di restare a dormire e alle obiezioni risponde:
-
Se siamo stretti, ci stringiamo di più [...] Voi vi mettete
al muro, mia moglie nel mezzo e io davanti.
Così
fecero [...] e il piazzese ch’era furbo, per paura che il compare non gliela
facesse a tradimento con la moglie, ci mise davanti la mano a riparare
l’entrata [...]
Or
mentre stavano così, un gran lampo dalla finestra saettò la camera. Nel
soprassalto il piazzese atterrito levò la mano di là per farsi la croce; e in
quella, sgombro il terreno, l’altro saltò addosso alla donna [...]
All’Amen
il piazzese tornò con la mano a difendere il luogo di prima, ma ci trovò invece
il compare; e meravigliato della prontezza, faceva, aspettando che quello
finisse:
-
Ahbo’, compare mio, manco il tempo di farmi la croce mi date?
Una delle altre ‘virtù’ del caropipano la scopriamo in due mimi,
intitolati “I ferri ai piedi” e “L’asino tramutato”. Il caropipano è furbo,
imbroglione e ladro, difetti in altri contesti, ma qui ritratti quasi come
esempi positivi.
Ne “L’asino tramutato”, due caropipani di “professione ladri”, sulla
strada per Piazza vedono un canonico con un asino e si sostituiscono ad esso,
facendo credere al povero malcapitato che l’asino si sia tramutato in uomo:
-
Ah, birbante! Tu dunque credevi di potermi cavalcare
impunemente per tutta la vita? Finora è toccato a me, ma venuta è la tua ora.
D’asino io sono tramutato in uomo, d’uomo tu sarai tramutato in asino perché
così vuole nostro Signore Gesù Cristo [...]
Ma
non aveva ancora finito, che il canonico, con la tunica alzata fino al bellico,
era già giunto a Piazza, gridando al miracolo.
E
il caropipano ci guadagnò anche la cavezza.
Più azzardata e fantasiosa la trovata di altri due caropipani, che, nel
mimo “I ferri ai piedi”, si fingono morti per poter rubare indisturbati:
Due
caropipani, di professione ladri, pensarono di morire; e buttatisi sul letto
non davan più segno di vita. Gettaron loro le strida, li vestirono, li misero
nel cataletto e li portarono in chiesa. Ma la notte, quelli buttarono all’aria
i coperchi, e più vivi di prima si diedero a saccheggiare ogni cosa [...] La
mattina, aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose di prezzo, e
lo scandalo fu grande.
-
Qua bisogna provvedere – gridarono i gabbati – ché i morti
non son morti e fan cose da vivi; [...] fu finalmente gettato a suon di tamburi
e di trombe questo bando:
-
Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da pensarci
due volte; e chi non è sicuro d’esser morto non muoia, ché quelli che son tali
verran ferrati ai piedi come muli!
E
d’allora il poi, così fecero; e di caropipani non morì più alcuno che non fosse
veramente morto.
Da questi pochi mimi si può cogliere la bonarietà con cui, nonostante
tutto, Lanza tratta i suoi compaesani. E questo sentimento di protezione
istintiva si amplia fino a coprire tutti i siciliani, prima derisi, quando si
presenta un confronto con i vicini calabresi. Si è già citato il mimo
“L’augello crudo”, con il terribile e assurdo epilogo del calabrese morto, col
sangue alla bocca, che, invece di essere compianto, viene accusato dal compagno
di averlo truffato e viene abbandonato nel bosco. O, a voler parlare di
sciocchi, il mimo dei tre calabresi che vengono a cercar fortuna in Sicilia e
per il timore di essere gabbati dai compagni perdono il carico prezioso.
Anche in questi casi, però, la vena ironica e surreale di Lanza resta
attiva e trasforma un episodio cruento e il rapporto con la giustizia in un
racconto sorprendente, dal punto di vista stilistico:
Il
calabrese era nimico a morte col vicino; e un giorno ch’egli era alla vigna,
l’altro venne con lo schioppo, ma il colpo gli fece cilecca. Allora il
calabrese con la zappa gliele diede sul capo, e lo sotterrò dove cadde.
Preso,
fu condotto dinanzi al giudice; e quello:
-
Dimmi, dunque, calabrese: sei tu che l’ammazzasti?
E
lui:
-
Il fatto, signora giustizia, fu così e questa è la ragione:
i’ zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli allumò; presi la zappa e lo zappettai,
ahì ahò.
-
Dunque l’ammazzasti tu?
-
E tira, signora giustizia! Non sentite come fu la ragione? I’
zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli allumò; presi la zappa e lo
zappettai, ahì ahò.
E
il giudice:
-
O non l’ammazzasti tu dunque?
E
il calabrese daccapo; e tutt’e due sono ancora là che discutono.
La faida campanilistica lascia il campo alla faida interregionale, per
dirla con Calvino. Interessante è non solo cogliere l’eccezione alla regola in
una raccolta tutta di mimi ‘siciliani’ appunto, ma soprattutto la natura di
quell’eccezione, la sostanza del ritratto che viene fatto del calabrese. Egli
è, oltre che stolto sopra ogni misura, anche violento, di una violenza crudele
e cieca. Tutto ciò viene descritto da Lanza, quasi come a volerne prendere le distanze,
da siciliano. Le sue pagine sembrano quasi voler dire: son cose che capitano
agli altri, non a noi.
Capitolo II
Eroda e i Mimiambi
II.1 Biografia
La biografia di un autore antico non è sempre facile a ricostruirsi; nel caso di Eroda i problemi nascono già a partire dalla corretta grafia del nome. Il primo passo verso una ricostruzione biografica e artistica dell’autore si fece molto tardi, alla fine del 1800. Nel 1889, infatti, il British Museum acquistò un papiro proveniente dall’Egitto. Il testo del papiro fu decifrato dal filologo inglese Frederic George Kenyon, che lo pubblicò nel 1891. Nel 1892 altri frammenti si aggiunsero, fornendo questa volta il titolo dell’opera ritrovata, ma non il nome dell’autore dei versi. Il papiro era stato ritrovato, pare, in una tomba datata al quattordicesimo anno del regno di Augusto; altre fonti lo datano più genericamente al I secolo d.C. Il papiro letterario conteneva una serie di componimenti in versi, in coliambi, definibili mimi. Il primo ritrovamento dette luogo alla pubblicazione di sette mimi interi e frammenti di un ottavo; la seconda pubblicazione integrò le lacune e fornì l’inizio di un nono. Il papiro, però, anche nelle integrazioni pubblicate nel 1892 e 1900, non riuscì a colmare alcune lacune: la questione del nome, ad esempio, che non veniva dato. Seppur non indicata, l’identità dell’autore di quei versi è, però, oggi, indubitabile. Sei dei circa dieci passi citati da eruditi e scoliasti d’epoca romana sotto il nome del poeta Eroda o Eronda si trovano, infatti, nel papiro. Le incertezze di cui si fasciava la figura di questo poeta antico, in realtà, non furono del tutto risolte. Si dibatté a lungo se il vero nome fosse Eronda (così come riportato da Ateneo, II-III sec. d.C.) o non piuttosto e più comunemente Eroda, o più raramente Erode[83]. La questione riguarda, naturalmente, l’origine dell’autore, che potrebbe essere o meno dorico, e, in questo senso, appartenere all’area geografica e sociale in cui, per tradizione, si colloca l’origine e il primo sviluppo del mimo. La forma oggi più accreditata sembra essere Eroda, ed è con tale grafia che l’autore sarà citato in questo lavoro.
Le incertezze sulla collocazione cronologica del poeta furono, invece, eliminate gradualmente, pur non fornendo una determinazione precisa della sua età. Ad una datazione sicura nella prima metà del III secolo a.C., con la conoscenza dell’ambiente alessandrino dei primi Tolemei, dimostrabile attraverso la lettura dei suoi mimi, fecero seguito le discussioni vertenti sulle allusioni cronologiche contenute negli stessi mimi. Nel I mimo, verso 30[84], sono ricordate le meraviglie che l’Egitto offre e tra queste “il tempio degli dèi fratelli e il re buono”. L’attenzione di molti si è, quindi, soffermata sulla coppia Tolomeo Filadelfo e Arsinoe, cui fu dedicato un tempio nel 271 o 270 a.C. Sulla figura del ‘re buono’, χρηστός in greco, si è discusso più a lungo. Ad alcuni è sembrato evidente trattarsi del Filadelfo, ma ad altri l’uso di quell’attributo è sembrato un’allusione al soprannome del successore del Filadelfo, ossia Tolomeo Evergete, il ‘benefattore’. In tal caso si dovrebbe pensare al 247, anno in cui l’Evergete salì al trono, e non andare oltre il 245, perché da quella data decadde l’uso della denominazione di ‘dèi fratelli’, preferendovi quella di ‘dèi benefattori’. Nel II mimo, verso 16, è ricordata, con il nome di Ace, l’attuale città di S. Giovanni d’Acri. La denominazione ci offrirebbe un indizio cronologico, perché sappiamo che nel 266 a.C. essa fu chiamata Tolemaide, e che con tale nome la ricorda Callimaco. In questo caso, però, l’indizio non è risolutivo; la scelta del nome potrebbe essere stata frutto di esigenze puramente metriche e, in ogni caso, porre il mimo anteriormente al 266 non comporterebbe conseguenze di rilievo per la cronologia del poeta. Le allusioni cronologiche del mimo IV, verso 23, 72 e sgg., sono tuttora molto discusse. Vi si fa riferimento ai figli di Prassitele come viventi e ad Apelle come morto. Dalle notizie in nostro possesso sappiamo che i primi due dovevano essere morti intorno al 270 e Apelle intorno al 276, quindi il mimo doveva essere stato composto dopo il 276 e prima del 270. Alcuni critici, però, hanno voluto vedere nella prima allusione solo un anacronismo dai fini comici e nella seconda una interpretazione errata dell’espressione greca usata da Eroda, la quale indicherebbe un soggetto generico e astratto e non Apelle. Le date entro cui comprendere la composizione dei mimi sarebbero, quindi, il 276/273 e il 245.
Alcuni accenni di autori antichi, come già accennato, ci riferiscono del poeta Eroda, ricordandolo, come fa ad esempio Plinio il Giovane (I-II sec. d.C.), accanto a Callimaco; altri lo facevano contemporaneo di Ipponatte, appoggiandosi al richiamo interno dell’VIII mimo al poeta efesino. Oggi è comunemente accettata la sua collocazione nella prima metà del III secolo a.C., in piena età alessandrina, di cui rappresenta uno dei poeti più originali. Un’altra questione, quella della sua patria di nascita o, comunque, della sua vita e attività letteraria, ha impegnato per secoli gli stessi studiosi che già si erano applicati alla stesura di una cronologia affidabile. I problemi nascevano dal fatto che Eroda mostrava nelle sue pagine una conoscenza approfondita dell’Egitto tolemaico, ma anche dell’isola di Cos, usata in più di un mimo come sfondo scenografico dei suoi racconti. Il suo nome, poi, suggeriva un’origine dorica, e il genere che egli rappresentò prese vita nella Sicilia dorica: ciò lo fece per alcuni nativo di Siracusa, al pari di un Teocrito o del lontano predecessore Sofrone. La lingua usata, però, come altri sottolinearono, era lo ionico. Tutte queste notizie o, meglio, indizi, resero complicato e confuso disegnare la sagoma dell’autore sul fondo di un ambiente piuttosto che di un altro. Nessuno degli indizi risultò, poi, essere risolutivo. Non è del tutto esatto, per esempio, definire la lingua come ionica pura; si tratta, in realtà, di un impasto artificiale di ionico, dorico e attico, una lingua di ogni luogo e di nessun luogo. Se ci si vuol fare un’idea della sua figura di uomo e letterato si può leggere tra le righe (ma neanche tanto) dell’VIII mimo, intitolato “Il sogno”. Qui, sotto la finzione letteraria del sogno, il poeta esprime il suo programma artistico e ci introduce nella temperie culturale della sua epoca, al centro delle polemiche o delle invidie letterarie che la sua arte dovette scatenare. Dice Eroda a partire dal verso 65:
Quello che ho visto in
sogno io lo giudico così. Il fatto che io tiravo il bel capro fuori dal burrone
significa che avrò un dono dal bel Dioniso. Il fatto che i caprai lo facevano a
brani a forza nel celebrare i loro riti sacri, e si dividevano le sue carni,
vuol dire che moltissimi critici letterari faranno strazio delle mie membra,
cioè delle mie fatiche [...] Il fatto di riportare, io solo, il
premio,[...]vuol dire che o le mie poesie mi chiameranno [...]a grande gloria a
causa dei giambi, o una seconda istanza mi assegna il compito di cantare ai
miei Xuthidi in metro zoppicante dopo il vecchio Ipponatte.
Gli indizi che ci riportano alla piena età ellenistica sono: lo stratagemma del sogno e le polemiche letterarie vive. Il riferimento agli Xuthidi, ossia gli Ioni, ha, invece, fatto deviare molti dall’idea che Eroda fosse d’origine dorica, sottolineando anche la piena padronanza della lingua usata. Il reclamare per sé la gloria letteraria tra gli Xuthidi, secondo solo al grande Ipponatte, non è, invece, un mero riferimento territoriale, ma deve leggersi, piuttosto, come la piena coscienza umana e letteraria dell’autore di rappresentare un ‘caso letterario’, quale era stato Ipponatte nel VI secolo. La personalità di Eroda si potrà meglio comprendere se si guarda al periodo storico e letterario in cui visse e alle novità che apportò al genere che rappresenta.
