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La valle di cafeci, foto di Ferdinando Scianna |
Ai primi di giugno
si andava in campagna [A Cafeci, ndr] coi nonni. Era una villeggiatura
famosa che durava fin dopo la vendemmia: la nostra delizia. Per molti giorni di
seguito gli asini e le mule caricavano le masserizie e le vettovaglie, sacchi
di farina e di frumento, damigiane di vino, orci d’olio, forme di cacio: una confusione come un trasloco, su cui aleggia
ancora nel mio ricordo la figura bianca della nonna dal lungo profilo di
medaglione. La zia partiva la prima, e al nostro arrivo tutto era in ordine
nella casa, le ragnatele scomparse dai soffitti di
canna. Il rame scintillava fastosamente nella cucina, anche le viottole e
l’acciottolato sotto la pergola erano tersi, senza un filo d’erba e una frasca.
Una mattina, finalmente, il nonno a cavallo della sua bella asina grigia, con la giacca che gli arrivava alle ginocchia come una redingote, i calzoni a fisarmonica sulle scarpe slacciate, come quelli delle statue equestri, il cappello nero di paglia rialzato sulla fronte, passava dalla scuola. Affidava la bestia al bidello, ed entrava con la lunga bacchetta di mandorlo sotto il braccio, senza lasciare la sua aria dura e imperiosa e il cipiglio soldatesco.
Il mio maestro era un prete terribile, dalla faccia, le spalle e i piedi larghi come Platone. La bacchettina di ferro che teneva infilata nella manica donde, all’improvviso, sembrava uscire come un serpente da una buca per avventarsi sulla punta delle nostre dita, ci faceva tremare, specialmente quando col vocione collerico egli ci chiamava alla lavagna o, a faccia a faccia col mappamondo, un grosso cocomero su cui al tocco delle sue mani quadrate giravano confusamente allo sguardo i disegni frastagliati dei continenti e dei mari, tagliati a fette dai paralleli. La vista del nonno lo faceva diventare sorridente, gli spianava il volto enorme dagli occhi da bue, duri e scintillanti come vetro sotto i sopraccigli folti come baffi. Mi chiamava dal banco, e battendomi con la bacchettina sulla spalla mi lasciava cadere dall’alto della sua statura il tuono non so se di una paternale o d’un elogio. Per un’eccezione, che mi spiegavo con la presenza del nonno, potevo andarmene in vacanza prima della chiusura della scuola. Montavo, aiutato dal bidello, in groppa all’asina grigia che drizzava fieramente le orecchie e a un colpo di bacchetta s’incamminava d’un passo lesto e sonante, come una giumenta.
Il nonno era di poche parole, non apriva bocca che per un ordine o un rimprovero. Facevamo la via in silenzio. Lui e la zia non ammettevano che si potesse stare senza far niente, crogiolati nella propria pigrizia. A nessuno era concesso riposo più del necessario, anche in villeggiatura: non me ne sarei stato tutto il giorno sotto gli alberi a gingillarmi coi grilli o al fiume a solleticare con un filo d’erba le idrometre natanti sui piccoli stagni o la nuca candida di Rosa che lavava. Il nonno, obbedendo alla sua natura georgica, avrebbe potato, buttato giù gli alberi morti, rialzato le siepi cadenti, rifatto la meridiana, imbastito panieri e canestri, aggiustato ogni cosa.
Io avrei portato, per la mia parte, le pietre per le siepi, mondato le bacchettine d’olmo e le canne per i canestri; avrei dovuto ogni dopopranzo raccogliere i frutti che caduti per il vento dai rami ricoprivano fitto il terreno. Ma la campagna mi bastava anche per sé sola, e tutto diventava uno svago: vedo quel sole dolce, sfavillante, sull’ombra verde e folta della valle, il fumo che si leva a mezzogiorno tra gli alberi come se qualcuno fumasse un grosso sigaro, l’argento tremulo dei pioppi rovesciato dal vento. La mattina, anche per poco, avrei cacciato i grilli tra le frasche, la sera, dopo aver giocato ad asso pigliatutto col garzone, mentre il nonno leggeva ad alta voce per tutti il giornale, mi sarei addormentato sul petto bianco della serva, al canto del chiù che veniva fedelmente a posarsi sul pioppo dietro la casa.
All’ultimo ponte, appariva tutta la valle, fresca come un orto. Le canne e i noccioli stormivano sul fruscio delle acque, s’udivano a tratti delle voci, isolate e sospese nell’aria, e più rude il tintinnìo d’acciaio d’una zappa contro un ciottolo. Scendevo da cavallo per cogliere le more che cominciavano a maturare. Una profonda e grave letizia mi riempiva il cuore: pensavo di diventare un poeta o un eroe, in una cornice campestre. Nonostante i pochi anni ero un romanticone.
***
L’ora più bella era il mezzogiorno. C’era una sosta generale, tutto sotto il sole sembrava sonnecchiare: solo, tra i grappoli della pergola, ronzavano sonoramente i calabroni. Dalla cucina venivano i profumi del pranzo e le voci lente e cordiali delle donne. Rosa entrava ed usciva coi piatti, rosea e carnosa come una cipolla. Il suo aspetto mi dava sempre l’idea del fiore di cui portava il nome, e delle cose e dei piaceri campagnoli, dei frutti, degli ortaggi, del tepore del latte e del fresco dell’acqua. Io mi mettevo sul letto, con una vecchia storia sacra sui ginocchi: dalle stampe ingenue e calligrafiche mi venivano incontro con un senso di favola e una solennità sacra le figure di Giuseppe venduto e dei suoi fratelli, di Daniele nella fossa dei leoni, di Giuditta che esce dalla tenda con la spada in mano e nell’altra la testa d’Oloferne. Il nonno, che era stato in moto tutta la mattinata, si tagliava pelo per pelo la barba con la forbicina, senza guardarsi neppure allo specchio, o andava su e giù con le mani dietro la schiena, ripetendo cupamente, lui che trovava un segreto scopo in ogni atto della vita: — Mondo stupido! mondo inutile! — Sfogava con un malinconico piacere il suo umor misantropico e intanto con la spatola di cartone dava una caccia senza quartiere alle mosche. Un po’ da per tutto, su tavolette di legno, metteva dei pezzi di zucchero e di frutta e non appena le mosche ingordamente vi si posavano lasciava cadere la spatola con un colpo che risonava in tutta la casa. Con un gesto meccanico le coglieva anche a volo, fulminandole. Quelle che sfuggivano al massacro, spaventate e stupide, con un lungo giro andavano a finire come magnetizzate nelle bottiglie a doppio fondo piene d’un liquido dolcificato e venefico, che erano sul davanzale della finestra e sulle mensole. Con un ronzìo sinistro, mentre in una stampa della storia sacra Daniele passeggiava tranquillamente in mezzo al fuoco della fornace, le sentivo pian piano affogare, nere e ridicole, nel lago lattiginoso delle bottiglie.
Francesco
Lanza, Il Tevere, 19 agosto 1930