GIOVANNI MELI
Il Meli mi capitò la prima volta fra le mani in casa d'una zia, gioviale e lunatica, alla quale andavo a far compagnia l'estate, tornando dal ginnasio. Ricordo le lunghe sere, io, lei, la serva e il cagnolino Romeo zoppo d'un piede, nel grande salone dallo specchio dorato sull'étagère alla pompadour, le oleografie delle Stagioni alle pareti e il soffitto stellato con una donna ignuda nel mezzo, che si stringeva al petto paffuto e roseo come l'aurora un candido velo svolazzante, sul fulgore dei candelabri. Al posto d'onore, nelle belle cornici ovali, fra i ritratti più recenti, delle lontane prozie in crinolina e tuppé, dolcemente svanite e sopravvissute nel suggello del tempo, si appoggiavano col ventaglio in pugno al braccio degli sposi dalle alte cravatte e lo sparato gonfio come un piccione.
Il libro faceva parte d'una eredità gentilizia arrivata alla zia, insieme a certi ninnoli d'un delizioso sapore goldoniano e pastorale, attraverso un lungo seguito di parentele. Nelle stampe del Patania, che adornavano la Fata Galanti, il Meli era bonario e sostenuto, con qualcosa davvero d'ecclesiastico, di dottorale e d'arcadico nell'abito e nell'aspetto, che me lo faceva riconoscere a prima vista. In redingote e collarino, la bella chioma canuta volta sulla nuca, non confacente a quella scappata di gioventù nel paese di fantasia, egli volava in groppa al cavallo alato, tenendosi stretto alla fata sottile come una spillo, conversava col vecchio Oreto che da una conchiglia lasciava scorrere il volume delle acque, se ne stava a guardare Amore che s'arrampicava su un albero, mentre dalla macchia sbucavano due gendarmi d'Olimpo con spiedi e berrettino alla scozzese per dargli la caccia come a un beccafico. Il senso della favola, di quel mondo di capriccio, di grazia e di sospiro alla natura, si limitava ai miei occhi a tali immagini. Se volevo completarlo, quello del testo mi sfuggiva da ogni parte: il dialetto, che pure io parlavo ogni giorno, diventava alla lettura pieno di stento e d'artificio, come trasportato in un linguaggio diverso e approssimativo, e nello stesso tempo mi pareva inverosimile che così avvilito dall'uso volgare potesse innalzarsi alla poesia.
La zia conosceva il Meli, Era una conoscenza tramandata anch'essa, come il libro e i ninnoli di porcellana, di parentela in parentela. Molto s'era perduto per via, nei passaggi di proprietà: era rimasto soltanto quel poco che il tempo aveva risparmiato e che maggiormente sì adattava al carattere sociale della famiglia e particolare della persona. Subitamente animandosi, coi grossi occhi di luccio, a fior di testa, che brillavano dell'arguzia del verso, essa recitava a memoria, o leggeva, secondo l'umore e lo spunto del momento. Con meraviglia, nel calore della voce, sentivo d'un tratto le parole, che alla lettura m'erano parse così piene d'artificio, riacquistare la loro naturalezza e l'innato sapore, e svelare l'incanto dell'arte. Vedevo le stagioni comporsi sensibilmente allo sguardo, coi gesti simbolici e attuali, così distanti e fermi e pure presenti, e i vivaci colori, che avevano nei quadri alle pareli e nelle immagini lasciatemi dalla campagna: l'Estate col falcetto in pugno e il mazzo di spighe sulla spalla, l'Autunno col grappolo d'uva e il canestro di frutta, l'Inverno col cappuccio e la mantiglia orlati d'ermellino e la mano tesa a raccogliere la neve fioccante; la Primavera con le rose al petto fiorente, e in alto una rondine; i pastori e gli amanti atteggiarsi con una grazia levigata di biscotto, e insieme un accento di familiare semplicità, come nei ninnoli di porcellana; le Nici e le Clori impersonarsi e animare, ringiovanendole nelle cornici dall'evanescenza del tempo, le prozie in crinolina e tuppé, e quale, alla fantasia, mostrava come nel verso la voluttà del labbro, quale la malizia sorridente e incantatrice degli occhi, quale il segreto ornamento del seno.
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Non potei facilmente liberarmi di questo ricordo. In fondo, in ogni siciliano che si occupa di poesia c'è sempre qualcosa di « meliano », recondito o manifesto: quello stesso sentimento della natura, la lontana inclinazione alla vita rustica e alla pace, alle ombre mormoranti sotto le fronde e nelle valli, alle spighe, alla mandrie, alle delizie e ai riposi delle stagioni, che discende da Mosco e da Teocrito; il gusto di ridurre l'adesione o il dissidio con la realtà in favola, in idillio e in allegoria. Tutto questo nel Meli è portalo alla sua ultima espressione, dove la verità finisce quasi nel tipo e nello schema, e l'arte nella squisitezza troppo dolce, ma ancora ingenua come una seconda natura, dell'artefatto. Nessuno più di lui poteva cantare come Mosco : — Oh m'avesse il padre appreso a pascolare le greggi! — e spingere, questo platonico desiderio fino all'età dell'oro, cui i poeti si sentono facilmente trasportati, in un mondo idealizzato, dove l'aratro ha sostituito la spada, l'istinto si sposa alla saggezza con un'antica sanità popolana, e la Pace e la Giustizia, stritti abbrazzati, siedono sotto un albero, come in un quadro allegorico,
E fu così che tornai ancora al Meli.