II.2
Eroda, il mimo, l’ellenismo
Eroda, si è detto, visse e scrisse, con molta probabilità, nella prima metà del III secolo a.C., in piena età ellenistica. L’ellenismo rappresentò un momento di rottura rispetto alla civiltà classica. La scomparsa, tra il 323 e 322 di grandi figure di riferimento come Alessandro Magno, Aristotele, Demostene, contribuì a suscitare l’idea della fine di un’epoca. Si assistette alla frantumazione del grande impero sovranazionale di Macedonia e alla conseguente creazione, dopo molte lotte, di un sistema di monarchie regionali; alla dilatazione della civiltà greca in un’area molto più vasta, con la fondazione di importanti città, che sono anche centri culturali; all’organizzazione attorno a grandi biblioteche di comunità di dotti, strettamente legate al potere politico. Il repentino e traumatico mutare delle strutture politiche e sociali si tradusse, al contrario, in un graduale trapasso in ambito intellettuale e culturale: i generi letterari restarono più o meno invariati formalmente, ma furono rinnovati all’interno. Venne meno il rapporto diretto tra letterato e pubblico, poiché non c’era più la dimensione pubblica della cultura. Al cittadino subentrò il suddito, non più chiamato a partecipare alla vita pubblica di una città in tutti i suoi aspetti; il vecchio θεωρικόν, che permetteva ai ceti meno abbienti di assistere agli spettacoli teatrali, era ormai solo un ricordo; i cittadini, una volta committenti e destinatari principali delle opere letterarie, erano ora divisi in potenziali fruitori (ceti più elevati) ed effettivi esclusi (ceti popolari). La divaricazione fu accentuata dal fatto che la fruizione di un’opera non era più rappresentata dall’aspetto visivo - auditivo assicurato dal teatro o dalle pubbliche letture; il mezzo quasi esclusivo di trasmissione diventò la scrittura e per un pubblico di soli lettori. L’autore, così, non era più costretto a cercare la semplicità e l’incisività della parola che restasse impressa al primo ascolto, ma poteva elaborare in modo più articolato il suo testo, sicuro che il suo nuovo ‘pubblico’ avrebbe potuto apprezzare il lavoro, grazie alla possibilità di tornare più volte sul testo per meglio comprenderlo.
Le mutate condizioni politico-sociali favorirono, poi, un tipo di letteratura non più legata ai grandi interrogativi, ai grandi eventi, ai grandi personaggi. Si assistette al definitivo passaggio dal pubblico al privato. Nacque il gusto per le piccole cose quotidiane, i luoghi e i mestieri nuovi. Si abbandonò il monumentale della cultura e letteratura classica per lavorare su superfici più ristrette. Secondo una definizione diffusa, con tale arte il realismo si affacciò nella letteratura greca. In epoca classica, invece, ciò che lo spettatore vedeva svolgersi sulla scena era attinto al mito, cioè faceva parte della storia sacra della polis, elemento di un patrimonio culturale comune; egli conosceva già lo svolgimento e gli esiti delle vicende narrate. L’effetto finale era rassicurante, nessuna sorpresa, solo il piacere di assistere ad una rappresentazione che, per qualche tempo, isolava lo spettatore dai problemi reali del quotidiano, per proiettarlo in una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio. La stessa voglia di evasione e di rassicurazione persiste e forse aumenta in epoca ellenistica. L’uomo non ha più sicuri punti di riferimento sociale come la polis, ma può ricevere gli stessi benefici da un tipo di letteratura che parla del suo mondo, di quello reale, in modo leggero e quindi rassicurante.
Fin qui il mondo letterario ellenistico visto nel suo complesso; ma il settore che a noi più interessa è quello della mimografia.
Una storia del mimo, come genere letterario, non è facile da tracciare. Ettore Romagnoli[85] dice che due correnti animano, parallele lungo il corso dei secoli, la letteratura greca. Una, che definisce idealista, procede da Omero ed Esiodo, fino ai lirici, alla tragedia e, in parte, alla commedia. L’altra, detta ‘mimica’, muove, invece, attraverso Archiloco, Senofane, Ipponatte, Sofrone, in parte Teocrito, fino ad Eroda. Da evitare, continua Romagnoli, è la semplicistica definizione di mimo come composizione che predilige episodi brevi, seri o faceti, improvvisati, di contenuto spesso ardito; seguendo questa linea, infatti, anche i rapsodi di Omero facevano mimi, quando, fermandosi nelle piazze o nelle corti, improvvisavano i loro racconti, in base alla quantità e qualità del pubblico. Le loro composizioni erano sempre in esametri, ma Romagnoli, e con lui buona parte della critica, pensa che in tempi già più antichi, precedenti all’elaborazione dell’esametro, esistessero forme di mimo in ogni parte del mondo antico, legate all’attività di istrioni. Il percorso descritto da Romagnoli riguarda, però, il cosiddetto mimo d’arte. Le forme del mimo popolare, di solito scene brevi senza pretese artistiche, composte per il solo divertimento, sono molteplici, tali da non poterne tracciare un quadro sintetico. Romagnoli semplifica in mimi cantati o in poesia, mimi in prosa, e misti, detti poi ipotesi mimiche. Di tutte queste composizioni si sa che riscuotevano gran successo nel pubblico, oltre che per la bravura degli attori mimici, probabilmente anche per la presenza in scena di donne, e forse anche per la ‘deficienza’ artistica, che le rendeva fruibili ad un pubblico più ampio. Furono proprio queste forme rozze a costituire la dispensa cui attinsero i mimografi successivi per le loro opere letterarie. Il fatto che di queste forme d’arte nulla, però, sia rimasto, neanche i nomi degli autori, testimonia che non di opere letterarie si trattava.
Le prime espressioni autenticamente letterarie del mimo si hanno in Sicilia, a Siracusa, per opera di Sofrone, nella seconda metà del V secolo a.C. Notizie biografiche precise sul suo conto non si hanno; una notizia di Suida[86] ce lo fa collocare tra Serse ed Euripide, ponendo, quindi, la sua nascita tra il 500 e il 495. Nessuno, però, ricorda Sofrone prima di Platone. Meglio ancora, fu Diogene Laerzio, nel ricostruire le vite dei filosofi, a narrare un episodio della biografia di Platone, secondo il quale il filosofo, di ritorno da uno dei suoi viaggi in Sicilia, portò con sé i mimi di Sofrone, favorendone così la circolazione in Grecia. Olivieri, nella sua raccolta di mimi siciliani, spiega così l’interesse che quelle composizioni potevano suscitare nel grande filosofo: “queste composizioni naturalistiche, imitazioni e riproduzioni più o meno fedeli di fatti e caratteri umani [...] abbellite da un’arte semplice, ma viva e spontanea, non potevano non allettare chi del vero, sia pure ideale, aveva fatto apostolato della sua vita, oggetto continuo del suo pensiero.”[87] Da sottolineare, però, che furono solo Platone (in modo indiretto) e Aristotele, direttamente nelle pagine della Poetica, gli unici a citare Sofrone, e ciò testimonia la noncuranza di quasi tutti gli altri autori classici e la sensazione viva che egli restasse quasi sconosciuto al mondo ellenico. In seguito, è vero, le sue opere furono utilizzate dai grammatici alessandrini (Apollodoro di Atene, II a.C., allievo di Aristarco, ne curò una monografia in quattro volumi), ma solo come fonte di proverbi e vocaboli desueti, per cui le molte citazioni non possono aiutarci a ricostruire un profilo completo. Possono aiutare a chiarire il concetto di μίμησις, posto alla base della poetica mimica, e l’arte stessa di Sofrone, le parole di Aristotele, che, in un capitolo della sua Arte poetica, affronta la questione dei mezzi con cui si fa arte, dopo aver chiarito che ogni attività poetica è in realtà imitativa:
Tutte compiono l’imitazione con ritmo e linguaggio e musica, ma
impiegano questi mezzi singolarmente oppure congiuntamente. [...] L’epopea fa
questo con le semplici parole solamente, ossia i versi; e con i versi produce
imitazione, sia mescolandoli tra di loro, sia usandone di un’unica specie,
quella poesia che fino ad ora non ha un suo vero nome. Così non avremmo nemmeno
un nome unico per designare i Mimi di Sofrone e Senarco insieme ai Dialoghi
socratici, anche se queste opere mimetiche si volessero trasporre in versi
trimetri o elegiaci, o in un’altra qualunque di queste specie di versi. [...]
il nome di poeta spetta a chiunque riesca a produrre la mimesi.[88]
Seguendo le indicazioni aristoteliche, sarà degno di essere chiamato poeta, dunque, chi produca μίμησις βίου, cioè imitazione della natura, del vero, e non più, semplicemente, chi scriva in versi. Ecco perché sia i Mimi di Sofrone che i Dialoghi socratici possono essere definite opere poetiche, anche se non scritte in versi. Aristotele ci fornisce, quindi, un’altra importante notizia: Sofrone scriveva in prosa. Doveva essere, però, una prosa molto particolare, vicina al verso, da cui prendeva il ritmo musicale, pur restando libera nell’organizzazione delle varie parti, una prosa ritmica appunto. Proprio gli accorgimenti finissimi e la disposizione delle parti del discorso tipiche della prosa ritmica fanno sì che non si possa negare a questi mimi un’origine e un’ispirazione letteraria.
Poco, però, ci resta della produzione letteraria sofroniana: 170 frammenti o poco più, di tradizione indiretta, e poche linee su un papiro del I secolo a. C. Da questa pur esigua produzione riusciamo, però, a scorgere alcune caratteristiche della sua arte. Sappiamo che divideva i suoi mimi in maschili e femminili, e ci si è chiesti cosa questo potesse significare: mimi in cui parlano esclusivamente uomini o donne, o, com’è più probabile, mimi sugli uomini e le donne? Alcuni titoli possono gettare luce sugli argomenti prediletti: “Le donne che scacceranno le dee”, “La suocera”, “Le spettatrici dei giochi istmici”, “Il pescatore di tonni”, “Il pescatore ed il contadino”, “Indaffarato con la sposa”, tutti temi e situazioni legati al quotidiano, ai mestieri, ai luoghi comuni su donne e suocere, al cicaleccio futile. Un mimo, in particolare, ha attratto e attrae ancora l’attenzione di tanta critica, quello intitolato “Le spettatrici dei giochi istmici”. L’argomento, due donne che si preparano e si recano ad assistere ai giochi, commentando ogni particolare della loro giornata e lamentandosi l’un con l’altra di mariti brontoloni e serve fannullone, riscuoterà grande successo anche in seguito, andando a costituire quasi una tappa obbligata per chi scrive di ‘scene dal vero’. Anche Teocrito ed Eroda, come si vedrà, scrissero sull’argomento, e in questi casi, come in quello del mimo sofroniano, non si è in grado di stabilire fino a che punto la fantasia si mescoli con la realtà[89]. Realistico, senz’altro, è il dialetto usato da Sofrone per far parlare le due donne, svolgendosi la scena a Corinto, ed essendo il poeta siracusano: il dorico. Dialetto dorico, farcito, però, di termini della lingua popolare siracusana e frasi fatte di proverbi ed espressioni a volte scurrili, o giochi di parole. Il materiale è, tuttavia, insufficiente per definire la cifra poetica di quest’autore, come ricorda anche Mastromarco[90], per cui ci si deve affidare ad un giro di opinioni più o meno documentate. Nairn e Laloy esprimono, nell’introduzione alla loro edizione dei Mimiambi, la convinzione che i mimi sofroniani fossero immagini della vita ordinaria senza alcuna azione drammatica, specificando, però: “C’est que nous sommes malgré nous dupes d’un préjugé, suggéré par le usage de notre littérature, qui lie à l’idée d’imitation celle d’observation directe. Mais le mot chez les Grecs ne désignait[...]qu’un procédé d’exposition qui fait parler les personnages, sans parties narratives[...]”[91].
Forse Sofrone aveva dato forma letteraria ad un tipo di teatro tradizionale siciliano, basato su semplici canovacci, cercando il successo che avevano avuto le commedie, o meglio i drammi, che aveva proposto il conterraneo Epicarmo (autore, peraltro, del dramma Θεαροί, che tante affinità tematiche aveva con il mimo precedentemente citato). Sebbene la tematica spesso umile portasse a vedere l’opera sofroniana come popolare, dal punto di vista dell’ispirazione essa è, però, come si è detto, senz’altro letteraria. Sulla loro rappresentazione in scena non si è sicuri, anche se fonti antiche parlano di messe in scena a cura di uno o più attori.
Anche il figlio di Sofrone, Senarco, fu autore di mimi. Per lui possiamo tentare una collocazione nel IV secolo a.C., nel periodo della guerra tra Siracusa e Reggio, grazie ad una notizia che lo faceva autore di un mimo sugli abitanti di Reggio, presi in giro per la vigliaccheria, commissionato dal tiranno Dioniso I, e per colpa del quale entrò in urto con la città calabrese. Il tema del dileggio a sfondo campanilistico si incontrerà altrove e più avanti. Nessun frammento di Senarco, però, ci è conservato, rendendo ancora più difficile il compito di ricostruire una storia del genere. Di sicuro, però, dopo Sofrone e Senarco la storia del mimo si arrestò, per riprendere solo in età ellenistica.
Per poter godere della lettura di mimi bisogna arrivare al III secolo a.C. È, infatti, in quest’epoca che troviamo gli unici esempi conservati per intero di mimi letterari. Sono i cosiddetti ‘mimi urbani’ di Teocrito. Teocrito (Siracusa, 310/300-260 circa) era considerato già nell’antichità come l’iniziatore della poesia bucolica, di quella poesia, cioè, che vede protagonisti i pastori, i contadini, e la loro vita nei campi, immersi nella natura. Nell’opera teocritea, però, c’è spazio per una notevole sperimentazione formale della materia. Nel corpus degli Idilli[92] ci sono, infatti, poemetti mitologici, pastorali, lirici e anche componimenti che per il loro contenuto possono essere definiti mimi: il II, il XIV e il XV. Nairn e Laloy, in realtà, attribuiscono il nome di mimo a circa la metà della raccolta teocritea, intendendo con questo termine qualunque componimento in cui la parola viene data direttamente a uno o più personaggi. Si prenderanno qui in considerazione solo i tre mimi prima citati. Il primo dei tre mimi è l’ “Incantatrice” e ha una forma monologica. Protagonista è una giovane donna, Simeta, che, per ricondurre a sé Delfi, il giovane atleta che l’ha sedotta e abbandonata, fa ricorso alle pratiche magiche. Tra una fase e l’altra del rito, Simeta rievoca le ‘tappe’ della sua passione per Delfi; la rabbia la fa deviare per un attimo dai suoi propositi benevoli, portandola a pensare di usare la magia per dare la morte al suo amante, ma subito torna in sé, quasi rassegnata a sopportare la passione. Teocrito, in questo mimo, dava rilievo alla familiarità della gente comune con le pratiche magiche. Nel brulichio delle grandi metropoli ellenistiche, i ceti popolari, abbandonati a se stessi, erano esposti all’influenza di sub-culture, pericolosi mix di religione popolare, superstizione e ribalderia (come le definisce L. Canfora[93]). Teocrito non esprime giudizi morali, ma espone in modo lirico e letterario le condizioni di vita degli ‘esclusi’, di tutti coloro che non facevano parte del circuito economico e culturale delle grandi città ellenistiche.
Il secondo mimo, l’ “Amore di Cinisca”, è il più vicino alla commedia. Questa volta a essere sedotto, tradito e abbandonato è un uomo, Eschine, il quale si sfoga con l’amico per il tradimento di Cinisca. Il protagonista, forse in quanto uomo, non ricorrerà certo alle pratiche magiche per recuperare l’amore. La gelosia lo corrode troppo profondamente, preferisce arruolarsi, pur di allontanarsi da Cinisca; la guerra è il rimedio all’onore ferito.
Nel terzo mimo, “Le Siracusane”, la struttura è più complessa; c’è più ritmo, ironia e fantasia. È un mimo basato sullo sguardo e sulla chiacchiera, sull’osservazione e il commento, sulle voci e sullo spettacolo. Le due protagoniste, donne d’origine siceliota, si incontrano per recarsi in visita al palazzo del re ad Alessandria e commentano ogni cosa e ogni personaggio sul loro cammino. Gorgò e Prassinoe, le due ‘comari’, danno vita a tutti i cliché, letterari e non, del genere: sparlano dei rispettivi mariti, si fanno i complimenti per gli abiti, maltrattano le serve (sempre pigre, indolenti e un po’ sciocche). A questi motivi si unisce lo stupore per le bellezze e ricchezze che osservano e per la bravura dell’artista che intona un canto per Adone. Fanno a gara per esprimere tutta la loro ammirazione, in quel gergo dialettale che procura loro la presa in giro da parte dei ‘veri’ cittadini.
In Teocrito non si può parlare, nonostante certe tematiche o la descrittività di certe scene, di realismo in senso stretto. È, piuttosto, come la definisce Del Corno[94], un’arte della realtà, con esiti che sono un compromesso tra la concretezza della parola e la forza fantastica del pensiero. Nei casi citati era caratteristica la struttura dialogata, la quotidianità delle situazioni o dei sentimenti narrati, l’estrazione sociale dei protagonisti. Non si può parlare di diretta ispirazione letteraria da Sofrone, perché questi mimi erano destinati quasi sicuramente alla lettura, alla circolazione libraria, o, con minore probabilità, alla recitazione a cura di un solo attore mimico. Erano, poi, componimenti in versi, in esametri, ossia il metro tradizionalmente più vicino agli idilli veri e propri piuttosto che a composizioni di contenuto giambico, e l’ambientazione era urbana e non rurale. Si aggiunga a ciò l’opinione di Bernini[95], il quale nega qualsiasi parentela tra i due, giudicando Teocrito il meno adatto a riprendere e rinvigorire un genere realistico come il mimo dorico, per il troppo lirismo dei suoi versi.
Alla prima metà del III secolo a.C. appartiene, infine, il rappresentante forse più emblematico del genere, Eroda, con i suoi Mimiambi. Eroda, al contrario di Teocrito, si richiama più esplicitamente alla tradizione mimica e giambica, sia per la tematica che per la scelta metrica. Il titolo dato alla raccolta di mimi segna già la differenza programmatica: i suoi sono mimi in giambi. In realtà i suoi versi sono indicati con questa denominazione in fonti relativamente recenti (la più antica è Terenziano Mauro, scrittore e grammatico del II-III d.C.), proprio per indicare l’assoluta novità della sua poesia: l’uso sistematico di una forma metrica determinata. I suoi predecessori, come si è visto, preferivano adoperare la prosa, vari metri combinati o membri ritmici liberamente disposti. Eroda sceglie, invece, il coliambo, un metro che per il suo andamento disarmonico si rivela il più adatto a dare un’impressione di realismo ai dialoghi tra popolani. La materia dei mimi, però, non deve trarre ancora una volta in inganno; gli ambienti delle periferie delle grandi città ellenistiche, i piccoli commercianti, le serve, le comari in visita al tempio, prostitute e lenoni sono i protagonisti di un’opera che è tutt’altro che rozza o popolare. L’associazione, che spesso viene fatta, tra Eroda e Ipponatte, il giambografo del VI secolo a.C., può servire anche a chiarire quanto di letterario e raffinato ci sia nella poesia erodiana. Secondo molti critici, e a leggere il finale dell’VIII mimo, Eroda sente di essere il continuatore del giambografo Ipponatte. In Ipponatte egli, in effetti, poteva trovare quegli elementi che sarebbero stati fondamentali per la stesura dei suoi versi: la descrizione verista della vita quotidiana, senza idealizzazioni di sorta, ma anzi sul solco della discontinuità rispetto alla letteratura precedente; una lingua infarcita di espressioni popolaresche, proverbi, espressioni scurrili, nomi parlanti; richiami alla tradizione comica e quel metro dal ritmo così inusuale che lo rendeva particolarmente adatto ad un tipo di letteratura del quotidiano. Il richiamo ideale a Ipponatte non dovrebbe sorprendere più di tanto, in un periodo che vide il ritorno o recupero del poeta efesino da parte di molti letterati dell’epoca (si vedano i Giambi di Callimaco). Il nesso Eroda-Ipponatte è, però, forse solo meccanico. Ipponatte, infatti, deviava spesso verso il grottesco, il deformante, mentre Eroda manca di cattiveria, descrive i suoi protagonisti, anche i più beceri, con occhio benevolo, ne dà una valutazione quasi affettuosa. Quel che li accomuna, semmai, è il contrasto tra la loro figura di letterati raffinatissimi, che adoperano vocaboli inusuali ed eleganti, e la dichiarazione d’intenti che sembrerebbe trasparire dalle loro opere. Ipponatte si definiva il poeta dei bassifondi, per il suo gusto di trascrivere episodi e personaggi di bassa lega, come Eroda fa parlare lenoni e vecchie ruffiane, ma quei personaggi parlano una lingua che non è la loro, raffinata, di lontane reminiscenze omeriche, addirittura, nel caso di Ipponatte, attenta e regolata. Solo chi possedeva una cultura superiore (e, quindi, apparteneva ad un ceto sociale elevato) poteva permettersi quel linguaggio, e Ipponatte ed Eroda erano due coltissimi letterati. Il nesso con Ipponatte è sembrato più solido a Mastromarco, il quale cita Enzo Degani e i suoi “Studi su Ipponatte”, per argomentare meglio la convergenza letteraria tra i due. La poetica ipponattea, verista e nutrita di elementi popolari, era “rispondente in pieno alle istanze del poeta di mimi che intendeva conferire ai suoi sorvegliati componimenti la spontanea immediatezza della vita reale”[96]. Di altro parere Nicola Terzaghi, per il quale “Ipponatte è [...] un lirico: egli esprime ciò che sente e ciò che pensa, quasi a sfogar l’amarezza dell’anima sua. Eroda, invece, vuol richiamare l’attenzione di un più largo pubblico su ciò che descrive, e che obiettivamente descrive drammatizzando, dando alle sue fantasie l’aspetto di un’azione.”[97]
La parentela con Sofrone è stata vissuta, invece, con più naturalezza dalla critica. Bernini vi vede in comune la “descrizione [...] obiettiva, naturalistica [...] lirica e commossa, dell’ambiente e dei caratteri”[98], ammettendo come unica differenza la mancanza in Sofrone del licenzioso e scurrile che spesso si trova, a suo parere, in Eroda. La definizione dei mimi come scene dal vero o quadretto di genere poco si adatta, secondo Cataudella, alla produzione complessiva di Eroda, che, tuttavia può in alcuni casi avvicinarsi ai mimi sofroniani. Il IV mimo, ad esempio, descrivendo la visita di due donne al tempio di Asclepio, con le tante opere d’arte da ammirare, riporta alla memoria Le spettatrici ai giochi istmici di Sofrone. Eroda, però, si allontanò, poi, da questo tipo di mimo, “attuando una forma artistica nuova” che gli “consentì [...] di dar vita non freddamente generica ai personaggi, e di trarne effetti d’arte varissimi da più profonde esplorazioni d’anima e da intraviste possibilità di sviluppi drammatici”[99]. Cataudella cita i mimi I e V, che, dice, a prescindere dalla forma, che può anche essere monologica, sono dei “piccoli drammi in iscorcio, l’azione rappresentata in essi ha un principio e una fine, una preparazione e una soluzione”[100]. La questione della recitabilità dei mimi, non solo erodiani, sarà, però, affrontata più avanti.
Se bisogna scegliere tra Ipponatte e Sofrone, quale ideale progenitore dei mimi di Eroda, allora sarà più facile trovare una consonanza con il secondo. I versi di Ipponatte sono pieni di rabbia personale, aggressività, effetti comici e satirici ricercati, mentre nei versi di Sofrone e di Eroda “nessun elemento propriamente comico o satirico o parodico è possibile cogliere [...] e dove esso c’è, o sembra esserci, non è, probabilmente intenzionale.”[101]
La questione della presunta o effettiva parentela
artistica di Eroda e Teocrito investe anche la cronologia relativa alla loro
attività; ci si è chiesti, infatti, chi sia il predecessore dell’altro. Un
passo dell’VIII mimo erodiano ha portato a giudicarli contemporanei; in questo
mimo, infatti, sono dei pastori a sfidare il poeta nel suo sogno, e si è
pensato che potessero rappresentare la poetica teocritea e, di conseguenza, la
rivalità tra i due, possibile solo se contemporanei. L’appartenenza allo stesso
ambiente culturale è innegabile, ma l’opera di Teocrito mostra una varietà che
non appartiene alla poesia erodiana. I pastori non sono, certo, tra i
protagonisti prescelti da Eroda per i suoi dialoghi, ma non è solo questa la
differenza tra i due. Si guardi, ad esempio, alla scelta del metro. Teocrito
non abbandona l’esametro dattilico, d’ascendenza epica, neanche per i
cosiddetti mimi urbani e resta fedele, lui siracusano, allo ionico omerico
infarcito di termini dorici; Eroda si proclama continuatore di Ipponatte, ma
non si definisce giambografo, scegliendo il coliambo e una lingua del tutto
artificiale per i suoi protagonisti. Chi vuole istituire un confronto esente,
in teoria, da rischi pensa al mimo XV di Teocrito, “Le siracusane” e al IV di
Eroda “Le donne al tempio di Asclepio”. L’argomento, in effetti, ha dei tratti
comuni in entrambi: due donne che si recano ad assistere ad una festa o ad una
funzione religiosa, le chiacchiere futili tra le due, le lamentele sulle serve,
sui mariti, la natura, presto svelata, di popolane, l’ammirazione per le
meraviglie viste o udite. Le scene simili o le espressioni parallele
rappresentano, però, dei riscontri che la natura del soggetto rende
inevitabili. Argomento simile avevano anche il già citato mimo sofroniano delle
spettatrici ai giochi istmici, e, volendo guardare più indietro, anche i Θεαροί
di Epicarmo: questo, però, non li rende dipendenti l’uno dall’altro o
contemporanei. La trattazione, peraltro, è diversa nei due poeti ellenistici:
Teocrito fa scorrere la scena senza soluzione di continuità davanti agli occhi
del lettore, non risparmiandosi in particolari; Eroda, invece, divide il
racconto in più scene; scopo evidente del mimo teocriteo non sembra essere la
descrizione dei costumi, come in Eroda, ma la glorificazione di Tolomeo (in
questo senso la storia potrebbe essere un mero presupposto per il canto finale[102]).
Nairn e Laloy li dicono entrambi poeti della realtà, ma con sfumature diverse:
“Théocrite est un réaliste qui se sauve de la banalité par le lyrisme. Hérondas trouve dans certains
aspects de la nature humaine, pris sur le vif et degagés du fatras quotidien,
les motifs à surprise de sa fantasie véridique: c’est, comme nous dirions
aujourd’hui, un humoriste.”[103]
È da attribuire, tra gli altri, a Mastromarco, invece, il merito di aver individuato e sottolineato il “solido filo rosso”[104] che lega il mimo letterario e la commedia. Il critico cita, in particolare, la scelta di alcuni personaggi comune ai mimi e alla commedia: la mezzana, il lenone, ma anche le confidenze intime delle due protagoniste del mimo VI che trovano riscontro nel prologo della Lisistrata aristofanea[105]. Non sembra dubitabile che Eroda conoscesse la commedia attica, e, anzi, sapeva di certo utilizzarla in suo favore. A ben guardare, secondo il parere di Melero (che riporta un’opinione di Smotrytsch), sembrano più i caratteri in comune con la commedia rispetto alla tradizione giambica: “aunque la dependencia formal y linguística de Herodas respecto a Hiponacte...es innegable, hay en él un nuevo espíritu que le aproxima más a la Comedia que a los autores de yambos. El echo de que Herodas exponga no sólo los rasgos negativos de sus personajes, sino también los positivos.”[106] Bruna Veneroni[107] coglie, in particolare, alcuni temi della commedia che trovano riscontro nei mimi e che, anche se non fondamentali nell’economia dell’opera, aiutano a studiare la psicologia dei personaggi. Si riferisce, ad esempio, al tema dell’evasione, ossia a quel particolare stato d’animo che coglie il personaggio posto di fronte ad una difficoltà, che sceglie, per necessità sentita, di fuggire invece che affrontare il problema. Questo tema troverebbe riscontro negli Uccelli di Aristofane, nella scelta dell’Eschine teocriteo di arruolarsi e, nel V mimo erodiano, nella figura di Bitinna, che vuol sfuggire ad una decisione che è inevitabile. C’è poi il motivo dell’auto-accusa, ossia un atteggiamento passivo che scaturisce dalla consapevolezza della propria colpa e che ritroveremmo nella figura dello schiavo Gastrone nel V mimo. L’individuazione di precisi episodi ed espressioni, però, potrebbe procedere all’infinito per ogni parentela letteraria ipotizzata; quel che importa è che resti la certezza che Eroda, in quanto poeta dotto, conoscesse ed usasse a suo gusto l’enorme patrimonio culturale che il mondo greco aveva già accumulato.
Degli altri autori di mimi dell’epoca (Cercida, Fenice, Macone, Sotade) poco si conosce, e, in ogni caso, i risultati raggiunti dalla loro arte troppo distanti sono, per qualità, da quelli coevi di Teocrito ed Eroda, deviando essi verso propositi moraleggianti o degenerando le loro opere in mere raccolte di insulti contro il potente di turno.
Con Eroda si chiude, quindi, la storia del mimo greco. Un’ultima eco la troviamo dove meno ci si aspetta, nel II secolo d.C., in Luciano di Samosata. I suoi Dialoghi delle puttane, però, sono in prosa, ma comunque vicini, per il mondo che rappresentano, al mimo erodiano; segno che certi temi, come lussuria, amore, gelosia o avidità, sono senza tempo.