Fu arcade o non fu arcade? Tutta la critica del Meli s'è aggirata intorno a questa domanda. Ma è una questione che conta poco. Libera dalle scorie, sotto le fronde caduche della scuola e della maniera, proprie del tempo in cui il poeta vive, resta una fresca e vegeta poesia: l'amore e la celebrazione della terra, che sono al fondo dell'uomo come un instancabile ritorno, un innocente trasporto per la bellezza sensuale, della donna e della natura, un umor popolare, fatto di buon senso e d'arguzia, che vede il giusto e vi aspira, coglie con evidenza e vigoria i moti del corpo e dell'animo, dei difetti sorride dall'alto, o non più compatendo li dissolve nel riso della caricatura o nel sale della sentenza.
Ogni poeta risolve secondo il proprio genio il problema dell'espressione: e certo il dialetto, fosse il caso o la diretta ispirazione com'è più credibile, col suo sapore immediato, il colorito, il sottinteso e il trapasso della rappresentazione che ha del popolo, servì ottimamente al Meli per raggiungere, dove l'ha, questa vivezza e indipendenza dall'Arcadia, per reagire, in un certo senso, contro la sua propria natura, e ravvivarla dov'era più sincera e originale. Vedete, nella Fata Galanti, la scapata e baldanzosa foga, lo scoppio rumoroso di risa, con cui, per la gioia d'averlo finalmente trovato, adopera il naturale linguaggio della sua poesia. Divenendone signore, non soltanto per averlo nel sangue e con l'accostarsi al popolo vero della campagna e della città, ma anche per la sua cultura umanistica, egli dovette quasi farsi un impegno di adattarlo a tutte le corde e le cose da esprimere, di vedere fin dove era possibile portarlo, di piegarlo ed estenderlo a ogni genere poetico. Questo può dare la ragione di ciò che pare talvolta la convenzionalità tutta letteraria, lo squilibrio della forma rispetto alla materia, e come l'andamento dello stesso dialetto sia diverso nella varietà del canto: paludato, e quasi rifatto sulle orme di Virgilio e dei modelli pia recenti, ne La Buccolica, ch'è un genere classico, elegante e incipriato nelle odi che si potrebbero dire da salotto, realistico e plebeo nel mimo, nel ditirambo e nelle parti più felici dei poemi, pieno di verità, di respiro e movimento popolareschi nelle canzonette e nelle favole, dove acquista tutta la sua ragion d'essere è, specie nelle ultime, la compostezza e perfezione di lingua a sé stante.
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Alla fortuna del Meli ha certamente nociuto lo zelo degli esaltatori ad ogni costo. Per i più, tutta la sua poesia è grandissima e intoccabile, e bisogna vedere le grida e le penne d'oca che sono volate inutilmente per l'aria. Nelle edizioni, seguenti a quella del 1814, che per il Poeta era la definitiva, l'opera già ponderosa ha preso, a cura degli ordinatori, proporzioni impressionanti: tutto quello che gli uscì, e parecchio anche che non gli uscì, dalla penna, è stato raccolto e pubblicato, sempre col proposito dì mostrarne la grandezza. Il Finzi restò atterrito dalla congerie di versi che doveva leggere, e il suo giudizio ne fu impressionato. Così al lettore comune, poco attirato per giunta dal dialetto, riesce difficile, per non dire impossibile, trovare tra il frusto e l'inutile quello che di vivo, di. durevole e di non minore c'è ancora in questa poesia.
Una scelta ridotta ai punti essenziali, sia pure tendenziosa o monca come per gli specialisti sarà la presente, può riuscire perciò, particolarmente in questa collezione, utile alla conoscenza e alla giusta valutazione del Poeta. Nel farla, ho seguito naturalmente il mio solo gusto, andando anche contro la fama o l'ammirazione di giudici insigni per certi componimenti. Ho escluso anche, ad eccezione della Fata Galanti, i poemi, perché in fondo nulla aggiungono all'arte dell'Autore e alla curiosità del lettore.
E così posso dire d'aver finalmente soddisfatto quel primo ricordo e quel tanto che c'è in me dì « meliano ».
Francesco Lanza
("Le più belle pagine di Giovanni Meli scelte da Francesco Lanza" (prefazione a), Treves, Milano, 1935 – collezione Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi diretta da Ugo Ojetti)