II.3
I Mimiambi: teatro o
letteratura?
Resta aperta ancora oggi la questione sulla destinazione dei Mimiambi. Le diverse opinioni in merito sono strettamente collegate all’individuazione del precedente letterario più immediato che ciascun critico individua. Chi ha visto nei mimi erodiani i successori di quelli sofroniani, ammette una loro possibile messa in scena, o, meglio, la possibilità che essi fossero stati scritti per essere rappresentati; chi, invece, li pone più vicini a Teocrito ne fa un ulteriore esempio di Buchpoësie, quindi composizioni destinate esclusivamente alla lettura. Mastromarco, nel suo lavoro “Il pubblico di Eronda”[108], rivede le posizioni di molti critici sull’argomento. Parte dall’ipotesi di Legrand[109], il quale sosteneva che i mimiambi potessero essere suscettibili solo di una recitazione monologica, ossia a cura di un solo attore che legge il testo al pubblico; il mezzo di trasmissione prescelto da Eroda, quindi, non sarebbe stato il visivo – auditivo proposto dal teatro, ma solo l’auditivo e il pubblico si sarebbe accontentato di essere semplice ascoltatore. Sulla scorta di Legrand anche Giorgio Pasquali[110] nega la recitabilità dei mimi, proponendone una lettura come Buchpoësie. Chi si oppone all’ipotesi della messa in scena, di solito usa come argomentazioni a favore: l’assenza di azione scenica (più marcata in alcuni mimi), l’eccessiva frammentarietà, la presenza di troppi attori sulla scena (non giustificata dalla brevità del componimento), i cambiamenti di scena in alcuni mimi. Pasquali, inoltre, si sofferma sulla difficoltà di distinguere la distribuzione delle battute in alcuni mimi, fatto che renderebbe impossibile la reale messa in scena. Legrand reputa che non sia credibile che Eroda “on ait pris la peine d’aménager un cadre pour y jouer des pièces d’une centaine de vers”[111]; si riferisce, in particolare, al mimo IV, il quale per soli 95 versi comporterebbe una messa in scena davvero impegnativa, con la presenza di statue, decori, quadri e tutte le opere d’arte presenti nell’Asclepeion. Per motivi simili non è plausibile la presenza in scena di ben sette attori (di cui solo quattro parlanti) nel mimo VII, per 129 versi. In altri mimi, poi, l’azione risulterebbe frammentaria o incongruente, come dimostrerebbe la scena ai versi 81-82 del I mimiambo in cui, mentre Tracia esegue l’ordine di portare un bicchiere di vino, le due protagoniste restano in silenzio (cosa impensabile per Gillide che non spreca certo il suo tempo). Queste argomentazioni, così dettagliate, non sono sembrate, tuttavia, totalmente convincenti a Mastromarco e neanche agli stessi sostenitori della tesi monologica, che, pur ammettendola come più probabile, non prendono posizioni nette[112]. Lo stesso Pasquali osserva, ad esempio, sulla frammentarietà che “in una composizione così ristretta l’azione non può svolgersi per intero, ma i capi del filo devono necessariamente pendere da una parte e dall’altra. Ogni mimo è per sua natura una scenetta, cioè un frammento.”[113] La brevità, quindi, di per sé, non poteva costituire un impedimento alla rappresentazione, perché i singoli componimenti potevano essere portati sulla scena uno dopo l’altro nella stessa occasione, in una sorta di moderno varietà. Mastromarco, a questo punto, procede all’analisi del testo per cercare una soluzione. In un testo pensato per la sola lettura da parte di un attore dovrebbe esserci un sistema di avvertimento dedicato ai destinatari, in Eroda, però, un elemento caratteristico è “l’assenza ovvero la sporadica, casuale presenza di riferimenti espliciti all’ambiente scenico in cui si svolge l’azione”[114]. Ciò sorprenderebbe solo se si trattasse di testi da leggere ad un pubblico di soli uditori, non se si pensa ad una loro destinazione teatrale. A ben guardare, poi, certe scene risulterebbero vuote e senza attrattiva se non portate sulla scena, come ad esempio la scena delle frustate al discolo del III mimo o la presenza della prostituta, indicata da Battaro nella foga del suo discorso, che doveva costituire un ‘coup de théâtre’. D’altra parte scene come quelle del IV mimo, con le molte opere d’arte viste e commentate dalle due protagoniste sarebbero risultate complicate su un palcoscenico. Terzaghi è fra quelli che vedono, invece, in questo mimo la prova che i mimiambi furono scritti per essere rappresentati; la descrizione del tempio e dei gruppi statuari non corrisponde, dice il critico, alla realtà archeologica dell’Asclepeion, che Eroda doveva ben conoscere, e, infatti, ai due edifici della realtà si sostituisce l’unico edificio, scelta dettata evidentemente da necessità sceniche[115]. Anche la tesi della rappresentazione teatrale non ha riscosso, però, un successo sicuro. Nairn e Laloy negavano tale possibilità a tutti i mimi, da quelli di Sofrone a Teocrito ad Eroda, adducendo come argomentazioni i cambiamenti di luogo frequenti in alcuni mimi, la presenza di personaggi muti, ma, soprattutto, la rapidità del dialogo che non avrebbe dato il tempo al pubblico di riconoscersi. Melero aggiunge che, a suo parere, tutti i dettagli sulla scena e nel corso dell’azione sono continuamente introdotti nel testo; e, inoltre, “la división dialógica del contenido en más de un personaje es pura aparencia, ya que no lo divide realmente en discurso – réplica[...] En estas condiciones, la representación escénica se hace superflua, ya que no puede añadir nada que no esté en el texto.”[116] Non bisogna certo cadere negli eccessi di Terzaghi[117] che, nella prefazione alla sua edizione dei Mimiambi, porta come prova l’effettiva messa in scena di alcuni mimi anche da parte di studenti napoletani nel 1921. Più moderato Cataudella che, ricordando la messa in scena di alcuni mimi, chiarisce che non tutti sono effettivamente passibili di realizzazione scenica e che il carattere teatrale, riscontrabile in alcuni mimi, non pertiene alla destinazione originale dell’opera ma solo ad una “felice attitudine”[118] del poeta. Per concludere, è ammissibile che i Mimiambi fossero destinati alla rappresentazioni nelle corti o nelle case delle famiglie più ricche e colte della società ellenistica, come suggerisce Mastromarco, ma è anche possibile una loro contemporanea o alternativa circolazione libraria. Per dirla con Romagnoli: “ogni opera d’arte d’indole drammatica o narrativa nasce [...] essenzialmente per la recitazione. [...] Che poi questa realizzazione scenica avvenga o non avvenga è questione esterna e di minima importanza”[119].
II.4
I Mimiambi
Il termine mimiambi fece la sua comparsa solo tardi, in Terenziano Mauro, verso la fine del III secolo d.C., e nel Florilegio di Stobeo nel V secolo d.C. Il termine fu adottato per necessità pratiche dai grammatici dell’epoca, interessati a distinguere i giambi dei mimi da quelli usati da Babrio per le sue favole. È probabile che da questa scelta di ordine tecnico si sia creato il caso ‘Eroda’: è un poeta di giambi, intesi non come semplice forma metrica, ma come genere caratterizzato da attacchi personali e aggressività verbale, o un poeta che sceglie i coliambi con l’unico scopo di rendere più vivace e credibile il dialogo tra i suoi personaggi, mescolando ironia e fantasia e tenendosi alla larga da ogni tentativo di ‘personalizzare’ il testo? La maggior parte della critica è concorde nel negare al testo erodiano il valore di testimonianza dei costumi correnti, con propositi moraleggianti più o meno evidenti. Le storie scelte dal poeta sono certo particolari, ma perché rappresentative non di una società intera allo sbando, quanto piuttosto di casi eccezionali e, perciò, tanto più stimolanti per un letterato.
La prima edizione dei Mimiambi risale al 1891, poco dopo la scoperta e acquisizione del papiro da parte del British Museum, con la cura di F.G. Kenyon. La prima traduzione italiana si ebbe pochi anni dopo, nel 1893, a cura di Giovanni Setti[120]. Quasi tutti gli autori delle varie edizioni concordano sulla statura poetica di Eroda, descritto come poeta ellenistico colto e originale, che ha ridato vitalità ad un genere ormai abbandonato da decenni; si registra, tuttavia, qualche voce fuori dal coro, ad esempio quella di G. Puccioni che, nel 1950, pubblicò una nuova edizione con lo scopo dichiarato di eliminare tutte le congetture sul conto dei Mimiambi e del loro autore che, a suo parere, non poteva essere considerato ‘poeta’, ma “soltanto un letterato, qualche rara volta abile, ma per lo più mediocre e piatto.”[121]
Il valore accordato ai versi di Eroda è stato in tutti questi anni strettamente legato alla loro interpretazione come testo letterario o testo teatrale. La questione, come si è detto nel paragrafo precedente, non è facile a risolversi, e anche un esame approfondito del testo poco aggiungerebbe a quello che già si è detto. Le lezioni del papiro, la distribuzione delle battute e una serie di altri elementi per così dire tecnici sono, infatti, tuttora discussi. Quel che è certo, e che aiuta in modo notevole l’interpretazione dei mimi, è l’appartenenza di Eroda e dei suoi versi al pieno ellenismo. I Mimiambi appaiono un prodotto tipico della poesia ellenistica del III secolo a.C. : lo confermano i caratteri presi da sfondi socialmente umili; il rimaneggiamento letterario di generi sub-letterari; il revival di un metro arcaico; la ricostruzione libera di un dialetto letterario artificiale; il richiamarsi all’autorità di un grande del passato quasi per legittimare la propria opera. Qualcosa in più però va detta sulla preferenza accordata, ad esempio, al mondo cosiddetto degli umili. Il poeta ellenistico, e così anche Eroda, non guarda a quel mondo con “istintiva solidarietà di classe e mirando a contestare la società contemporanea [...] ma dall’alto con l’occhio di chi appartiene ad un mondo diverso e spesso con humor”[122]. Eroda non scrive per tracciare un quadro reale, per fotografare la situazione delle grandi metropoli ellenistiche, ma si limita a simulare situazioni che appaiono realistiche grazie all’attento ed elegante lavoro sul dialetto, la metrica, la psicologia dei personaggi. I caratteri sono “semplici e piani, senza alcuna complicazione, senza che i personaggi si mettano mai in una situazione veramente drammatica. [...] La vita degli umili non conosce le complicazioni dei moderni romanzi psicologici e scorre tranquilla come un fiume in pianura. E se qualche volta si arresta per una situazione impreveduta, riprende poi subito il suo ritmo e va e va, senza che dell’ostacolo conservi più traccia”[123].
La lingua usata per far parlare i protagonisti dei mimi è composita come quella di tutti gli alessandrini. Una base ionica per richiamare a sé l’autorità di Ipponatte, mista ad atticismi da commedia antica e dorismi in omaggio all’origine del genere. Ogni personaggio parla una lingua coerente al proprio ruolo o mestiere e quando ciò non avviene è il risultato di una precisa scelta artistica: Eroda cerca lo scatto umoristico facendo parlare mezzane come letterati e lenoni come avvocati.
II.4.1 La tentatrice o la mezzana[124]
Due le protagoniste di questo mimo: Metriche, la padrona di casa, che ha il marito lontano, e Gillide, una vecchia mezzana. La scena si svolge interamente in casa di Metriche, al cui uscio viene a bussare Gillide, per farle una proposta che giudica allettante: un giovane atleta, ricco e bello, si è innamorato di lei ed è giusto che la padrona di casa pensi al suo benessere e ceda alle lusinghe del nuovo amore, invece di aspettare il suo uomo che se la spassa in Egitto. Usa molti argomenti per convincerla della bontà della sua proposta: la adula, insinua dubbi sulla fedeltà del suo uomo, fa riferimento alla ricchezza dello spasimante, ma Metriche rifiuta e la mezzana si ritira. Fin qui la storia per sommi capi, ma quel che la rende interessante è capire chi è realmente Gillide e, soprattutto, chi è realmente Metriche.
Il personaggio della mezzana è una figura tradizionale del teatro comico e del mimo. La troviamo in Sofrone, ma anche nelle Tesmoforiazuse (Θεσμοφοριάζουσαι) di Aristofane, dove è Euripide ad essere travestito da mezzana. La caratterizzazione si basa soprattutto sulla vecchiaia e sulla passione smodata per il vino; che sia vino puro però, cioè non annacquato com’era d’uso allora tra i Greci. Già questo particolare è indice della rozzezza culturale e sociale del personaggio, poiché il bere vino puro nel mondo greco era considerato ‘roba da Sciti’, cioè barbari. La scelta del verbo usato per indicare il bussare alla porta ci indica ancora che di persona rozza doveva trattarsi. Eroda usa ἀράσσει, ossia “battere violentemente” e ciò basta a far pensare a Metriche che si tratti di qualcuno che viene dai campi. In realtà questa espressione è stata interpretata in modi diversi dalla critica. Dice Metriche alla schiava Tracia: “Tracia, qualcuno bussa alla porta; non vai a vedere, che non sia qualcuno di casa, che giunge dai campi?” Chi vede in Metriche una moglie fedele interpreta questa espressione come l’ansia di una donna che aspetta notizie sul marito e spera che le vengano dagli uomini che lavorano nei poderi di famiglia[125]. Altri vi vede un’allusione alla natura rozza e ‘villica’ di chi ha bussato con tale foga e che deve essere ‘di famiglia’. Lidia Massa Positano[126] vede in Metriche non una moglie, ma un’amante fedele al suo uomo lontano, una εταίρα, e che ha un sussulto non appena sente bussare alla porta. Una donna innamorata e ansiosa avrebbe però interrotto il relativamente lungo scambio di battute tra la schiava e l’ospite, prima che quella apra la porta. Dopo un breve scambio di convenevoli, una battuta di Metriche dà occasione a Gillide di entrare più nel merito della questione che la interessa. Gillide si lamenta di essere vecchia e debole e Metriche le risponde: “Basta, non calunniare la tua età. Tu sei ancora capace, Gillide, anche di soffocare altri nella tua stretta!” Anche questo verso è stato variamente interpretato. L’espressione greca è χἠτέρους ἄγχειν e ha un riconosciuto doppio senso erotico che si potrebbe tradurre con “togliere il fiato”[127]. Questo significato è però ignorato da alcuni critici (tra questi Setti, Romagnoli, Puccioni e lo stesso Cataudella), che provano a giustificarlo come un fraintendimento della maliziosa Gillide. Replica la Massa Positano: “Anche il linguaggio di Metriche[...] è questa volta da etèra; si è appena ai preliminari del colloquio e Metriche è la prima, nell’ironico complimento rivolto alla ‘mammina’, ad usare un doppio senso che allude al mestiere antico di Gillide.”[128] Metriche mostra di avere una certa familiarità con la vecchia, detta ἀμμίη cioè ‘mammina’, il che sembrerebbe riportare ad un probabile ruolo di nutrice[129]. La familiarità dei toni indica che le due donne si conoscono, e bene, e si sono già frequentate in passato, e allora viene da chiedersi perché mai, se davvero Metriche è solo una buona moglie, dovrebbe aver conosciuto un tale personaggio, se non ammettendo che possa aver fatto parte del suo ‘entourage’. Il ruolo del personaggio di Gillide si rivela però per gradi. Eroda inaugura la sua vena ironica al verso 21, quando fa iniziare la lunga rhesis di Gillide con l’espressione ὦ τέκνον, allocuzione propria della lingua elevata, e mostrandola esperta dei topoi letterari della letteratura erotica alessandrina. Tutto ciò si rivelerà poi stonato in rapporto al personaggio.
Ma, o figlia, quanto
tempo è ormai che vivi da vedova consumando sola il letto abbandonato? Da
quando Mandri partì per l’Egitto sono passati infatti dieci mesi, e non ti
manda neppure un rigo di lettera, ma si è dimenticato di te e ha bevuto a una
coppa nuova.
L’espressione τὴν μίαν κοίτην è interpretata da molti come “letto abbandonato”[130], ma la traduzione proposta da Massa Positano sembra più adatta al ritratto che si vuol fare di Metriche; “il solo tuo letto” sarebbe un riferimento esplicito, infatti, alla vecchia professione di Metriche, che in passato ha ‘scaldato’ tanti letti, ora solo uno. Un altro doppio senso degno di una mezzana è nell’espressione “ha bevuto ad una coppa nuova”, dove il termine usato è χείλη ossia “labbra”, che può indicare tanto il bordo di una coppa quanto le labbra femminili.
Gillide passa, dunque, ad enumerare le mille meraviglie dell’Egitto, a cui sicuramente Mandris non avrà saputo resistere, e lo fa con totale entusiasmo, quasi senza riprender fiato, ma, probabilmente, senza rendersi davvero conto di quel che dice, come se ripetesse lo spot di un’agenzia per soggiorno e turismo, della serie “Venite a visitare l’Egitto!” E qui si rivela ancora la sua natura ‘provinciale’. Alla fine dice a Metriche:
Con che cuore tu
dunque, disgraziata, te ne puoi stare a scaldare lo sgabello? Così,
invecchierai senza accorgertene, e la cenere divorerà la tua freschezza
giovanile. Volgi gli occhi altrove e per due o tre giorni cambia il tuo umore e
fatti gaia e guarda verso un altro: una nave ormeggiata ad una sola áncora non
è sicura.
Il riferimento allo sfiorire della bellezza è tipico della poesia erotica, in più c’è il proverbio di ispirazione marinara che chiarisce in modo esemplare qual è la cosa giusta da fare. Per convincerla meglio esalta le virtù atletiche del pretendente, senza omettere le ricchezze di cui potrebbe godere Metriche. Qualcuno ha voluto notare nel nome dello spasimante un ‘nome parlante’, ossia che dichiara la natura dell’uomo: Grillo, dal verbo γρυλλίζειν cioè “grugnire”, come a dire “Porcello”!
Nonostante la lunga e allettante rhesis della mezzana, Metriche rifiuta l’offerta. È interessante però vedere in che modo lo fa:
Gillide, la bianchezza
dei capelli rende ottusa la mente. [...] ti giuro che queste cose io da
un’altra donna non le avrei sentite così tranquillamente,[...]lascia che [...]
scaldi lo sgabello, giacché nessuno ride sul conto di Mandri.
La sua fedeltà non è sentita, la preoccupa solo che si venga a sapere di un eventuale tradimento e che ciò renda oggetto di scherno il suo uomo.
La proposta, dunque, è rifiutata. Viene offerto da bere a Gillide come commiato, e questa si ritira con garbo, come con garbo e naturalezza aveva parlato prima (segno non della cautela che si deve ad una donna sposata, ma ad una etèra uscita dal ‘giro’). Nel commiato non rinuncia però ad un commento ironico, nutrito anche di ‘orgoglio professionale’:
Tu abbimi buona
fortuna, figlia, e mantieniti salda. A me possano rimanermi giovani Mirtale e
Sima [...]
II.4.2 Il lenone (il padron di bordello)[131]
La scena si svolge in un’aula di tribunale. I convenuti sono Battaro, di professione lenone, e Talete, un mercante di grano. La parte lesa è, a sorpresa, il lenone, il quale accusa il ricco Talete di essersi introdotto a forza in casa sua e di essere stato violento nei suoi confronti e in quelli delle sue ‘ospiti’. Inizia così una lunga arringa che sembra ricalcare quella dei logografi attici o certi monologhi euripidei. Eroda mette a frutto in questo mimo tutta la sua arte. Riduce l’azione al minimo e concentra la sua attenzione (e quella del pubblico) sulle parole pronunciate da Battaro. La messinscena ricorda la fisionomia dell’oratoria giudiziaria: appello iniziale, captatio benevolentiae, denigrazione avversario, ostentazione dei propri meriti. Dice Battaro nell’appello iniziale:
Signori giudici, non è
evidentemente della nostra nascita che siete chiamati a giudicare, né della
nostra reputazione, né se questo Talete ha la nave del valore di cinque
talenti, ed io invece non ho neppure il pane, per questo egli dovrà
prevalere[...]
Battaro sa che la sua professione sollecita pregiudizi e si appella affinché ciò non avvenga. Richiama, poi, l’attenzione sulla sua miseria fisica, con l’intento di mettere in ombra quella morale.
Il fulcro della vicenda viene subito presentato dal lenone, cercando di sottolineare che i suoi meriti non sono inferiori a quelli del mercante:
Forse vi dirà: “Sono venuto da Ace portando
del grano, e così ho fatto cessare la dura carestia”; ed io ho portato delle
prostitute da Tiro: per il popolo questo cosa vuol dire? Gratis infatti né lui
dà il grano da macinare né io, a mia volta, quella là[132].
Entrambi, quindi, portano dei benefici alla comunità, per far cessare carestie di qualunque tipo, ad essere diverso è solo il genere di consumo, indicato con un ironico gioco di corrispondenze: πυροὺς (grano) e πόρνας (prostitute). L’ironia si fa più pesante quando dalle espressioni crude e volgari il tono del discorso si innalza improvvisamente con il richiamo alla prassi giudiziaria e agli antichi legislatori.
Prendimi, cancelliere,
la legge sulla violenza privata e danne lettura, e tu, galantuomo, tura il foro
della clessidra per il tempo che egli parla, affinché, oltre il resto, non ci
si prenda, dice, è proprio il caso del proverbio, il culo e la coperta.
Peccato per la conclusione proverbiale; il lenone sembrava procedere con cognizione di causa. L’arte di Eroda consiste anche in questo, nel piegare alle proprie esigenze un patrimonio letterario notevole e indirizzarlo ad altre finalità.
Battaro non si risparmia neanche in colpi di scena, per meglio perorare la sua causa, e chiama all’ipotetico banco dei testimoni Mirtala affinché mostri i danni subiti:
Qua anche tu, Mirtala,
mostrati a tutti, non avere vergogna di nessuno. Considera gli sguardi di
costoro, che vedi qua a giudicare, sguardi di padri, di fratelli tuoi. Vedete,
signori, gli strappi che essa ha subito e dal basso e dall’alto, come a forza
di strappare ha reso spelate queste parti, questo scellerato[...]
Battaro partecipa al dolore della sua protetta, sembra impietosirsi per le sue condizioni, che però non manca di mostrare al meglio, denudandola. Un ultimo scatto però conclude l’arringa: dopotutto lui commercia e guadagna come fa Talete, e quindi: “Ami forse Mirtala? Nulla di grave. Io amo il pane: dammi questo e avrai quello.”
II.4.3 Il maestro di scuola[133]
Lamprisco è il maestro che dà il titolo al mimo, anche se non sembra il protagonista del mimo. Buona parte di esso è, infatti, dedicato al colorito racconto che una madre, Metrotima, fa delle prodezze del figlio, Cottalo. La madre, infuriata per il comportamento selvaggio e irresponsabile del figlio, vorrebbe dal maestro un atteggiamento meno comprensivo nei confronti di Cottalo, che a suo dire merita di essere fustigato. “Questo qua me lo devi scorticare a spalla, fino a che la sua anima trista non gli rimanga sulle labbra”, chiede la madre al maestro. E questi non si fa pregare più di tanto. Pronuncia un breve discorso che inizia con tono ironico e di fredda minaccia per poi virare verso uno scoppio d’ira:
Lodo, Còttalo, le
imprese che tu compi. Non ti basta più giuocare coi dadi per un attimo come
questi qui, ma frequenti la bisca, dove giochi ai soldi in mezzo ai facchini?
Io ti renderò più accostumato di una fanciulla, così da non muovere neppure una
pagliuzza, se proprio questo ti fa piacere. Dov’è la mia sferza dura, il nerbo
di bue, con cui concio gli incatenati e i segregati? Me la si dia in mano,
prima che io soffochi per la bile.
Troppo a lungo aveva trattenuto la sua rabbia il povero maestro, o, forse, lo scoppio d’ira è dovuto all’umiliazione di dover ricevere istruzioni sui metodi educativi da una qualunque popolana? Che sia vera questa seconda ipotesi forse lo dimostra il finale del mimo: Cottalo riesce a sfuggire, il maestro vede fallire il suo disegno di vendetta e riscatto, la madre si rassegna a dover provvedere da sola all’educazione del figlio.
II.4.4 Le donne al tempio di Asclepio[134]
Due popolane si recano in visita al tempio di Asclepio per un’offerta di ringraziamento e in attesa del rito ammirano le statue e i dipinti che decorano l’edificio. La tematica ecfrastica era molto comune nella letteratura ellenistica, perché offriva l’occasione di far sfoggio di cultura e di occuparsi dei particolari, di quel piccolo mondo di cui i poeti ellenistici si nutrivano. La cornice mimica, quindi, è sembrata a molti superflua. Certo non è centrale la rappresentazione veristica della cerimonia rituale, ma è, invece, centrale, anche in questo mimo, la descrizione dei caratteri delle due protagoniste. Còccala e Cinno sono senz’altro due donne umili, ma non sono rappresentate come tipi. Còccala è inesperta, senza volontà, impacciata, remissiva e si lascia guidare da Cinno, attiva, volitiva, imperiosa. L’ironia del poeta si riversa su entrambe le donne, quando rappresenta la prima in preda all’estasi, tutta provinciale, di fronte alle opere esposte e la seconda, sicura di sé, che osa anche giudizi critici sull’arte di Apelle. Vediamo il testo nelle parole pronunciate da Còccala:
Ah! Che belle statue,
cara Cinno! [...] Guarda quella ragazzina che guarda in su verso la mela: non
diresti di essa : “Se non prenderà la mela, subito spirerà?” [...] come quel
fanciullo strozza l’oca! Certo se non ci stesse davanti una pietra, diresti:
“Quest’opera da un momento all’altro si mette a parlare”. [...] Questo
fanciullo nudo, per esempio, se gli do un pizzicotto, non ne porterà il segno?
Giacché le carni che gli stanno addosso, nel quadro, sono come palpitanti,
calde calde; [...] E il bue [...]? Se non credessi di andare al di là di quel
che a una donna è consentito di fare, avrei urlato per la paura che il bue mi
facesse male [...].
Di fronte a tanta ingenua ed entusiastica ammirazione, Cinno, con piglio a metà tra una guida turistica e un critico d’arte risponde:
Seguimi, cara, e ti
mostrerò una bella cosa, quale non hai visto dacché sei al mondo. [...]
Veritiere, cara, sono infatti le mani di Apelle di Efeso in ogni genere di
pittura, né si potrebbe dire: “Quell’uomo una cosa vide, un’altra rifiutò”, ma
qualunque soggetto gli veniva alla mente, l’affrontava con ardore, deciso a
toccarvi il cielo.
Il mimo, come si è detto nei paragrafi precedenti, sembra stare sullo stesso filone dell’idillio XV di Teocrito. Lì però l’attenzione sembra concentrata sul canto finale, e un accenno ironico lo ritroviamo nella scena in cui le due siracusane vengono prese in giro per la loro pronuncia e cadenza dialettale; qui, invece, conta di più descrivere i caratteri singoli delle due donne, accomunate, pare, solo dalla partecipazione al rito.
II.4.5 La gelosa[135]
La gelosa del titolo è Bitinna, una ricca e matura signora, innamorata dello schiavo Gastrone, sospettato di infedeltà. Bitinna cerca la punizione per lo schiavo ma si fa convincere, pare, a desistere da propositi di vendetta dalla schiava prediletta Cidilla. Il personaggio di Bitinna si presenta subito come una donna sensuale, anzi, tutta sensi, che perde il controllo di fronte ad un presunto torto, ad una mancanza di rispetto, e rifiuta qualsiasi giustificazione. Romagnoli ha voluto interpretare questo atteggiamento così furioso come la paura, di una donna ormai fisicamente in declino, di vedersi preferire una donna più giovane dal proprio amante. Vale la pena soffermarsi su questa interpretazione per il solo fatto che Romagnoli stesso indica come età probabile di Bitinna i quarant’anni, definendola “l’età pericolosa”[136]. Ammettendo che nel III secolo a.C. le prospettive di vita fossero forse più ridotte, e che gli anni Quaranta in Italia rendessero tutti ancora ansiosi rispetto al futuro, l’annotazione di Romagnoli sul ‘declino dei quarant’anni’ fa, comunque, sorridere.
Questo mimo ha fatto parlare Cataudella di “dramma in iscorcio”[137], poiché nulla di generico sembra esservi. La stessa Bitinna non è ‘la’ gelosa, ma ‘una’ gelosa; è “brutale, volgare, sensuale, impulsiva; reagisce al tradimento[...], non con lo sterile tormento della gelosia, ma in una forma aggressiva di vendetta e insieme di riconquista; essa odia e ama, ma è tutta, e solo, senso.”[138] Lo provano le sue parole ad inizio mimo:
Dimmi tu, Gastrone, sei
così sazio di me che non ti basta più sbattere le mie gambe, ma stai sopra ad
Amfitea, di Menone?
E ancora, con un velato doppio senso affidato al termine μώραν:
Sono io che ho la colpa
di ciò, io, Gastrone, che ti ho posto fra gli uomini. Ma se allora sbagliai,
ora non troverai più che Bitinna è stolta come tu credi.
Il termine μώραν “alude principalmente a la estupidez e insensatez de una persona, pero también, en uno de sus usos meno frecuentes pero suficientemente constatado, puede referirse a la lascivia.”[139] In tal modo, conclude Llera Fueyo, in apparenza Bitinna dice che non sarà più stupida, ma il pubblico erudito, a cui di certo il mimo si doveva rivolgere, percepisce anche il doppio senso della parola e ne coglie l’humor.
La figura di Bitinna spicca per il confronto con gli altri personaggi, primo fra tutti lo schiavo Gastrone, umile, sottomesso e supplichevole, che di fronte alla furia della padrona-amante, implora:
Bitinna, rimettimi
questa mancanza. Uomo sono, mancai: ma quando un’altra volta mi coglierai a
fare qualcosa che tu non voglia, fammi marchiare.
Questo particolare, nella traduzione datane da Cataudella, si rivelerà utile nel prossimo capitolo, quando si metteranno a confronto i mimi lanziani con quelli di Eroda.
II.4.6 Le amiche a colloquio segreto[140]
Metro, signora ‘bene’ di Efeso, va a trovare la sua amica Coritto con lo scopo di scoprire chi è il valido artigiano che ha forgiato il βαυβών visto in casa di un’altra donna. L’oggetto del contendere è un fallo di cuoio, “uno dei ferri del mestiere delle donnine allegre”[141], come dice Romagnoli, ma che non disdegnavano neanche le donne di più alto rango. Metro lo ha visto in casa di Nosside, donna non ben vista dalla legittima proprietaria Coritto, che si chiede come sia finito nelle mani di una donna di tal fatta. Alla spiegazione di Metro sul giro complicato di prestiti, sbotta:
Donne! Questa donna un
giorno mi finirà. Io ebbi pietà di lei che mi pregava insistentemente, e glielo
diedi, Metro, prima che io stessa me ne fossi servita. Ed essa lo afferra come
una cosa trovata a caso e lo regala anche a quelle a cui non dovrebbe [...]
Metro cerca di placare l’ira di Coritto, lei così accomodante e remissiva al confronto, soprattutto perché le preme sapere chi è il bravo artigiano autore del βαυβών. Presto detto: è il calzolaio Cerdone, definito il calzolaio “più provvido verso le donne”.
Il mimo, nonostante l’argomento possa fuorviare, è tra i più leggeri. I caratteri sono tracciati questa volta con mano più leggera, senza eccessivo approfondimento, e si rinforzano l’un con l’altro. Eroda non voleva qui, evidentemente, caratterizzare due tipi, come aveva fatto altrove, ma disegnare un quadro generale della psicologia femminile. Lo fa però usando tutti i luoghi comuni del caso: la curiosità, l’eccessiva loquacità delle donne, la loro incapacità a mantenere un segreto, aggiungendovi soltanto uno spunto che fa contrasto con la dichiarata appartenenza a ceti alti: la disponibilità ad offrire perfino il proprio corpo per ottenere ciò che si vuole. Tutto ciò senza però cadere nel moralismo e senza forzare i toni, ma con leggerezza e naturalezza.
II.4.7 Il calzolaio[142]
La scena si svolge nella bottega del calzolaio Cerdone, dove un gruppo di donne si reca per acquistare. Che si tratti dello stesso Cerdone del mimo VI sembrano credere alcuni, per i riferimenti alla calvizie, alla loquacità e al debole per le donne già descritti: e parlano così di dittico. Queste sembrano però caratteristiche attinenti al tipo rappresentato, e, in ogni caso, poco aggiunge alla nostra conoscenza dell’arte di Eroda il sapere se si tratti o meno dello stesso personaggio. Quel che conta è notare con quale scioltezza il calzolaio passi da un tono all’altro a seconda dell’occasione: burbero e intollerante con i servi diventa poi gentile, complimentoso e insinuante con le clienti.
Bisogna che ritorniate
a casa, signore, con le braccia cariche. Esaminate voi [...] ciò che il cuore
di ciascuna di voi desidera, ditelo, così che possiate comprendere perché donne
e cani divorino il cuoio.
Cerdone sa dove colpire le donne, non al cuore ma al piede!
Suvvia, qua il piedino;
che io lo ponga nella scarpa. Bah! Non c’è proprio da aggiungere o da togliere
nulla. Tutte le cose belle vanno bene alle belle.
Non è una caricatura; la modernità, attualità e verisimiglianza del personaggio sono facilmente rintracciabili anche oggi, nelle nostre esperienze. Non c’è venditore, mercante, che non si faccia complimentoso oltre misura con i clienti, si lamenti per i costi eccessivi del lavoro, degli aiutanti pigri e indolenti, della perizia del proprio lavoro rispetto a quello di un concorrente.
II.4.8 Il sogno[143]
Lo stato frammentario in cui si trova questo mimo ha reso difficile la ricostruzione e la sua interpretazione. Si potrebbe dividere in due parti: nella prima un personaggio (si discute ancora se sia uomo o donna) sveglia due schiave dal loro sonno per poi raccontare ad una di esse, sua confidente, il sogno che ha appena fatto; nella seconda parte, il poeta stesso interviene a decifrare il significato simbolico del sogno.
Si tratta, come ricorda Bruna Veneroni[144], di un sogno allegorico, la cui forma volutamente oscilla tra realtà e finzione, venendo a spiegare così l’apparente dissonanza tra le due parti.
Nelle linee essenziali il sogno è questo: il protagonista salva un capro dal burrone e lo trascina con sé; incontra dei pastori, intenti a celebrare dei riti, che sgozzano e fanno a pezzi il capro e con la pelle costruiscono un otre sul quale tenersi in equilibrio; nessuno dei pastori riesce nell’intento, solo il protagonista; nel momento di ricevere il premio gli si fa incontro un vecchio che lo minaccia col bastone; accorre un giovinetto che stabilisce la parità fra i due.
A questo punto c’è l’interpretazione del sogno: il capro salvato dal burrone e che i pastori fanno a pezzi sono rispettivamente l’opera del poeta e i critici invidiosi. Veneroni insiste sulla centralità del capro = τράγος, ossia il termine da cui deriva τραγῳδία (la tragedia o il genere drammatico), perché pensa che Eroda voglia con ciò rivendicare il carattere drammatico della propria opera, e, insieme, l’originalità rispetto al modello, che scatena le invidie dei pastori-critici, abituati a poesia mimetica più superficiale.
Il momento della gara è denso di rustica comicità, con quei pastori tanto sicuri di sé e così violenti nell’uccisione del capro che ora oscillano pericolosamente sull’otre e rotolano in terra. Il ridicolo nasce anche “dall’attrito tra la vacuità dell’impresa e l’impegno con cui tentano di portarla a buon fine”[145].
Il vecchio iroso è sembrato a molti un riferimento ad Ipponatte, che, in questo caso, si sentirebbe spodestato dal suo ruolo dalla poesia di Eroda. Per quel che sappiamo della personalità del poeta efesino, è verosimile che possa trattarsi di lui; i suoi versi erano densi di aggressività e rimostranze. Per Smotrysch[146], invece, non è credibile che si tratti di Ipponatte. L’azione del mimo si svolge probabilmente ad Alessandria, o è comunque strettamente legata alla vita letteraria della città in quei tempi, quindi poco c’entra un poeta del VI secolo. Si può più facilmente pensare, sempre a parere dello studioso russo, ad un coetaneo e rivale di Eroda, una sorta di Ipponatte redivivo per le sue scelte artistiche. In questo caso si dovrebbe allora pensare a Callimaco e ai suoi Giambi. All’epoca i due poeti seguivano strade diverse; Callimaco “essendo al servizio dei potenti della terra, nutriva profondo disprezzo per il popolo semplice; il secondo (Eroda), invece, ritraendo la vita degli uomini semplici, non aveva timore di richiamare l’attenzione dei suoi contemporanei sui lati bui di questa esistenza e di manifestare la sua simpatia per la gente umile”[147]. Il fatto poi che definisse Callimaco ‘vecchio’ sta ad indicare che le idee, il programma politico del rivale era destinato a non avere futuro. Ha, in effetti, più senso vedere nel vecchio iroso un rivale come Callimaco piuttosto che Ipponatte, che Eroda richiamava come modello; non avrebbe senso, in questo caso, l’aggressione.
Il giovinetto che interviene per arbitrare la lite è stato riconosciuto come Dioniso dai più, e in questo modo Eroda avrebbe dunque scelto di richiamarsi ad un’autorità superiore per affermare la propria arte. Altri, invece, vi hanno voluto scorgere Tolemeo, il re amante delle lettere e delle arti, il miglior datore di lavoro possibile per un artista.
Qui terminò il mio
sogno. [...] Quello che ho visto in sogno io lo giudico così.
Con queste parole inizia la seconda parte del mimo, dove il poeta si sovrappone al personaggio che prima gli ha fatto da schermo. Egli interpreta il sogno, pronunciando una sorta di autocertificazione del proprio talento.
Il fatto che io tiravo il bel capro fuori dal burrone significa che avrò un dono dal bel Dioniso. Il fatto che i caprai lo facevano a brani a forza nel celebrare i loro riti sacri, e si dividevano le sue carni, vuol dire che moltissimi critici letterari faranno strazio delle mie membra, cioè delle mie fatiche [...] Il fatto che io credevo di riportare, io solo, il premio, mentre in molti erano stati a calpestare l’otre pieno d’aria, e che ho avuto un trattamento uguale a quello del vecchio in collera, vuol dire che o le mie poesie mi chiameranno [...]a grande gloria a causa dei giambi, o una seconda istanza mi assegna il compito di cantare ai miei Xuthidi in metro zoppicante dopo il vecchio Ipponatte.
Capitolo III
Eroda e Lanza: storia di una
parentela forzata
Nel 1890 fu scoperto e poi pubblicato da F.G. Kenyon, filologo inglese, un papiro egiziano risalente al I sec. a.C., il quale restituiva sette composizioni intere in coliambi, più frammenti di un ottavo. Quei versi (a cui poi fu assegnato il titolo di Mimiambi dai grammatici del III sec. d.C.) furono attribuiti ad Eroda, poeta greco d’epoca alessandrina, di cui poco si sapeva allora, e poco di più oggi.
La scoperta ebbe grande risonanza in Italia con le traduzioni di G. Setti e N. Terzaghi, tra le prime. Siamo tra il 1913 e il 1925.
La circolazione e lettura di quei testi avvenne, quindi, in un’epoca in cui era ancora viva la poetica verista e ciò contribuì a fare di Eroda quasi un precursore del verismo.
Nel 1927, nel pieno delle emozioni suscitate da quelle letture, furono pubblicati i Mimi siciliani di Francesco Lanza. Il titolo originario, pensato dall’autore, era Storie di Nino Scardino, ossia raccolta delle storie sentite da un uomo del popolo (il mezzadro di casa Lanza). Il titolo finale fu, invece, suggerito da Ardengo Soffici, a cui lo scrittore valguarnerese aveva affidato le sue storie. Lo stesso Soffici ci chiarisce quale fu il motivo che lo spinse a tale scelta: per “quei brevi componimenti di carattere popolare, critico e faceto ad un tempo [...] gli consigliai la definizione di Mimi (avevo allora tra mano quelli di Eronda)”[148]. Soffici vide delle assonanze tra i due testi e Lanza accettò il suggerimento. E fece bene a giudicare dai risultati. Il libro, infatti, nonostante le lamentele dell’autore sulla sua fortuna, ebbe buona risonanza allora e in seguito, seppur non con l’ampiezza di pubblico che ci si poteva aspettare. La critica da subito si dedicò a quelle pagine così innovative e tradizionali ad un tempo, chissà, forse spinta dalla curiosità che quel titolo suscitava. Il rovescio della medaglia si presentò però sotto la forma dei giudizi affrettati e condizionati da una parentela con un genere così lontano nel tempo. Il primo ad occuparsi in modo più attento di questo problema è stato Salvatore Di Marco, nel suo volume “Storia incompiuta di Francesco Lanza”[149]. Le perplessità di Di Marco nascono già dal fatto che Soffici non si curò di chiarire in modo critico e motivato la propria scelta. Noi non possiamo conoscerne le ragioni effettive, ma siamo autorizzati dalle stesse parole di Soffici ad ipotizzare che si trattasse di “suggestioni del tutto provvisorie [...] e dettate quasi a caldo [...] subite per la lettura forse non adeguatamente approfondita dei ‘mimi’ di Lanza”[150]. Le storie lanziane, infatti, a parer di Di Marco, non erano state allora ancora ben capite nel loro spirito e valore autentico e quella scelta, inevitabilmente, portò a “forzature interpretative ambigue e forse fuorvianti letture”[151].
Sorte simile sembra aver avuto Eroda. Dice Antonio Melero: “Cuando en 1891 se publicó por vez primera el texto de Herodas, el nuevo poeta fue saludado como la revelación de un género insospechado dentro de la poesía helenística, como el representante de un realismo sin compromisos, como el antípoda del arte académico representado por el jefe de la escuela: Calímaco.” E continua: “Era natural [...] que así fuera, ya que el descubrimiento tuvo lugar en un momento en que se libraba la batalla por y contra el Naturalismo y Realismo en la literatura moderna. Los juicios que [...] se emitían eran programáticos y, a fuerza de ser repetidos, pronto se convirtieron en tópicos obligados de cualquier manual de literatura griega.”[152] Si abbinò spesso la definizione di verista o realista con l’individuazione in Eroda di un poeta popolare, che prende spunto per i suoi versi dagli ambienti più umili. L’analisi dei mimiambi nel capitolo precedente ha mostrato quanto poco di popolare e naturale vi fosse, invece, in quei versi. Allontanandosi dagli entusiasmi veristici e dai giudizi di poeta “massimamente spontaneo e naturale, è venuto fuori poco alla volta un poeta dotto, che scrive componimenti d’arte rinnovando e fissando un genere [...] e che dev’essere giudicato nel fervore di rinnovamento letterario di cui è caratteristica la prima metà del III secolo”[153]. Ciò non significa che nelle sue pagine la rappresentazione realistica delle cose e dei personaggi sia assente, ma, come dice Mastromarco, l’adesione al realismo “non è espressione politica di un poeta progressista portatore di una ideologia alternativa, ma piuttosto [...] adesione alla moda letteraria di quella che è l’élite della società ellenistica.”[154] Egli, dunque, filtra la realtà attraverso la sua esperienza letteraria.
Fin qui i fraintendimenti. Per avere un’idea più precisa di quanto i due autori possano avere in comune, si potrebbe procedere forzando il gioco della ricerca, spulciando qua e là tra mimi e mimiambi.
Procedendo dall’universale al particolare, si può dire che in comune i due hanno senz’altro il fatto di essere due scrittori colti, non certo vergini di letteratura, che scelgono di guardare agli strati più bassi della società, senza pronunciare sentenze morali o limitandosi a deriderne i soggetti, e che adoperano un linguaggio colto anche per descrivere i particolari più sordidi.
Eroda descrive quasi con simpatia e sfumata malinconia il padron di bordello del II mimo, che si preoccupa della miseria fisica per distrarre l’attenzione dei giudici dalla miseria morale del suo mestiere; così anche per la ruffiana del I mimo; descrive con naturalezza e leggerezza le confidenze intime delle amiche nel VI mimo, prototipi di una donna ‘liberata’.
Lanza rende le donne, anche quelle infedeli e lussuriose, le protagoniste di storielle divertenti e mai volgari; i cornuti son visti con compatimento misto a riso e i cornificatori glorificati per la loro astuzia e fantasia.
Un gruppo di mimi e mimiambi potrebbero essere raggruppati sotto il titolo “Πυροὺς, πόρνας e il ‘mezzo pane’ ”. Nel II mimo di Eroda il lenone fa presenti ai giudici i meriti, che giudica parimenti importanti, suoi e del mercante Talete.
Forse vi dirà: “Sono
venuto da Ace portando del grano (Πυροὺς),
e così ho fatto cessare la dura carestia”; ed io ho portato delle prostitute (πόρνας)
da Tiro: per il popolo questo cosa vuol dire? Gratis infatti né lui dà il grano
da macinare né io, a mia volta, quella là[155].
Ora vediamo la ‘risposta’ di Lanza:
Andati a letto, il villarosano se la sentì venire, e partì
per il fatto suo; ma la moglie, [...] lo respingeva [...]:
-
Levatevi di qua, malcristiano che siete! Non
mi date pane, e poi vi frulla cotesto?
E lui:
-
O non lo sapete che questo è mezzo pane,
locca che siete?
Metriche nel I mimo si sottrae alle lusinghe della vecchia mezzana, vuol restare fedele al suo uomo lontano, ma non per scelta istintiva quanto perché Mandris non venga deriso per il tradimento.
Gillide, la bianchezza
dei capelli rende ottusa la mente. [...] ti giuro che queste cose io da
un’altra donna non le avrei sentite così tranquillamente,[...]lascia che [...]
scaldi lo sgabello, giacché nessuno ride sul conto di Mandri.
Nel mimo lanziano al mazzarinese, cui è stato riferito di un possibile tradimento della moglie, importa solo che del fattaccio essa non riporti la ‘stampa’.
Infuriato, corse a casa minacciando lampi e tuoni, e alla
moglie [...] domandò s’era vero che ci lasciava ogni volta la stampa.
E quella, facendosi la croce:
-
La stampa, marito mio?o che vi pare che egli
sia un gonzo? Se non ci credete, possiamo fare la prova alla vostra presenza.
[...] vedendo che tutto era meglio di prima, tornò lieto e
sereno:
-
O che mi andavano dunque contando che ci
lasciava ogni volta la stampa, se qua non c’è niente e anzi così si coltiva
senza che io mi prenda fastidio?
Anche i commentatori possono aiutare in questo gioco. Calvino nel suo commento ai mimi lanziani parla del tradimento come di ‘mancanza’, prendendo spunto dalle parole pronunciate dal nicosiano:
- Moglie mia, non mi
fate mancanza, mentre non ci sono, che al ritorno lo so, e ne voglio ragione.
Ma alla donna non basta “il pane che ha in casa” e l’uomo chiede spiegazioni:
- O che volete, marito
mio? Tutti facciamo le mancanzelle: non ci pensate quando voi perdeste il
falcetto[...] e io non vi dissi nulla e ve la perdonai?
Eroda fa dire, nella traduzione di Cataudella, allo schiavo Gastrone, accusato di tradimento dalla padrona-amante:
Bitinna, rimettimi
questa mancanza. Uomo sono, mancai: ma quando un’altra volta mi coglierai a
fare qualcosa che tu non voglia, fammi marchiare.
Altro tratto in comune: il racconto non si risolve mai in tragedia, anche laddove la materia lo permetterebbe. Omicidi, scoperta di tresche e tradimenti, schiave lagnuse, in entrambi gli scrittori vengono raccontati con il distacco dell’ironia. Come dice Terzaghi: i caratteri sono “semplici e piani, senza alcuna complicazione, senza che i personaggi si mettano mai in una situazione veramente drammatica. [...] La vita degli umili non conosce le complicazioni dei moderni romanzi psicologici e scorre tranquilla come un fiume in pianura. E se qualche volta si arresta per una situazione impreveduta, riprende poi subito il suo ritmo e va e va, senza che dell’ostacolo conservi più traccia”[156].
Ricordando la querelle sulla recitabilità dei mimiambi, viene naturale pensare alle prove a favore addotte da Terzaghi nel commento alla sua edizione dei Mimiambi. Il critico cita una messa in scena fatta da studenti napoletani nel 1921, riuscita grazie alla scelta attenta di accorgimenti tecnici. Anche i mimi lanziani sono stati rappresentati ricorrendo ad espedienti che potessero supplirne i tempi morti o l’eccessiva brevità di alcuni episodi; una prova è lo spettacolo Muscarìa[157], che mescola i mimi con le fiabe dei fratelli Grimm, avendo cura di scegliere quelle di stolti e furbi, con radici popolari più marcate.
Volendo esagerare: il mimo ha riconosciute origini doriche. Come si è visto nel II capitolo è nato, presumibilmente, in Sicilia, o, almeno, qui è diventato genere letterario con Sofrone prima e Teocrito poi. Si vuol forse negare che Lanza sia siciliano?
Concordiamo con Di Marco che le storielle lanziane nascono nella fantasia dell’autore come trascrizioni letterarie di racconti e aneddoti sentiti dal popolo, mentre Eroda fa letteratura a tavolino. Sembra strano, inoltre, che dopo Soffici nessuno si sia posto realmente il problema di giustificare quel titolo. La storia del mimo, come genere letterario, appare tutt’oggi troppo farraginosa per permettere una disamina completa del genere e dei suoi accoliti. Certe tematiche, poi, non conoscono tempo e spazio, ciò che varia è il trattamento che viene loro riservato. Alla luce di tutto ciò, ci sembra azzardato apparentare i racconti lanziani con i lontani mimiambi. Nonostante ciò, non giudichiamo condannabile l’operazione voluta da Soffici, che ha prodotto effetti benefici sulla fortuna e la circolazione del libro lanziano; una buona scelta editoriale che ha guardato al pubblico più ‘acculturato’ e al modo di rendere più facilmente accettabili certi aneddoti. Forse di mimo lanziano si potrà continuare a parlare dopo la lettura della definizione che un altro scrittore siciliano, Vincenzo De Simone[158], dà del mimo:
Il mimo è frutto della
nostra terra; il quale da acerbo per primitiva scurrilità, è diventato succoso
attraverso il frizzo e il sarcasmo.
Oggi è annotazione
narrativa, in cui partecipa alle volte un solo interlocutore, che con battuta
improvvisa fa ridere e castiga ridendo.[159]
De Simone, rispetto a Lanza, ha potuto scegliere se chiamare o no i racconti Mimi. E lo ha fatto ispirandosi a Lanza e non ad Eroda; chiarisce, infatti, di aver raccolto dalla sua memoria pochi racconti “per averli sentiti a Bellarrosa, quando ero fanciullo, e taluni dalla voce [...] di mia madre, che d’ogni cosa del nostro paese andava orgogliosa, anche se fossero parole.”[160] Anche l’origine di questi racconti, quindi, non è nella tradizione letteraria di un popolo, ma nelle tradizioni orali. Leggiamo due mimi di De Simone che ci sembrano più vicini per spirito.
Il primo si intitola “Il marito che dormiva sol”:
C’era una volta un
marito che mal sopportava in letto la compagnia della moglie, e vi giaceva da
solo; ma quando ne aveva disio, le dava segnale di un fischio, e quella veniva
a posarglisi accanto[...]
Al marito con gli anni
si restrinse il becco e per questo, ricordando che i bambini si aiutano col
fervorino, e similmente si pratica con gli asini per farli bere, si aiutava
ogni volta egli stesso esortandosi, quando aveva il pizzicore di cambiar acqua.
E la moglie, di
lontano, che sentiva nel sonno:
- Marito mio, a me
volete?
E ancora, “Il viaggiatore e le mosche”:
Venne una volta a
Bellarrosa uno di quei tanti viaggiatori che girano il mondo, il quale delle
mosche, che sono in ogni dove, aveva grande fastidio.
E sciò di qua, e sciò
di là, a un certo punto sbottò a dire che al suo paese non se ne vedeva mai
una.
Rispose un
bellarrosano:
- E la ragione c’è: a
Bellarrosa la gente sta sempre con la bocca chiusa!
Vorremmo concludere questo capitolo e questo lavoro con la speranza di poter affrancare l’opera lanziana da parentele forzate, per quanto relativamente feconde, e avviare un processo di rilettura dei mimi che possa premiare il loro autore. Ci sembra che per fare un buon passo in avanti possa essere utile quanto ha scritto Maria Nivea Zagarella[161] su “La Sicilia” del 6 novembre 2006. Di fronte alla trivialità giustificata dall’audience di tanti showman e reality e alla “antropologia consumistica della demenza collettiva, che adulterando frammenti di realtà, spaccia per spettacolo e intrattenimento sciocchezzai grevi di trivialità” ci si rende conto che “l’umana intelligenza e sensibilità hanno bisogno di altro”. E allora “meglio una buona ‘lettura’, anche spassosa e piccante, purché condotta con sottile ironia e grande professionalità letteraria.” I Mimi siciliani abbondano di “sesso, sciocchezza, empietà, ma di una tale saporosa leggerezza nella misura breve delle storie, nella arguta tessitura linguistica e para-dialettale, nella analitica, sorridente ricostruzione del reale contesto antropologico siciliano e paesano dell’epoca, da risultare alla fine una amena denuncia di nostri ancestrali miti, vizi, limiti e una implicita proposta di rinnovamento.”
Conclusioni
Nella prima parte di questo lavoro si è tracciato un profilo biografico
dei due autori oggetto di studio, mettendo in luce le rispettive personalità e
poetiche all’interno del periodo storico-letterario in cui vissero. Entrambi
rappresentano l’esempio di come si possa far convivere la tradizione con
l’innovazione; l’uno, Eroda, dando nuova vitalità ad un genere vecchio di
secoli e di origine popolare, l’altro, Lanza, ammantando di letteratura e
raffinata arte la materia più antica ed umile: i racconti popolari della
tradizione siciliana.
Nella seconda parte si è proceduto alla ricerca di assonanze all’interno
delle loro opere principali, rifiutando la tesi che li vuole apparentati dalla
scelta del genere. Si è dimostrato come le presunte assonanze stilistiche e
tematiche tra i due siano il risultato di una scelta arbitraria di Ardengo
Soffici, dettata a caldo dalle emozioni che avevano suscitato le recenti e
contemporanee letture dei Mimiambi di
Eroda e dei Mimi di Lanza. Non si è
voluto giudicare però del tutto negativa l’operazione editoriale di Soffici,
che, pur forzata, si è dimostrata feconda di risultati, per la buona
circolazione e considerazione critica che ha accordato all’opera di Lanza.
Si è dimostrato, inoltre, come le presunte tematiche in comune siano in
realtà temi senza spazio e senza tempo, che possono appartenere a qualunque
letteratura, ieri come oggi. Come dire: tutto è cambiato, nulla è cambiato: non
ci resta che ridere!
Bibliografia
La bibliografia finale è suddivisa in due parti, una dedicata a
Francesco Lanza, l’altra ad Eroda.
Si è scelto di adottare per entrambe un ordine cronologico inverso.
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INTRODUZIONE 1
I. FRANCESCO LANZA E I MIMI
SICILIANI 9
I.1 Biografia 9
I.2 Lanza scrittore nel quadro storico-letterario del
primo novecento 16
I.3 I Mimi
siciliani 30
I.3.1 La natura 43
I.3.2 L’erotismo 52
I.3.3 Sacro e profano 68
I.3.4 Poveri e poveri 81
I.3.5 Il
caropipano e il piazzese 85
II. ERODA E I MIMIAMBI 93
II.1 Biografia 93
II.2 Eroda, il mimo e l’ellenismo 98
II.3 I Mimiambi:
teatro o letteratura? 116
II.4 I Mimiambi 121
II.4.1 La mezzana 123
II.4.2 Il lenone 128
II.4.3 Il maestro di scuola 131
II.4.4 Le donne al tempio di Asclepio 132
II.4.5 La gelosa 134
II.4.6 Le amiche a colloquio segreto 136
II.4.7 Il calzolaio 138
II.4.8 Il sogno 139
III. ERODA E LANZA: STORIA DI UNA PARENTELA FORZATA 143
CONCLUSIONI 154
BIBLIOGRAFIA 156
[1] G. Mazzocato, Mito e modernità (per una
decifrazione del mondo moderno in compagnia di J.P.Vernant), Treviso, 2005
[2] S. Li Bassi, Premessa a Francesco Lanza, Palermo,
Ila Palma, 1989, p. 7-8
[3] L. Sciascia, La corda pazza, Milano, Adelphi, 1991, p.166
[4] V. Santangelo, “Mimi di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p.66
[5] G. Cottone, “Profilo di Francesco Lanza”, in
Francesco Lanza, Ila Palma, Palermo,
1989, p. 16-17
[6] C. Pelizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano, Hoepli, 1929, p. 388
[7] Si è scelto per questo lavoro di far riferimento all’edizione dei Mimi siciliani curata da I. Calvino, 1971; per i Mimiambi di Eroda ci si riferirà all’edizione di Q. Cataudella, 1948.
[8] G. Titta Rosa, “Piccola guida di F. Lanza”, La Fiera letteraria, 26/6/1927
[9] N. Basile, Francesco Lanza, Storia e terre di Sicilia e altri scritti inediti e rari, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1953, p. 6
[10] Tutte le citazioni dalle lettere ad Aurelio Navarria sono tratte dal volume di S. Zappulla Muscarà , F. Lanza.1897-1933. Opere, Catania, La Cantinella, 2002, p.821 e sgg.
[11] Sappiamo da Sciascia (“Note pirandelliane”, in La corda pazza, Torino, Einaudi, 1970, p.144) che la stessa novella fu poi inviata anche a Pirandello.
[12] C. Sofia, Sicilia come trappola, Siracusa, Ed. dell’Ariete, 1989, lettera del 21 maggio 1931
[13] Lettera del 4 settembre 1931.
[14] E. Barnabà, “La pagina nera di F. Lanza”, pubblicato la prima volta sul sito web www.paroledisicilia.it, il 12 dicembre 2006; ora anche sul sito dedicato www.francescolanza.it
[15] C. Sofia, op.cit., lettera del 14 maggio 1931
[16] C. Sofia, op.cit., lettera del 27
settembre 1932
[17] N. Zago, “L’itinerario narrativo di Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 77
[18] N. Zago, op. cit., p. 80
[19] C. Pelizzi, Le Lettere italiane del nostro secolo, Milano, Hoepli, 1929, p. 388
[20] S. Rossi, “F. Lanza”, in AA.VV. Novecento siciliano, Catania, Tifeo, 1986, p. 133
[21] N. Basile, op. cit., p. 5
[22] N. Basile, op. cit. , p. 19
[23] N. Basile, ibidem
[24] Lettera del luglio 1921.
[25] A. Di Grado, “Il mondo offeso di F. Lanza”, in Finis Siciliae, Acireale-Roma, Bonanno, 2005, p. 80
[26] G. Cottone, “Profilo di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 11
[27] S. Sciascia, “Francesco Lanza”, in La corda pazza, p.165
[28] S. Sciascia, op. cit., p.166
[29] G. Cottone, op. cit., p. 11
[30] G. Cottone, op. cit., p.13
[31] S. Di Marco, “Vita e opere di F. Lanza narratore siciliano”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 27
[32] G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971, p. 81-85, p. 305 e passim
[33] A. Di Grado, op. cit., p. 79
[34] A. Soffici, numero speciale del “Tevere” dedicato a F. Lanza, 6 febbraio 1933
[35] La questione della parentela più o meno forzata con Eroda sarà affrontata più avanti.
[36] Il volume è diviso in sezioni: Mimi siciliani, Mimi arabi, Novelle, prose dall’Almanacco per il popolo siciliano, Fanciullezza, Paese.
[37] Per le altre edizioni e raccolte si veda la bibliografia finale.
[38] G. Cottone, op. cit., p. 12
[39] I. Calvino, Introduzione a Mimi siciliani, Palermo, Sellerio, 1971, p. IX
[40] I. Calvino, op. cit., p. X
[41] V. Santangelo, “Mimi di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989, p. 68
[42] M. Lamartina, “La vocazione scenica nel mimo di F. Lanza”, in Francesco Lanza, Palermo, Ila Palma, 1989 , p. 55
[43] S. Zappulla Muscarà, F. Lanza. Tutto il teatro, Catania, La Cantinella, 1997, p. 9
[44] S. Zappulla Muscarà, op. cit., 1997, p. 15
[45] A. Di Grado, op. cit., p. 79
[46] A. Di Grado, op. cit., p. 81
[47] V. Santangelo, op. cit., p. 73
[48] N. Basile, op. cit., p.14
[49] C. Sofia, Introduzione ai Mimi siciliani, Enna, Il Lunario, 1991, p. 9
[50] C. Sofia, ibidem
[51] Ci si riferisce a Vita e miracoli di Giustino Lambusta, Catania, Tringale, pubblicato a cura di S. Zappulla Muscarà, nel 1975
[52] R. Verdirame, Lingua letteraria e lingua regionale nel romanzo postumo di F. Lanza, “Critica letteraria”, Napoli, a. XIV, fasc.II, n. 51, 1986, p. 348
[53] R. Verdirame, op. cit., p. 349
[54] V. Santangelo, op. cit., p. 68
[55] Così lo stesso Lanza definisce le sue storie in una lettera ad Aurelio Navarria del febbraio 1922.
[56] N. Basile, op. cit., p. 15
[57] C Sofia, op. cit., 1991, p.6-7
[58] S. Di Marco, op. cit., p. 31
[59] G. Cottone, op. cit., p. 12
[60] G. Cottone, ibidem
[61] N. Zago, op. cit., p. 79
[62] N. Zago, ibidem
[63] N. Zago, op. cit., p. 80
[64] L. Sciascia, op. cit., p. 145
[65] I. Calvino, op. cit., p. XI
[66] V. Santangelo, op. cit., p. 66
[67] I. Calvino, op. cit., p.X
[68] Sono definizioni di A. Di Grado in “Il mondo offeso di Francesco Lanza”, Finis Siciliae, Acireale-Roma, Bonanno, 2005, p. 72 e 74
[69] M.Lamartina, op. cit., p. 57
[70] A. Di Grado, op. cit., p.81
[71] V. Santangelo, op. cit., p. 67
[72] M. Lamartina, op. cit., p. 60
[73] S. Di Marco, op. cit., p. 32
[74] V. Santangelo, op. cit., p. 65
[75] M. Lamartina, op. cit., p. 57
[76] A. Di Grado, op. cit., p.76
[77] S. Zappulla Muscarà, op. cit., 1997, p.9
[78] M. Lamartina, op. cit., p. 61
[79] V. Santangelo, op. cit., p. 66
[80] V. Santangelo, op. cit., p. 66
[81] A. Di Grado, op. cit., p. 75
[82] Il termine “cristiano” è da intendersi nell’accezione generale del lessico popolaresco, come “persona”.
[83] Nairn, ad esempio, nell’edizione del 1904,
adotta la forma Ἡρωίδας. È molto probabile che da questa grafia
originaria, la iota sia stata in seguito sottoscritta, lasciando spazio alla
forma Ἡρῴδας in dorico e
Ἡρῴδης
in ionico. La forma Ἡρωίδας, però, non scomparve del tutto, portando in
alcuni testi al fraintendimento della iota come di una N non completa, e da qui
la forma Ἡρώνδας.
[84] Per tutte le citazioni si farà riferimento
all’edizione di Q. Cataudella, I Mimiambi,
Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1948
[85] E. Romagnoli, Eronda e mimici minori, Bologna, Zanichelli, 1938, p. IV
[86] La "Suda" (o Suida) è un lessico
enciclopedico, compilato intorno al 1000 sulla base di fonti precedenti. Si era
pensato che "suda" fosse il nome dell'autore, ma oggi si ritiene sia
il titolo dell'opera, nel significato di 'roccaforte' (del sapere). E' il più
vasto lessico greco che ci sia pervenuto, una enciclopedia generale articolata
in circa 30 mila voci, ordinate alfabeticamente, e attinenti a tutte le
discipline: storia, letteratura, filosofia, scienze, ecc. Fonte importantissima per la conoscenza
dell'antica storia letteraria greca, conserva preziose notizie su opere andate
perdute o conservate parzialmente.
[87] A. Olivieri, Frammenti della commedia greca e del mimo nella Sicilia e nella Magna
Grecia, Libreria scientifica, Napoli, 1947, p.61
[88] Traduzione dall’edizione a cura di C. Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1974.
[89] Ha lasciato perplessa parte della critica il fatto che due donne sposate potessero allora recarsi ai giochi, essendo loro vietato, per cui si è usato l’argomento per dimostrare che di opera di fantasia doveva trattarsi e non realistica. La difficoltà si risolve sia ammettendo che si possa trattare di una licenza poetica dell’autore, sia pensando che di lì a poco le cose sarebbero cambiate e che, quindi, l’episodio narrato potrebbe essere uno dei prodromi del cambiamento.
[90] G. Mastromarco, “Il mimo greco letterario”, Dioniso, 61, 1991, p. 169
[91] J.-A.
Nairn e L. Laloy, Mimes. Hérondas,
Paris, Les belles lettres, 1991, p.15-16
[92] Furono i grammatici alessandrini a chiamare quei versi “idilli”, da ειδύλλια cioè piccole tavole, parola con un’accezione piuttosto generica.
[93] L. Canfora, Storia della letteratura greca, Roma - Bari, Laterza, 1986, p. 490
[94] D. Del Corno, Letteratura greca, Milano, Principato, 1988, p. 423
[95] F. Bernini, “Studi sul mimo”, Annali della Regia
Scuola Normale Superiore di Pisa, XXVII, Nistri, Pisa, 1915, p.15
[96] G. Mastromarco, op.cit., p.173 (citando E. Degani, Studi su Ipponatte, Bari, Adriatica, 1984, p. 53)
[97] N. Terzaghi, Prefazione, in Eroda. I Mimiambi, Torino, Paravia, 1925, p. 9
[98] F. Bernini, op. cit., p. 15
[99] Q. Cataudella, op. cit., p. IX
[100] Q. Cataudella, ibidem
[101] Q. Cataudella, op. cit., p. X
[102] Questa è l’opinione di A. Melero, “Consideraciones entorno a los mimiambos de Herodas”, Cuaderno de filologia clásica, VII, 1974, p.
[103] Nairn-Laloy, op.cit., p.30
[104] G. Mastromarco, op. cit., p.173
[105] Si riferisce in nota ai versi 107-110 e 157-159.
[106] A. Melero, op. cit., p. 312-313
[107] B. Veneroni, “Allacciamenti tematici tra la commedia greco-latina e il mimo di Eroda”, Rendiconti dell’Istituto Lombardo, CVII, 1973,
[108] G. Mastromarco, Il pubblico di Eronda, Padova, Antenore, 1979,
[109] Ph. - E. Legrand, “A quelle espèce de publicité Hérondas destinait-il ses mimes”, Revue des etudes anciennes, IV, 1902, pp. 5-35
[110] G. Pasquali, “Se i mimiambi di Eronda fossero destinati alla recitazione”, Xenia Romana, Roma-Milano, 1907, pp. 15-21
[111] Ph. – E. Legrand, op. cit., p. 9
[112] Tra i sostenitori della tesi monologica ricordiamo anche Vogliano e Melero.
[113] G. Pasquali, op. cit., p. 16
[114] G. Mastromarco, op. cit., 1979, p. 100
[115] N. Terzaghi, “La recitabilità dei Mimiambi di Eroda”, Aegyptus, 6, 1925, p. 114-116
[116] A. Melero, op. cit., p. 308
[117] N. Terzaghi, op. cit., 1925, p. 12
[118] Q. Cataudella, op. cit., p. XII
[119] E. Romagnoli, op. cit., p. XIII
[120] Per una selezione delle edizioni dei Mimiambi si rimanda alla bibliografia finale.
[121] G. Puccioni, Herodae Mimiambi, Firenze, La Nuova Italia, 1950, p. XII
[122] L. Di Gregorio, Eronda. Mimiambi I-IV, Milano, Vita e pensiero, 1997, p.XXI
[123] N. Terzaghi, op. cit., p. 29
[124] ΠΡΟΚΥΚΛΙΣ Η ΜΑΣΤΡΟΠΟΣ ; un’altra traduzione è “La procacciatrice d’affari”.
[125] Così M. Pinto Colombo, “La poesia di Eroda”, Dioniso, IV, 1934
[126] L. Massa Positano, Mimiambo I, Collana di studi greci, LI, 1970
[127] Sono di questo parere anche Nairn, Laloy, Cunningham.
[128] L. Massa Positano, op. cit., p. 52
[129] Nel mondo tragico e comico greco le due figure, la nutrice e la mezzana, a volte coincidono.
[130] Così anche Nairn, Knox, Cunningham.
[131] ΠΟΡΝΟΒΟΣΚΟΣ.
[132] Battaro indica Mirtala, la prostituta oggetto del contendere, che doveva trovarsi in tribunale.
[133]
ΔΙΔΑΣΚΑΛΟΣ
[134]
ΑΣΚΛΗΠΙΩΙ
ΑΝΑΤΙΘΕΙΣΑΙ
ΚΑΙ
ΘΥΣΙΑΖΟΥΣΑΙ
[135]
ΖΗΛΟΤΥΠΟΣ
[136] E. Romagnoli, op.cit., p. 84
[137] Q.Cataudella, op. cit., p. 66
[138] Q. Cataudella, ibidem
[139] L.A. Llera Fueyo, “Humor alejandrino en el mimiambo 5 de Herodas”, Emerita, 61, 1993, p. 57-58
[140] ΦΙΛΙΑΖΟΥΣΑΙ Η ΙΔΙΑΖΟΥΣΑΙ
[141] E. Romagnoli, op. cit., p. 101
[142] ΣΚΥΤΕΥΣ
[143] ΕΝΥΠΝΙΟΝ
[144] B. Veneroni, “Ricerche su due mimiambi di Eroda”, Rendiconti dell’Istituto Lombardo, CV, 1971, p.224
[145] B. Veneroni, op. cit., 1971, p. 231
[146] A. P. Smotrysch, “Eronda e il vecchio”, Helikon, II, 1962, p. 606-607
[147] Smotrysch, op. cit., p. 613-614
[148] A. Soffici, “A Francesco Lanza”, Il Tevere, Roma, 6 febbraio 1933
[149] S. Di Marco, Storia incompiuta di F. Lanza, Palermo, Ila Palma, 1990
[150] S. Di Marco, op. cit., p. 35
[151] S. Di Marco, ibidem
[152] A. Melero, “Consideraciones en torno a los mimiambos de Heroda”, Cuadernos de filología clásica, VII, 1974, p. 303
[153] A. Bartigazzi, “Note ad Eroda”, Athenaeum, XXXII, 1954, p. 410
[154] G. Mastromarco, op. cit., 1979, p. 135
[155] Battaro indica Mirtala, la prostituta oggetto del contendere, che doveva trovarsi in tribunale.
[156] N. Terzaghi, op. cit., p. 29
[157] Muscarìa, regia di Pietra Selva Nicolicchia, ultima messa in scena 17/09/2006.
[158] Poeta e medico siciliano, nato a Villarosa (EN) nel1879, morto nel 1942.
[159] V. De Simone, Bellarrosa: uomo serio!, Edizioni Latine, Milano, 1936, p.183
[160] V. De Simone, op. cit., p. 183
[161] M. N. Zagarella, “La trivialità leggera dei Mimi di Lanza”, La Sicilia, 6/11/06